Allora, come oggi, fu grande il silenzio di chi non vuole ancora guardare in faccia gli orrori del comunismo
di Leonardo Gallotta
Maggio 1974. Esce in edizione italiana il primo volume dell’opera di Aleksandr Solženicyn Arcipelago GULAG, edito da Arnoldo Mondadori.
Che cosa significa GULAG? È una sigla, un acronimo, che significa “Amministrazione generale dei campi di internamento”. Perché Arcipelago? perché si tratta di prigioni e di lager sparsi in territorio russo, occidentale e trans caucasico, rimasti sconosciuti ai più nella stessa Unione Sovietica e ignorati nel resto del mondo. Isole, quindi, nate da un complesso insieme di sistemi che conduceva ai campi di concentramento: i fermi e gli arresti, gli interrogatori e le torture, l’evoluzione delle procedure, le diverse forme di repressione giudiziaria ed extragiudiziaria.
In una cartina dove sono segnalati con torrette lager e carceri, possiamo osservare come da Mosca fino alla penisola di Kamchatka, non ci sia stata regione della Russia che non li abbia avuti. È veramente una cosa impressionante. Si tratta di isole che vivono una vita di detenzioni e di lavori forzati (con manodopera a costo zero) fuori dal resto del mondo, isole abitate non da qualche migliaio, ma da milioni di persone.
«Per un’inattesa svolta della nostra storia – dice Solženicyn – qualcosa, infinitamente poco, dell’Arcipelago è trapelato alla luce. Ma le stesse mani che stringevano le nostre manette ora si alzano a palme protese, concilianti: ‘Lasciate stare! Non si deve rivangare il passato! Si cavi un occhio a chi lo rimesta!’ Il proverbio però aggiunge: ‘E due a chi lo scorda’!».
Arcipelago GULAG si presenta come «Saggio di inchiesta narrativa. 1918 – 1956», così definito dallo stesso autore, il quale elenca 227 nomi di persone che gli hanno fornito racconti, ricordi e lettere sulla terribile vita da detenuti nell’Unione Sovietica. Dice Solženicyn: «Io non esprimo loro qui la mia riconoscenza personale: [quest’opera] sarà il nostro comune monumento eretto da amici in memoria di tutti i martoriati e uccisi».
Ma che giustizia c’era nell’Unione Sovietica? L’autore ricorda in modo dettagliato i 14 punti dell’articolo 58 del Codice penale e dice: «Non vi è trasgressione, pensiero, azione o inazione sotto il sole che non possa essere punito dalla mano dell’articolo 58». Si pensi che in un testo dell’Istituto di politica penale del 1934 si dice testualmente: «Insomma, noi non distinguiamo l’intenzione dal delitto stesso e in ciò sta la superiorità della legislazione sovietica rispetto a quella borghese». Un solo esempio: il punto dodicesimo si riferiva principalmente alla coscienza dei cittadini: era quello della mancata delazione. E per tale crimine la pena non aveva un limite superiore. Insomma sapeva e non l’aveva detto, era come se l’avesse fatto. Si potrebbe continuare, ma non si finirebbe più.
Vengono poi elencati tutti i mezzi utilizzati per costringere l’accusato a confessare qualsiasi cosa. L’autore ne enumera ben 31, tra cui sete, fame, insonnia, box delle cimici, forzata immobilità in piedi o in ginocchio per ore ed ore e poi mezzi sonori assordanti e/o luminosi accecanti. Le celle erano sempre sovraffollate e in esse si dormiva rannicchiati sopra e anche sotto i pancacci, si andava alle latrine una volta al giorno, si era nutriti con una modesta quantità di pane, un’aringa salata e acqua però razionata. Non solo questo tuttavia, perché tanti altri aspetti della dura vita di cella, anche odiosi e degradanti, sono stati dettagliatamente descritti da Solženicyn.
Ed ora la domanda conclusiva: come fu accolto Arcipelago GULAG in Italia dove operò il più grande partito comunista dell’Europa occidentale? Oltre al fatto che la stessa Mondadori diede scarso rilievo pubblicitario all’opera, l’intellighentsia italiana, quasi tutta di sinistra, o tacque o guardò all’Arcipelago con sufficienza se non addirittura con ostilità. Pietro Citati, considerando l’Arcipelago principalmente il memoriale di un prigioniero scampato ad una più dura sorte, consigliava di risparmiarsi una prova così atroce. Italo Calvino espresse tutta la sua delusione per l’opera contestando all’autore l’eccesso di dogmatismo del messaggio cristiano come unico potere salvifico. Umberto Eco definì Solženicyn un «Dostoevskij da strapazzo» e Alberto Moravia liquidò l’autore come «un nazionalista slavofilo della più bell’acqua». Solo Vittorio Strada, Enzo Bettiza e Carlo Bo difesero e apprezzarono l’opera. In generale – così Maurizia Caluso – la reazione più diffusa nel nostro Paese all’apparizione dell’Arcipelago fu uno scandaloso silenzio. Fuori dal coro, a sinistra, vi fu solo la voce di Franco Fortini nel 1974 e ancora nel 1977, allorché ebbe a dire: «La ferita che una sua posizione, una sola sua pagina di verità possa aver saputo infliggere [ai progressisti], non si rimargina più e chi ne è stato ferito una volta è un’unità perduta per gli eserciti, rassegnati, delle tirannìe».
A cinquant’anni di distanza dall’uscita dell’Arcipelago possiamo dire, volendo utilizzare un ossimoro, che ancor oggi il silenzio non solo è scandaloso, ma sempre più assordante.
Mercoledì, 6 novembre 2024