Aldo Rocco Vitale, Cristianità n. 431 (2025)
Sulla rivista giuridica L’ircocervo, curata dalla Fondazione Gentile, è stato pubblicato un saggio di Mauro Ronco dal titolo L’oscillazione tra l’abolizionismo e l’espansione incongrua del diritto penale, sul tema del ruolo, della funzione e della portata del diritto penale odierno (1).
Il diritto nel suo complesso è in crisi da tempo e lo è anche quel ramo del diritto che, come il diritto penale, maggiormente sollecita gli interrogativi della coscienza e della ragione, poiché direttamente afferente alla tutela della persona umana, in quanto manifestazione prima ed evidente del grado di giustizia di un dato ordinamento giuridico, e, infine, poiché riguarda la dimensione più strutturalmente costitutiva e delicata dell’essere umano qual è, appunto, la libertà e il suo corretto esercizio.
La civiltà giuridica occidentale si trova sostanzialmente fra l’incudine delle spinte abolizioniste, che dall’interno dello stesso mondo giuridico (legislativo, giudiziario e accademico) spingono per un ridimensionamento sempre più incisivo della pena in genere e di quella detentiva in particolare, e il martello dell’espansionismo sempre crescente del diritto penale con lo scopo e la speranza di mitigare la crescente violenza che ogni giorno si diffonde nel contesto sociale.
Sulla prima tendenza si pensi alla sempre maggior diffidenza nei confronti della pena detentiva. La detenzione sembra oramai avviata a un ruolo del tutto secondario rispetto a una variegata panoplia giuridica approntata dai legislatori per umanizzare ancor di più la pena e sottrarre così il condannato all’esperienza detentiva, considerata adesso disumana e disumanizzante (2).
Nell’ottica di accogliere l’appello di Cesare Beccaria (1738-1794) alla «dolcezza» della pena (3), la detenzione viene sempre più superata da quelle che oramai sono state consacrate come pene o misure alternative, su cui la letteratura sovrabbonda come non mai (4), per mitigare il senso afflittivo della pena in genere e di quella carceraria in particolare.
Sulla seconda tendenza, cioè sull’espansione quasi illimitata e non limitabile della sfera penale, si rimanda alle puntuali osservazioni di Filippo Sgubbi (5).
Considerato lo scenario predetto, la tesi sviluppata dal professor Ronco si snoda lungo tre linee direttrici principali: una prima ricognitiva dei dati di fatto; una seconda di ordine critico; infine, una terza di carattere propositivo.
Lungo la linea ricognitiva, con idoneo supporto di dati e di prove, Ronco evidenzia il paradosso per cui nei sistemi e nei Paesi, come quelli del nord Europa, in cui maggiormente si svolgono campagne di formazione e informazione contro la violenza, come quella di genere, si registra l’incremento della violenza medesima, per esempio proprio contro le donne. Lungo la linea critica Ronco pone in dubbio l’efficacia della prospettiva abolizionista, soprattutto quella delineata dal pensiero di Alessandro Baratta (1933-2002) e di Eugenio Raul Zaffaroni.
La visione abolizionista viene in essere tramite la saldatura di due elementi: da un lato, la concezione positivista divenuta predominante fra XIX e XX secolo; dall’altro lato, la concezione sociologica e storicistica di matrice marxista secondo cui, come puntualizza lo stesso Ronco, «[…] sarebbe l’intrinseca natura dei rapporti di produzione capitalistica a esigere la creazione di una certa serie di “ruoli” di delinquente, che vengono assegnati agli scarti della produzione, sui quali la pena e la prigione svolgono un compito di riproduzione e di perpetuazione» (6).
In ciò, in buona sostanza, consiste l’attuale crisi del diritto penale. La crisi del diritto in genere e di quello penale in specie che, laconicamente definita come vero e proprio declino o perfino degenerazione (7), si spiega nell’abbandono di una visione ontologica e assiologica per fondare il diritto su una base sostanzialmente non cognitivista, cioè relativista (8).
In tale prospettiva la distinzione fra morale e diritto diviene separazione e il diritto diventa qualcosa di amorale, di contenutisticamente neutro, o il cui contenuto è comunque rimesso alla contingenza storica e sociale (9).
