Rendere giustizia non è un gioco. O almeno non dovrebbe esserlo. Ma è quanto sembra pensare il nostro legislatore. Almeno da trent’anni a questa parte
di Domenico Airoma
La strada della contesa fra duellanti è stata intrapresa, per vero, più di trent’anni fa, allorquando il nuovo Codice di procedura penale stabilì che quel che conta non è la verità dei fatti, ma quella processuale; vale a dire, quella che riesce a far trionfare chi è più bravo o chi è più forte.
Con la riforma Cartabia l’aspetto ludico sembra trovare una definitiva consacrazione.
Partiamo dal calendario degli incontri, cioè dei processi. L’intervento riformatore ratifica definitivamente il potere del pubblico ministero, cioè di uno dei contendenti, di decidere quali partite si giocheranno e quante squadre non lasceranno mai gli spogliatoi. Ed infatti, i Capi delle Procure stabiliranno, con i cosiddetti criteri di priorità (pur nel quadro di non meglio specificate indicazioni del Parlamento), non solo quali reati andranno perseguiti, ma, ancor più significativamente, quali crimini resteranno chiusi negli armadi, il che condurrà verosimilmente anche la criminalità a fare dello “shopping giudiziario”, dirottando i propri traffici laddove c’è garanzia di impunità.
Capisco l’esigenza di regolamentare un modo di fare già ampiamente seguito dalle Procure, ma, anziché alzare bandiera bianca, non sarebbe stato opportuno un’operazione di sfoltimento dell’ingestibile catalogo di reati vigenti nel nostro Paese, frutto di una oramai sistematica delega al diritto penale dell’etica pubblica (come, da ultimo, il DDL Zan sembra confermare)?
Veniamo alla questione della durata dei processi. L’Europa, e non solo, ci chiede di abbreviare i tempi della risposta di giustizia. Come non condividere! Rimanendo nella metafora agonistica, ragionevolezza avrebbe imposto di intervenire sui tempi morti o sugli espedienti meramente dilatori; si è preferito, invece, tagliar corto e eliminare direttamente la risposta di giustizia. Ed infatti la riforma prevede che se il giudizio di appello, o quello di Cassazione, non si concluderanno entro un tempo prefissato, la domanda di giustizia diventerà improcedibile. Insomma: game over, con buona pace soprattutto delle vittime, a cui rimane il girone di consolazione della giustizia civile notoriamente (!?) dai tempi rapidi. Senza contare l’oggettivo incentivo a giocare sempre la carta dell’appello o del ricorso in Cassazione, considerando l’ingolfamento dei grandi uffici giudiziari, i quali si troveranno, di fatto, a dover gestire un’amnistia mascherata, poiché sarà difficile rispettare i tempi fissati dalla riforma, dato l’enorme arretrato pendente.
Da ultimo, la pena: qui gli effetti corrono il rischio di essere ancor più devastanti. Ed infatti, se pure si riesce a giungere al termine di una partita così insidiosa con l’applicazione di una pena a chi è riconosciuto colpevole, ben difficilmente si apriranno per quest’ultimo le porte del carcere. La riforma Cartabia prevede che per i condannati a pene anche molto elevate (fino a sei anni di reclusione) possano beneficiare dell’affidamento in prova al servizio sociale, il che significa che, ad esempio, rapinatori, spacciatori ed estorsori “sconteranno” la loro “pena” sotto lo sguardo interessato di chi da quel circuito extracarcerario trae profitto. Il che lascia più di un dubbio sull’effettività del percorso rieducativo e alimenta il sospetto che, probabilmente, i condannati non avvertiranno mai il pur indispensabile aspetto afflittivo della pena.
Veniamo, infine, ai principali protagonisti della contesa.
Come in ogni partita, è importante, innanzitutto, che l’arbitro sia imparziale; il che consiglierebbe che la carriera del giudice o le sue infrazioni disciplinari non siano giudicate da chi in quella contesa è chiamato ad avere il ruolo di duellante, pubblico ministero in primis. E richiede, comunque, che il giudice abbia un ruolo centrale. Fa parte dei principi che ogni stato di diritto dovrebbe rispettare, non solo Ungheria e Polonia.
Ci si sarebbe attesi che la riforma intervenisse sul punto. Ed invece, nulla. Anzi, l’intervento del giudice è sempre più eventuale e spostato in avanti. Tutto si decide nella fase delle indagini preliminari: quel che conta è il primo tempo, quello solitamente occupato dalle misure cautelari. Lì si concentra l’interesse di tutti, mezzi di informazione compresi. La sentenza conta poco: quando verrà e, soprattutto, se verrà.
Né portata più decisiva e lungimirante sembrano avere i quesiti referendari pure proposti in tema di giustizia. Sul merito, largamente inadeguato rispetto agli obiettivi proposti, si è già detto diffusamente da parte del Centro Studi Rosario Livatino. Quel che emerge evidente è il significato simbolico che i proponenti assegnano a tale iniziativa. I simboli, però, mal si conciliano con le riforme, anche se abrogative. Corrono il rischio di alimentare illusioni, specialmente quando vengono sbandierati da chi – come i Radicali – per decenni ha operato per la demolizione di ogni residuo morale ed istituzionale di un ordine sociale, oppure da chi fa parte della stessa compagine governativa che sostiene un altro disegno riformatore, dal tenore sensibilmente diverso, sullo stesso tema. Grande assente, in definitiva, è la questione morale della magistratura. Una questione che richiede interventi coraggiosi, anche strutturali; innanzitutto, la presa d’atto del fallimento di un sistema, che non è solo quello descritto da Sallusti e Palamara. E poi la necessità di affrontare, seriamente e alle radici, la crisi etica di tanti magistrati (ma non solo), chiamati a fare i conti con un malinteso senso del rendere giustizia.
Lunedì, 12 luglio 2021