Francesco Pappalardo, Cristianità n. 254-255 (1996)
«Incontro di culture. Otto secoli di evangelizzazione portoghese»
«Andate dunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (1).
«Voi Portoghesi, pochi quanto forti / che il debole poter non soppesate / e a costo delle stesse vostre morti / del tempo eterno i limiti allargate; / assegnate così dal Ciel le sorti / sono, che Voi, per quanto pochi siate / per la Cristianità molto farete: / esalta Cristo l’umiltà che avete» (2).
Queste parole erano all’ingresso della mostra Incontro di culture. Otto secoli di evangelizzazione portoghese, allestita a Lisbona, nel 1994, nell’ambito delle iniziative per ricordare il quinto centenario della evangelizzazione delle Americhe. L’esposizione, con lo stesso titolo, ma in forma più ridotta, è stata riproposta — per iniziativa della Conferenza Episcopale e del Governo della Repubblica Portoghese — a Roma, nel Braccio di Carlo Magno della Basilica di San Pietro, dal 29 marzo al 30 giugno 1996, in coincidenza con la chiusura delle commemorazioni per l’ottavo centenario della nascita di sant’Antonio da Lisbona (1195- 1232) — poi conosciuto con l’attributo «da Padova» —, il primo missionario lusitano canonizzato.
La missione del Portogallo
Situato al limite occidentale del continente europeo, dove «[…] finisce la terra e il mar s’attesta» (3), il Portogallo nasce come entità statuale con re Alfonso Enrico (1128-1185), figlio del conte Enrico di Borgogna, cavaliere cristiano impegnato nella Reconquista, cioè nella riconquista della penisola iberica invasa dai musulmani nel secolo VIII. Mentre consolidano l’assetto territoriale del loro regno, i portoghesi, «popolo crociato e missionario» (4), si dedicano alla conversione degli infedeli: con il martirio, nel 1220, di cinque francescani lusitani in Marocco, che spingerà sant’Antonio da Padova a entrare nell’ordine dei frati minori appunto per andare a predicare fra i saraceni, e con la costituzione, nell’ambito del Patronato portoghese, della diocesi di Fez, nell’Africa Settentrionale, nel 1226, ha inizio l’attività missionaria del Portogallo. Quando, nel 1311, Papa Clemente V (1305- 1314) sopprime l’ordine dei templari e ne attribuisce i beni agli ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme — tranne che nei regni iberici, dove sono devoluti agli ordini nazionali, che conducevano la crociata contro i mori —, re Dionigi (1261-1325) affida i possedimenti portoghesi dei templari all’Ordine di Cristo, costituito nel 1319, che svolgerà un ruolo primario nella difesa della Cristianità dai musulmani e nell’evangelizzazione delle terre d’Africa. L’epica avventura del Portogallo reca, però, il sigillo di un grande spirito organizzatore e trascinatore, l’infante Enrico il Navigatore (1394- 1460), che aveva dato fino dalla giovane età una contributo importante alla Reconquista e alla diffusione dell’idea di crociata in Occidente. Grazie al suo impegno «[…] cominciano i molteplici assalti contro i musulmani del Marocco, poi contro il mare. Quasi ogni anno le caravelle dell’Infante comandate dai suoi signori cavalieri partono per il Sud lontano, bordeggiando faticosamente al largo delle coste marocchine, lottando contro le correnti avverse» (5). La conquista di Ceuta, in Marocco, nel 1415; la scoperta e la colonizzazione delle isole di Madeira, delle Azzorre e di Capo Verde, negli anni immediatamente seguenti; l’esplorazione della costa occidentale africana, che ha un momento significativo, nel 1434, con il superamento di capo Bojador, il caput finis Africae, che le leggende medioevali e le superstizioni marinare avevano eretto a limite invalicabile; il viaggio di Bartolomeo Diaz (1450-1500), che nel 1488 doppia il Capo di Buona Speranza ed entra nell’Oceano Indiano; l’impresa di Vasco de Gama (1469-1524), che nel 1498 unisce Lisbona a Calcutta; lo sbarco di Pedro Alvares Cabral (1460-1526) e di otto francescani, guidati da fra Henrique de Coimbra, sulla Terra de Vera Cruz, l’odierno Brasile, nel 1500, sono le tappe principali dell’eroica impresa del Portogallo, «[…] che tracciò con la sua scienza nautica e l’“audacia cristiana”, nuove rotte oceaniche fino ai confini della terra, entrando così per sempre nella storia della civiltà» (6).
