Pubblichiamo l’intervento di Domenico Airoma al convegno, organizzato dall’Associazione Nazionale Magistrati, dal titolo “Beati i giusti. In ricordo di Rosario Livatino” presso l’Aula Magna della Corte di Cassazione.
Il 18 giugno si è svolto, presso l’Aula Magna della Corte di Cassazione, il convegno, organizzato dall’Associazione Nazionale Magistrati, dal titolo “Beati i giusti. In ricordo di Rosario Livatino”. Dopo gli interventi del Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, che ha sottolineato come il giovane giudice siciliano debba essere considerato un esempio da seguire per tutti i magistrati, del Primo Presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio, del Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, e del Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, il profilo di Rosario Livatino è stato descritto da Giuseppe Meliadò, Presidente della Corte di Appello di Roma, Antonio Tricoli, Presidente del Tribunale di Sciacca, Ottavio Sferlazza, già Procuratore della Repubblica di Palmi, e da Domenico Airoma, Procuratore della Repubblica di Avellino e vice presidente del Centro Studi Rosario Livatino, autore, insieme ad Alfredo Mantovano, Consigliere della Corte di Cassazione, e Mauro Ronco, professore emerito di diritto penale, del volume Un giudice come Dio comanda. Il convegno, che ha visto anche gli interventi del postulatore diocesano della causa di beatificazione, don Giuseppe Livatino, e del teologo Vito Mancuso, che ha tenuto una meditazione sul tema “Qualcosa di perfettamente diritto”, è stato trasmesso anche in streaming sul sito dell’associazione magistrati.
Illustri Autorità,
Gentili colleghi,
Signore e Signori,
desidero innanzitutto ringraziare l’Associazione Nazionale Magistrati per l’invito, anche a nome del Centro Studi Rosario Livatino.
- Chiarisco, in esordio, che non ho conosciuto Rosario Livatino. Il mio incontro con il giovane giudice siciliano è stato alquanto “casuale” (ma cosa, davvero, è casuale nella vita degli uomini!); risale a più di venti anni fa oramai, quando, occupandomi del periodico dell’A.N.M. “La Magistratura”, pensai di ospitare dei contributi che descrivessero le figure dei magistrati caduti vittima del dovere e decisi di partire proprio da Rosario Livatino.
Ricordo bene quel momento; mi sembra di avere ancora tra le mani il biglietto manoscritto che il papà di Rosario fece pervenire all’A.N.M., ringraziandoci per l’attenzione verso quel figlio sacrificatosi per la Giustizia.
- Da quel momento è iniziata una lunga indagine, un’indagine tutta personale, sollecitata dal fatto che non vi erano scritti che lo riguardassero, neanche un’intervista rilasciata durante la sua pur non brevissima carriera e nonostante si fosse occupato di indagini anche importanti per la Sicilia di quel tempo. Insomma un unicum! Ma che cosa davvero ne faceva un unicum nel panorama della magistratura italiana del tempo ( e forse, di ogni tempo)?
- La prima fonte che ho interrogato sono stati i suoi provvedimenti, quelli che ho potuto consultare. Ciò che colpisce, ad un primo sguardo, è la chiarezza della scrittura, la densità degli argomenti, la ricchezza dei riferimenti giurisprudenziali; ma, soprattutto, l’assenza di approssimazione, indizio evidente –avrebbe detto un grande scrittore russo, anch’egli ucciso in odium fidei, Pavel Florenskij- di linearità di pensiero.
- Poi ho provato a collocare quei provvedimenti nel loro contesto, di tempo e di luogo: un tempo in cui non vi erano gli strumenti normativi ed investigativi che sono venuti dopo, un luogo –fra Canicattì e Agrigento- dell’entroterra siculo, isola nell’isola, dove il mafioso era il tuo vicino di casa (e per Rosario, non è affatto una metafora!)
- Il passaggio ulteriore è stato quello di capire cosa pensasse del ruolo del magistrato e della funzione del giudicare; e qui sono stato fortunato, perché ho avuto modo di leggere e di studiare due gioielli, le sue due uniche conferenze pubbliche: l’una, sul ruolo del giudice nella società che cambia, del 1984, e l’altra su fede e diritto, tenuta due anni dopo. E lì ho incominciato a capire qualcosa di più di quell’unicità: nel modo in cui considerava l’indipendenza del giudice, il rapporto con la persona da giudicare, il fondamento della credibilità del giudice. Belle parole, concetti profondi non banali; ma pur sempre parole.
