Da Avvenire del 22/03/2022
Si chiama Pesel: è un numero – una sorta di codice fiscale – con cui i profughi scappati in Polonia ottengono il diritto all’istruzione, alla copertura sanitaria e al lavoro. In una parola, diventano polacchi. Almeno finché l’incubo della guerra non sarà finito e il Paese da cui sono fuggiti ricostruito. La speranza di migliaia di rifugiati ucraini è legata a questo acronimo: per questo da due giorni lo stadio nazionale di Varsavia è preso d’assalto da chi con quell’agognato numero spera di cominciare una nuova vita. Al gate numero 11 dell’impianto sportivo, simbolo dell’amicizia tra Polonia e Ucraina – che proprio qui decisero di inaugurare i loro Europei del 2012 – i rifugiati arrivano già alle prime ore del giorno. Donne e bambini affollano l’immenso piazzale antistante i cancelli di ingresso. Ad accoglierli gli immancabili volontari con la casacca gialla, coadiuvati questa volta anche dagli steward in tenuta blu dello Stadion Narodowy. Con il passare delle ore la fila si fa sempre più lunga, con le nonne che si allontanano con i passeggini per cercare di consolare i bimbi più piccoli. Arrivano da ogni parte dell’Ucraina: Kiev, Kharkiv, Zaporizhia o Leopoli. Hanno storie da raccontare, delle loro case sventrate dalle bombe, delle esplosioni e degli interminabili viaggi fatti per arrivare al confine. Da sole, senza i mariti o i papà rimasti in Ucraina a difendere il Paese. «Ora quello che mi interessa di più – dice una donna arrivata ormai più di una settimana fa da Kiev – è trovare lavoro. Per me è fondamentale». «In questo momento non sappiamo più che pensare – confessa una ragazza –, speriamo che il resto del mondo intervenga al fianco dell’Ucraina». Nei primi tre giorni di apertura degli uffici allo stadio di Varsavia, sono stati già oltre tremila i rifugiati che hanno chiesto ed ottenuto il “Pesel”. In seguito all’invasione russa, infatti, il governo ha deciso di concedere la possibilità a tutti gli ucraini arrivati sul territorio polacco di ottenere il numero per il permesso di soggiorno, che può essere richiesto comunque anche in altri uffici presenti sull’intero territorio. Allo stadio, però, ci sono quasi 200 postazioni dedicate esclusivamente a smaltire le pratiche burocratiche. Sui tavolini, accanto ai moduli in ucraino, polacco e russo, campeggiano i passaporti blu dell’Ucraina. Molte donne custodiscono gelosamente i certificati professionali o gli attesati dei corsi di studio. I bambini scorrazzano nell’area loro dedicata, tra pennarelli e peluche, con i più piccoli che invece si divertono a giocare a nascondino nelle macchinette per le fototessere. Gli unici uomini in fila sono minorenni, con il capo chino sul telefonino a parlare con gli amici o divertirsi a qualche videogioco. Scene simili al di là della Vistola, davanti alla sede del consolato ucraino in Polonia. Questa volta l’area per i bambini è un parco giochi allestito in un giardino, mentre all’esterno della sede diplomatica – presidiata dalla polizia – i volontari del Lions Club hanno allestito un gazebo per fornire indicazioni e fotocopie gratuite per i rifugiati. Un ragazzo di Odessa chiede alcune copie del modulo per il Pesel, ringrazia e afferra una delle mappe della città messe a disposizione dai volontari. «Domani torneremo con tutta la famiglia allo stadio, oggi la fila era troppo lunga», dice prima di andare via.