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Ars moriendi

6 Aprile 2025 - Autore: Aurelio Carloni

Papa Francesco ospedale

La morte oggi e ieri. Riflessioni a margine delle sofferenze di Papa Francesco e della morte di Silvia Scaranari

di Aurelio Carloni

«Ma tu te pienz o’ vero ca murì fusse ‘na cosa facile? Pe’ murì ce vo’ fatica». Così rispose molti anni fa un medico di famiglia della provincia di Napoli quando, in un attacco di ipocondria, gli manifestai il timore che il fastidio intercostale avvertito potesse essere letale. Con la passione di chi aveva assistito persone morenti in decenni di professione, volle spiegare con la forza espressiva del dialetto la difficoltà del morire, che passa attraverso l’agonia. E della necessità di fare “fatica”, ossia di lavorare, per riuscirci. Una fatica che, ad ascoltare gli operatori sanitari e i volontari che sono vicini ai morenti, è insieme fisica, psicologica e spirituale. Il tempo di Quaresima e le sofferenze di Papa Francesco possono essere utili per riflettere sulla morte, la grande dimenticata dalla post-modernità, e sull’approccio che nei secoli la civiltà in Europa ha avuto verso di essa. 

Oggi la morte fa paura al punto che non si osa più pronunciarne il nome, la si nasconde agli occhi propri e dei bambini. I parenti vengono così lasciati morire sempre più spesso da soli in ospedale. Nulla sembra rimasto di quella morte del passato che il maggiore studioso della materia, lo storico medievalista francese Philippe Ariès, definisce nella sua opera principale, Storia della morte in Occidente, la «morte addomesticata». Ossia quella morte vicina, familiare, attenuata, che si contrappone a quella odierna, che definisce «selvaggia» perché isolata, senza calore e oggetto di vergogna e di divieto. Tanto da spingere i genitori a tenere lontani i loro piccoli dalla morte reale dei nonni («altrimenti si impressionano»), senza ravvisare l’incongruenza di lasciarli quotidianamente in balia di migliaia di immagini di morti “televisive”. False e bugiarde proprio perché tendono ad annullare la “fatica” del morire. Morire in quelle scene sembra facile, si muore in un istante e si passa a un’altra scena o a un’altra morte, in una sequela senza fine che ha come scopo quello di stare lontani dalla morte vera, autentica. Una lontananza che è alla fine la vera trappola del demonio, che così allontana le sue prede da quel rito insito nella vita e nella mentalità di un tempo, nemmeno troppo lontano in Italia, che era rappresentato dall’Ars moriendi, dalla preparazione alla buona morte. Ariès sul punto riporta una citazione di Solzenicyn sui contadini della vecchia Russia: «Ed ora andando e venendo nella corsia d’ospedale, ricordava come aveva visto morire quei vecchi, nel loro cantuccio, laggiù, sul fiume Korma, i Russi come i Tartari o gli Udmurti. Senza fanfaronate, senza storie, senza vantarsi che non sarebbero morti, tutti accettavano la morte pacificamente. Non solo non rimandavano il momento decisivo, ma ci si preparavano molto dolcemente e in anticipo; stabilivano a chi sarebbe andata la giumenta, a chi il puledro, a chi il camiciotto, a chi le scarpe, e si spegnevano quasi con sollievo, come dovessero semplicemente cambiare isba». Irving Lavin, storico dell’arte scomparso da pochi anni, nel suo Bernini e il Salvatore. La buona morte nella Roma del Seicento, affronta così il tema contestualizzandolo nell’età barocca, in cui la morte era ancora “addomesticata”: «L’idea di prepararsi alla morte ebbe la più ampia diffusione possibile nel tardo quindicesimo secolo attraverso l’Ars moriendi. Fu una delle più popolari pubblicazioni del periodo, ristampata in tutta Europa in dozzine di edizioni, traduzioni, adattamenti. Era uno specifico manuale d’istruzione riguardo l’arte di ben morire, cioè, il metodo di acquisire la salvezza nelle ultime ore della vita», che proponeva innanzitutto «un elogio della morte, alla quale il lettore, quando sarà giunto il tempo, è incitato ad arrendersi di buon grado e con letizia, senza riluttanza o resistenze di sorta». La seconda parte, il vero fulcro dell’opera, descrive «le astute tentazioni usate dal diavolo nel suo ultimo combattimento con Dio per l’anima del moribondo e le risposte date dall’angelo custode del moriens. Il carattere specifico del libro è determinato dai suoi intenti divulgativi (…). Le cinque tentazioni (quella contro la fede e quelle rappresentate dalla disperazione, dall’impazienza, dalla vanagloria e dall’avarizia) e le risposte da dare a esse sono descritte e illustrate una ad una in una xilografia nella quale il moriens è mostrato nel suo letto di morte alternativamente assalito da diavoli e salvato da angeli». Proprio sull’onda di questo interesse diffuso nella società dell’epoca, la Compagnia di Gesù, anche sulla base del magistero precedente del gesuita e teologo san Roberto Bellarmino, fondò nel 1648 la Congregazione della bona mors nella chiesa del Gesù a Roma. Questa, come sottolinea, Lavin si differenziava «dalle più antiche confraternite dedicate alla morte per il fatto di non essere stata concepita con lo scopo primario di realizzare un atto di grazia, ma di istituire una pratica di devozione ed esercizi tramite i quali i membri possono garantire i benefici di una buona morte. La bona mors riscosse un successo strepitoso e alla fine del secolo era diffusa in tutta Europa». Anche Bernini vi aderì nel 1649, facendo propria la devozione della buona morte, che divenne motivo di ispirazione per diverse sue opere: l’immagine del sangue di Cristo è, secondo Lavin, «chiaramente ispirata all’invocazione del crocifisso e della Vergine addolorata (…). Bernini stesso dichiarò di aver fatto il disegno come voto personale offerto a beneficio del mondo intero probabilmente in adempimento all’obbligo dei membri di aiutare gli altri a ottenere la buona morte». Nello spirito autentico di questa devozione proprio lui, che aveva realizzato opere funerarie straordinarie per papi e aristocratici dell’epoca, chiese e ottenne di essere sepolto sotto la gradinata della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, con una semplicissima lapide oggi usurata dal tempo. 