- Ed allora mi sono chiesto: quelle parole sono rimaste sulla carta o sono state incarnate? Ho iniziato, perciò, una sistematica raccolta di testimonianze, ascoltando (e talora, perseguitando!) molti dei colleghi che hanno lavorato con lui. C’è stata quella che, nel gergo a noi comune, potremmo definire convergenza del molteplice: tutti concordi nel tracciarne il medesimo profilo: magistrato di grande umanità ed umiltà, sempre disponibile, apprezzato dagli avvocati e dai collaboratori amministrativi, diviso tra il lavoro, la famiglia e la sua intensa vita di fede. Ma non diviso in sé stesso. Perché la sua è stata una vita nella quale l’uomo ed il giudice non hanno percorso strade diverse. Direi di più: l’uomo, il giudice ed il credente hanno respirato con gli stessi polmoni, animati dallo stesso cuore.
- La mia indagine sembrava giunta ad un punto decisivo: avevo capito che Livatino più che fare bene il giudice, era stato un buon giudice. Stavo per archiviare l’affare; poi, però, è incominciato il processo di beatificazione. Ed allora mi sono chiesto: perché Livatino e non Falcone o Borsellino? Eppure tutti e tre avevano trovato nel rendere giustizia il senso della loro vita! La risposta, ancora una volta, era nella sua vita, prima ancora che nelle sue, pur inequivocabili, parole. Per Rosario la prospettiva del rendere giustizia superava la dimensione terrena; per lui rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Insomma è la risposta ad una chiamata. Questo è quello che si legge nella conferenza su fede e diritto; ma questo, soprattutto, è quello che si legge nelle pagine della sua agenda, che raccontano di un travaglio, di una spiritualità drammatica, di un uomo che cerca di incarnare la fede nel quotidiano.
- Sbaglierebbe, infatti (ed io stesso ho commesso questo errore!) chi pensasse di trovare nella vita di Livatino fatti straordinari, dal momento che egli ha vissuto l’ordinario in modo straordinario; e questo perché era nell’ordinario che egli trovava il modo per rispondere a quella chiamata.
Noi siamo abituati a considerare il martirio rimanendo attratti dall’esito finale, dall’effusione del sangue; dimenticandoci che prima c’è “fino”; ecco, il martirio civile e religioso di Rosario è in quell’avverbio, così breve ma così lungo, lungo quanto una vita intera.
- Non ho risparmiato, in questo mio indagare, neppure il postulatore, don Giuseppe Livatino; a lui mi ricordo di aver chiesto quali miracoli avesse compiuto Rosario per meritarsi gli onori degli altari. Mi parlò dei suoi assassini, mi disse di come in qualcuno il ricordo di quel giovane giudice si fosse trasformato in un tormento di coscienza, tanto da fargli avviare un percorso di ravvedimento. Mi parlò di Pietro Nava, il testimone dell’agguato; colui al quale Livatino aveva cambiato la vita, e così cambiando forse la vita di tanti siciliani che vedevano finalmente qualcuno avere il coraggio di non piegarsi dinanzi alla tracotanza mafiosa. Mi invitò a continuare a scrivere e a parlare del sacrificio di quel magistrato, ucciso in odio alla fede, perché in lui avevano voluto uccidere il santocchio, un giudice che non si era lasciato piegare per non tradire un giuramento fatto dinanzi agli uomini, ma sub tutela Dei, al cospetto di Dio.
- Finisce qui l’indagine? Nient’affatto. Continua e credo fino a che il buon Dio me ne darà la forza. Una volta, infatti, compreso l’unicum di Livatino, non si può non avvertire il bisogno di diffondere il modello Livatino. E che cosa in particolare? C’è un aspetto che rende questo modello davvero singolare ed attuale. Rosario Livatino si è interrogato sul fondamento ultimo dell’autorità del magistrato, che è, probabilmente, la vera questione morale della magistratura. Che sia credente o non credente, il giudice deve, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia, deve avvertire tutto il peso del potere affidato alle sue mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, senza atteggiamenti da superuomo.
- Egli si è pure interrogato sul fondamento ultimo del decidere, dello scegliere cioè fra più alternative e strade e soluzioni. Un fondamento che risiede nel compito del magistrato di individuare la regola per il caso concreto, dando alla legge un’anima, non un’anima alla legge, cioè creandola dal nulla; e soprattutto, nella consapevolezza che per scegliere occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta.
- In definitiva, l’unicum di Rosario Livatino sta in Rosario Livatino. Egli è la risposta; la risposta alla domanda che ci facciamo, in molti, in quest’aula e fuori; che si fanno quei tanti magistrati che stanno soffrendo per questo calvario; che soffrono perché amano questo mestiere, poiché lo ritengono molto più di un mestiere.
Ed è una risposta, permettetemi di dire, davvero provvidenziale. Sia se si è credenti, sia che non lo si è.
Grazie
Mercoledì, 16 giugno 2021