La mostra
Attraverso le dieci sezioni della mostra allestita in Vaticano i visitatori hanno potuto seguire il cammino di questi testimoni della fede, navigatori e missionari, che, a partire dal secolo XIII, si avventurarono lungo le coste del Nord Africa, esplorando la Guinea, l’Angola, il Mozambico, l’Etiopia, l’India, il Tibet, la Cina, Timor, la Malacca, il Giappone, per spostarsi, all’alba del secolo XVI, verso il grande orizzonte del Brasile, scrivendo «[…] una grandiosa epopea, che anche in mezzo alle difficoltà e alle inevitabili debolezze umane, merita la nostra ammirazione e ci porta a innalzare il cuore a Dio per ringraziarlo» (7).
Il primo oggetto esposto nella mostra era, significativamente, un gruppo di statue in alabastro policromo, raffigurante La Vergine e le quattro parti del mondo, che richiamava la profonda devozione mariana diffusa nel Portogallo «[…] fin dagli albori della sua vita nazionale, fin da quando le prime terre riconquistate, nucleo della futura nazione, vennero consacrate alla Madre di Dio come Terra di Santa Maria» (8). Seguivano, quindi, alcune riproduzioni pittoriche dei secoli XVI e XVII, raffiguranti tempeste furibonde o attacchi di pirati, ex voto allusivi alle grazie ricevute durante quei viaggi verso l’ignoto, quando il Portogallo diffondeva nel mondo la Buona Novella, «[…] portata lontano in fragili caravelle da araldi spinti dall’afflato dello Spirito» (9).
Il coraggioso impegno dei missionari portoghesi è riconosciuto presto dalla Santa Sede, come mostravano i documenti presenti nelle vetrine dell’esposizione. Vi erano esposte, fra le altre, la bolla Romanus pontifex, con cui Papa Nicola V (1447-1455), nel 1455, concedeva ai re del Portogallo, in riconoscimento del loro zelo di soldati di Cristo, il possesso delle terre della costa occidentale africana e delle isole adiacenti; la bolla Inter caetera qui nobis, con cui Papa Callisto III (1455-1458), l’anno seguente, riconosceva all’Ordine di Cristo il diritto di evangelizzare la costa africana e le isole fino alle Indie; la bolla Pro excellenti praeeminentia di Papa Leone X (1513-1521), del 1514, che erigeva la diocesi di Funchal, nell’isola di Madeira, con giurisdizione su tutti i territori acquistati, dalla Mauritania, in Africa, fino all’Indocina, in oriente, e al Brasile, a occidente, in accordo con il trattato di Tordesillas, stipulato nel 1494 fra i Re Cattolici, Isabella di Castiglia (1451-1504) e Ferdinando d’Aragona (1452-1516), e il re del Portogallo, Giovanni II (1455- 1495), che stabiliva la linea di demarcazione fra i rispettivi ambiti di conquista e di evangelizzazione.
I portoghesi, così come gli spagnoli nelle Americhe, non si limitarono a irradiare la fede e la cultura cristiana, ma concepirono e realizzarono la colonizzazione come un’opera di elevazione culturale e di civilizzazione delle popolazioni locali. Protagonisti di questa epopea furono anzitutto i missionari, quindi la Corona lusitana, infine tutti i civili sbarcati nelle terre d’oltremare — navigatori e coloni — i quali, nonostante i limiti del loro operato, sapevano bene che la conquista di nuovi mondi rispondeva a un superiore ideale di fede, espresso nelle parole di Luis de Camões (1517-1579), nel primo canto di I Lusiadi, quando fa riferimento ai «sovrani che acquistarono fama, propagando / la Fede e il suo Impero fra i pagani» (10). Questi furono gli obbiettivi di Enrico il Navigatore, al quale si deve l’impulso ricevuto dai navigatori portoghesi nell’espansione marittima; della regina Leonor (1458-1525), che nel 1498 istituì le Misericordie, confraternite di laici che avevano come finalità la pratica delle opere di misericordia corporale e spirituale nelle terre di missione; di re Giovanni III (1502- 1557), che, nel Regimento de Almerim, mandava a dire a Tomé de Sousa, dal 1549 primo governatore del Brasile, che la ragione principale del popolamento delle nuove terre era la conversione dei gentili alla fede cattolica.