Su questo tema, Matteo Matzuzzi, vaticanista del Foglio, in un suo splendido articolo di fine marzo dedicato alla sofferenza del Papa e all’approccio alla morte richiama «una vecchia omelia mattutina di Francesco, a Santa Marta, tutta incentrata su come noi viviamo la morte e come ci accostiamo a essa. “Pensare alla morte non è una fantasia brutta è una realtà” disse Francesco. “Se è brutta dipende da me come io la penso, ma ci sarà l’incontro col Signore, questo sarà il bello della morte, sarà l’incontro col Signore, sarà lui a venire incontro, sarà lui a dire vieni, vieni, benedetto da mio Padre, vieni con me. A nulla serve dire “ma Signore aspetta che devo sistemare questo e questo perché tanto non si può sistemare niente: quel giorno chi si troverà sulla terrazza e avrà lasciato le sue cose in casa non scenda: dove stai ti prenderanno, ti prenderanno, tu lascerai tutto». Il giornalista più avanti ricorda quanto diceva Benedetto XVI: «Nonostante la morte sia spesso un tema quasi proibito nella nostra società, e vi sia il tentativo continuo di levare dalla nostra mente il solo pensiero della morte, essa riguarda ciascuno di noi, riguarda l’uomo di ogni tempo e di ogni spazio e davanti a questo mistero tutti, anche inconsciamente cerchiamo qualcosa che ci inviti a sperare, che ci dia consolazione, che si apra qualche orizzonte che offre ancora un futuro. La strada della morte, in realtà, è una via della speranza e percorrere i nostri cimiteri, come pure leggere le scritte sulle tombe è compiere un cammino segnato dalla speranza di eternità».

E per rispondere alla domanda se la paura della morte sia un segno di scarsa fede in Nostro Signore Gesù Cristo, che l’ha sconfitta in Croce, basti ricordare quanto scriveva dal carcere san Tommaso Moro (Nell’orto degli ulivi) poco prima dell’esecuzione: «Forse qualcuno troverà strano che il nostro Salvatore – essendo vero Dio, eguale al Padre onnipotente – abbia potuto provare tristezza, angoscia e dolore. Certo non avrebbe potuto soffrire tutto ciò se, essendo Dio, non fosse stato, esattamente allo stesso modo, anche uomo. Ma poiché la sua natura umana non era meno reale della sua natura divina, mi sembra che trovare strano che Egli come uomo provasse i sentimenti comuni a tutto il genere umano (eccetto quelli che implicano peccato) sarebbe né più né meno come trovare strano che, essendo Dio, compisse straordinari miracoli. Se ci stupiamo che Cristo abbia provato paura, angoscia e tristezza in quanto era Dio, perché non ci stupiamo allo stesso modo che abbia provato fame, sete, sonno?».

E più avanti Moro spiega che «Cristo (…) quando comandava ai suoi fedeli di non aver paura della morte non chiedeva loro di non averne affatto, ma di non averne in misura tale da fuggire alla morte che dura un solo istante per precipitare, rinnegando la fede, nella morte eterna. Voleva che i suoi soldati fossero forti e saggi, non ottusi e insensati. Il forte sopporta ciò che fa male, l’ottuso non lo avverte. L’insensato non teme sofferenze, il saggio non permette che il timore delle sofferenze lo distolga dal bene precipitandolo in sofferenze molto più gravi di quelle che aveva voluto evitare».

La famiglia spirituale di Alleanza Cattolica ha subìto diversi lutti di recente. Tra questi ricordo solo l’ultimo, la scomparsa dell’amica Silvia Scaranari, che ha vissuto e praticato l’Ars moriendi esattamente come andrebbe fatto. La sua testimonianza sia di esempio luminoso per chi scrive e per tutti i militanti dell’Associazione che ha amato sino all’ultimo respiro.

Domenica, 6 aprile 2025

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