In questo contesto sostanzialmente relativistico è andata maturando una visione della finalità rieducativa della pena che ha finito con il tradire le proprie stesse premesse e la propria stessa vocazione.
Se, infatti, il diritto penale è chiamato a operare in un contesto sociale e culturale in cui, con il venir meno delle pretese di fondazione metafisica della vita e dell’esperienza giuridica, si è dileguata la distinzione fra ciò che è bene e ciò che è male, quindi anche fra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, non pare più realmente possibile assicurare lo scopo rieducativo della pena.
Venuta meno l’impalcatura assiologica a cui l’agire individuale — e quindi anche quello sociale — possono e devono rifarsi per stabilire se l’azione è un bene o un male in sé, non è più possibile descrivere un orizzonte di senso per la pena come rieducazione e, ancor più, per la pena come risocializzazione, intesa quale «riconversione» del reo ai valori socialmente accettabili.
Ronco, tuttavia, non si rassegna a enucleare le cause molteplici, variegate e concorrenti del logoramento dell’odierna scienza penalistica e del senso etico e del fondamento giuridico della pena in quanto tale, ma propone anche una via d’uscita dal vicolo cieco in cui attualmente pare che ci si trovi.
Nella terza linea, cioè quella di ordine propositivo, invocando anche i preziosi insegnamenti del giurista Ferrando Mantovani (1933-2024), recentemente scomparso, Ronco propone saggiamente e coraggiosamente il recupero della verità della pena, distinguendo il piano del metodo da quello del merito.
Sotto il profilo metodologico suggerisce di abdicare a quella prospettiva di rigida e assoluta separazione e reciproca indifferenza fra morale e diritto, sia perché impossibile da realizzare in pieno sia perché foriera e contributrice dei mali individuali e sociali che il giuspenalista ha dinnanzi agli occhi nella sua quotidianità.
Sotto il profilo del merito, invece, ripercorrendo gli insegnamenti di Giambattista Vico (1668-1744), Ronco propone di tornare a intendere il nucleo essenziale della pena consistente nella sua natura medicinale: «Analogamente al farmaco che ha per fine la cura della malattia fisica o psichica, la pena inflitta dalla società civile è il farmaco indispensabile a un risanamento morale degli individui che hanno delinquito, in particolare di quelli che hanno perso ogni senso di vergogna “rispetto all’eterna ragione” e la cui ragione personale si è intorpidita a cagione dell’insistenza pertinace nel delinquere» (10).
Svincolare la pena dal suo fondamento morale è ciò che ha causato proprio la comparsa della società violenta, «specializzata» nella violenza contro le donne che, illudendosi di essere divenute libere dai vincoli della moralità sessuale tradizionale, sono divenute le vittime sacrificali proprio di quella prevaricazione psico-fisica che si sviluppa e si moltiplica in un modello sociale chiuso alle ragioni della morale.
Ronco, tuttavia, mette in guardia anche dall’errore opposto all’abolizionismo, cioè l’ipertrofia penalistica che caratterizza l’attuale panorama giuridico, facendo del diritto penale la panacea ideale per coartare il singolo e la comunità verso il bene proprio e altrui.
Per Ronco, infatti, la sola soluzione punitiva contemplata dalla legislazione non è sufficiente per mitigare le istanze violente della società che possono essere contenute, invece, soltanto attraverso il recupero di una moralità individuale e collettiva oramai smarrita.
Più performante della normazione e della sanzione penale — in barba al panpenalismo — dunque è la (ri)fondazione antropologica dell’uomo contemporaneo distratto e distrutto dai suoi desideri ferini e dai suoi istinti primordiali, che la cancellazione di ogni morale e di ogni referenza metafisica ha liberato nell’ultimo cinquantennio.
Ecco perché lo stesso Ronco ribadisce che «l’origine del male non sta nella morale e nel diritto che dettano regole dirette a raffrenare le pulsioni egoistiche dell’io e a favorire la solidarietà tra le persone, bensì nel disprezzo della verità che la libertà dell’uomo e della donna, enti essenzialmente limitati, ha dei limiti inscritti nella loro natura razionale» (11).