Per raggiungere questi scopi e presentare il Vangelo nel modo adeguato, i missionari compiono ogni sforzo per conoscere a fondo la mentalità e le culture indigene mediante lo studio delle istituzioni, dei costumi e degli idiomi locali. Alcuni strumenti di questo gigantesco lavoro di inculturazione — le grammatiche, i vocabolari, i catechismi bilingue — erano esposti nella mostra: le Spiegazioni della Dottrina Cristiana in portoghese e angolese, un dizionario concani-portoghese, un vocabolario della lingua canarim, i Vangeli tradotti in persiano, un rituale liturgico del secolo XVI in latino, cocincinese e cinese, alcuni catechismi in lingue degli autoctoni brasiliani. Accanto a essi figuravano corsi di scienze matematiche, trattati di astronomia e di idrologia, libri sulla flora cocincinese o sulla fauna del Maranhão, che rendono testimonianza del contributo portato dai missionari anche alle conoscenze scientifiche dei popoli incontrati. Significativa traccia di questo proficuo scambio culturale erano i 280 oggetti esposti a Roma, alcuni dei quali rappresentano veri capolavori d’arte: urne di madreperla e filigrane d’argento per conservare l’Eucarestia, paramenti episcopali di paglia intrecciata e ornati con conchiglie, Viae Crucis intagliate in legno, crocifissi d’avorio che riportano, di volta in volta, le fattezze di un Cristo giapponese, etiope o indiano, statuette rappresentanti Vergini cinesi o Madonne indiane, presepi africani o cinesi, splendide lavorazioni di metalli pregiati, che avevano la loro ragion d’essere nel desiderio di quei popoli di rendere culto al Dio dell’amore annunciato dai missionari.
Infine, i portoghesi realizzarono una fondamentale opera di civilizzazione — analoga a quella compiuta dalla Chiesa in Europa durante il Medioevo cristiano — costruendo case e chiese, promuovendo l’agricoltura e l’allevamento degli animali, creando scuole di arti e di mestieri, aprendo ospedali e centri di beneficenza. I ritratti di alcuni missionari erano esposti nelle ultime sezioni della mostra: san Francesco Saverio (1506- 1552), il gesuita spagnolo inviato da re Giovanni III di Portogallo a evangelizzare l’Estremo Oriente, san Giovanni di Brito (1647-1693), l’apostolo delle Indie, il beato Ignazio de Azevedo (1527-1570), il beato José de Anchieta (1534- 1597), missionario in Brasile, i padri gesuiti Antonio Vieira (1608- 1697) e Luis Froís (1532-1597), primo storico occidentale del Giappone, e altri meno noti, come il gesuita Antonio Andrade (1580- 1634), che nel 1624 giunse in Tibet, primo europeo, «nuotando nella neve», come scrisse in un rapporto ai superiori.
Con l’ultima sezione, Il Portogallo è convocato alla missione di oggi dal Papa Giovanni Paolo II, terminava l’esposizione, realizzata con lo scopo di trasmettere la memoria viva del ruolo che la fede cristiana ebbe nella storia e nella cultura dei popoli venuti a contatto con i missionari lusitani e, dunque, di rappresentare un’occasione di riflessione in vista della nuova evangelizzazione, che può attingere nuova linfa proprio da quei luoghi dove l’Europa cristiana si fece missionaria.
Francesco Pappalardo
Note:
(1) Mt. 28, 19.
(2) LUIS DE CAMÕES, I Lusiadi, canto VII, ottava 3, trad. it., Mursia, Milano 1972, p. 243.
(3) Ibid., canto III, ottava 20, p. 104.
(4) PIO XII, Radiomessaggio al Portogallo in occasione della consacrazione della Chiesa e del genere umano al Cuore Immacolato di Maria, 31-10-1942, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. IV, p. 256.
(5) JACQUES HEERS, Cristoforo Colombo, trad. it., Rusconi, Milano 1983, p. 83.
(6) GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla partenza da Lisbona, del 13-5-1991, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIV, 1, p. 1244.
(7) IDEM, Discorso ai rappresentanti delle popolazioni autoctone brasiliane, nel Centro Sociale Dasa di Cuiabá, del 16-10-1991, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIV , 2, p. 888.
(8) PIO XII, doc. cit., ibidem.
(9) GIOVANNI PAOLO II, Discorso all’arrivo a Lisbona, del 10-5-1991, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIV, 1, p. 1180.
(10) L. DE CAMÕES, op. cit., canto I, ottava 2, p. 25.