La pillola EllaOne e l’utero in affitto vogliono, per l’ennesima volta, la libertà senza responsabilità, frantumare ogni legame umano. Almeno nel secondo caso l’opposizione è più evidente, ma la battaglia sarà comunque difficile
di Chiara Mantovani
È confermato dal Consiglio di Stato: una minorenne può comperare e assumere la pillola EllaOne da sola, senza ricetta. Per l’aspirina, invece, deve essere d’accordo almeno la mamma. La “pillola dei 5 giorni dopo” non serve a curare malattie (se così fosse, ci vorrebbe la ricetta!), ma serve solo ad abortire a casa propria. Pensare che l’aborto di una minorenne sia una faccenda alla quale nessuno deve partecipare – tranne, ‘ovviamente’, le sirene abortiste che strillano supposti diritti – offre una misura del percorso rivoluzionario. Nell’opera di eliminazione delle strutture protettive della persona umana, nulla è più vitale del rapporto tra genitori e figli, quel dialogo che, reso fisiologicamente difficoltoso quando l’adolescenza scardina le certezze identitarie dell’infanzia, custodisce il passaggio e la consegna di amore, di significato della vita, di fede e di cultura, di ascolto di nuove istanze e di equilibrio nel giudizio sul reale: in una parola, di una tradizione. Che, per essere autentica, passa attraverso un racconto e un ascolto, una bidirezionale disponibilità basata sulla fiducia e sulla verità. Da qui la necessità rivoluzionaria di minarne in ogni modo lo sviluppo e di porre ostacoli, facendo leva – come ab initio – sulla parola performativa di tutte le rivolte: libertà. Ogni ragazzina deve essere ‘libera’, senza scomodi difensori. Così sarà definitivamente prigioniera del ‘progresso’. Quello che, ormai, consente di ‘avere’ figli anche senza il necessario.
Eppure, misericordiosamente, ecco nello stesso giorno arrivare un’altra notizia: forse si riesce a vietare l’utero in affitto, anche per chi lo cerca all’estero. Con il disegno di legge a firma di Giorgia Meloni, si apre una speranza che almeno la mistificata “gravidanza solidale” si possa per legge chiamare con il suo nome: reato universale. Ovvero, che prestare il proprio utero per gestire la gestazione altrui, ovunque si corra per realizzarla, sia considerato illegale. Sembra piuttosto farisaico, oggi, sostenere che non ci sia bisogno di un tale provvedimento legislativo, dal momento che in Italia la pratica sarebbe vietata dalla legge 40/04, ma di fatto i tribunali sono da tempo alle prese con processi per il riconoscimento di bimbi concepiti in tal modo. L’ennesima beffa a danno di una legge abilmente manipolata.
Per convincere che sia anche una barbarie, contraria alla dignità del nascituro e della donna, occasione spesso di sopruso e di sfruttamento, ci vorrà – letteralmente – del bello e del buono, ma intanto si può iniziare con una legge; la quale non sarà una panacea, ma almeno solleverà il problema. Sarà davvero necessario mostrare il bello della gravidanza, come meraviglioso accudimento biologico di una nuova vita e presa in carico di un rapporto, quello tra madre e figlio, assolutamente unico e insostituibile, non surrogabile.
Poi bisognerà mostrare la bontà, oltre il bonton legale, di un divieto: proteggere ciò che è delicato e fragile resta un dovere anche quando richiede di vincere le scorciatoie e gli interessi personali, anche quando impedisce di accontentare un desiderio, pur legittimo in sé, ma non perseguibile a qualunque costo.
Il bello è visibile agli occhi, il buono (ovvero il giusto) alla ragione.
Non c’è legame tra le due notizie, ma c’è – eccome – nella logica che sottostà ad entrambe le pretese: disporre a piacimento – rifiutando o pretendendo – la genitorialità, così che essa diventi un’opzione sciolta da qualsiasi legame di responsabilità, di impegno, di consequenzialità degli atti che si sceglie di compiere. Ma, così, non si trattano nemmeno le cose, men che meno i nascituri.
Martedì, 26 aprile 2022