In conclusione, rigettando l’onnipotenza leviatana della legge, anche e soprattutto di quella penale, occorre rivolgere l’attenzione al piano della coscienza per evitare che la pena e il diritto penale perdano il proprio stesso senso come conseguenza di una prospettiva abolizionista, che l’individuo resti prigioniero dei propri stessi impulsi e che l’intera esistenza venga criminalizzata per porre un argine, imperfetto e tardivo, alle conseguenze nefaste causate proprio dall’abolizionismo.
Aldo Rocco Vitale
Note:
1) Cfr. Mauro Ronco, L’oscillazione tra l’abolizionismo e l’espansione incongrua del diritto penale, in L’ircocervo. Prima rivista elettronica italiana di Metodologia giuridica, Teoria generale del diritto e Dottrina dello Stato, anno XXIII, n. 2, Padova 2024, pp. 162-183.
2) «Lo spirito della carità cristiana vuole che la prigione ed ogni altro luogo di pena sia non covile di belve, ma scuola di moralità e lavoro» (Enrico Pessina [1828-1916], Filosofia e diritto. Discorsi vari, Stabilimento Tipografico dei Classici Italiani, Napoli 1868, p. 138).
3) «Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione» (Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Feltrinelli, Milano 2010, cap. XXVII, p. 78).
4) Ex plurimis cfr. Franco Della Casa, Dalle colonie penali alle misure alternative: ovvero alternative (non riuscite) di detronizzazione della pena detentiva, in Materiali per una storia della cultura giuridica, n. 1, 2006, pp. 155-162; Emilio Dolcini, Le misure alternative oggi: alternative alla detenzione o alternative alla pena?, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, n. 3, 1999, pp. 857-876; Lauretta Durigato, Deflazione carceraria e adozione di misure alternative: opportunità e aporie di un difficile rapporto, in Indice penale, n. 3, 2002, pp. 1019-1031; Alberto Marcheselli, L’efficacia rieducativa delle misure alternative alla detenzione, in La giustizia penale, n. 1, 2003; Alessandro Margara, Carcere e libertà. Dalla negazione alla riaffermazione della libertà attraverso le misure alternative, in Questione giustizia, n. 2-3, 2004, pp. 453-459; Sergio Moccia, Certezza della pena. Precondizioni teorico-generali, in Diritto e formazione. Rivista del Consiglio Nazionale Forense, n. 4, 2010, pp. 748-755; Idem, Funzione della pena ed implicazioni sistematiche: tra fonti europee e Costituzione italiana, in Diritto penale e processo, n. 8, 2012, pp. 921-929; Idem, Mediazione, funzioni della pena e principi del processo, in Critica del diritto, n. 4, 2004, pp. 344-353; Massimo Niro, Le misure alternative tra deflazione carceraria e revisione del sistema sanzionatorio penale, in Questione giustizia, n. 2, 2007, pp. 105-118; Massimo Nunziata, La funzione della pena nella sua applicazione ed esecuzione: brevi spunti, in Rassegna della giustizia militare, n. 3, 2008, pp. 7-18; e Antonietta Pedrinazzi, Pene detentive o misure alternative?, in Aggiornamenti sociali, n. 5, 2002, pp. 386-397.
5) Cfr. Filippo Sgubbi, Il diritto penale totale, il Mulino, Bologna 2019.
6) M. Ronco, art. cit., p. 168.
7) Cfr. Agostino Viviani, La degenerazione del processo penale in Italia, SugarCo, Milano 1988.
8) «Il relativismo sociologico sostiene che i sentimenti sono determinati e non soltanto condizionati dal contesto. Il vero, il bello, ma anche il bene sarebbero dunque il prodotto di determinazioni sociali» (Raymond Boudon [1934-2013]), Il vero e il giusto, trad. it., il Mulino, Bologna 1997, p. 257).
9) «Lo storicismo prende posizione nella sfera dei fatti concernenti la vita empirica dello spirito e, nella misura in cui pone quest’ultima in maniera assoluta, senza però naturalizzarla, sorge un relativismo che rivela la sua stretta parentela con lo psicologismo naturalistico e che ricade in analoghe difficoltà scettiche» (Edmund Husserl [1859-1938], La filosofia come scienza rigorosa, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2005, p. 71).
10) M. Ronco, art. cit., p. 178.
11) Ibid., p. 180.
