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Breve ricordo di un amico e maestro di vita

31 Agosto 2025 - Autore: Oscar Sanguinetti

Pubblichiamo una commemorazione del militante Francesco Barbesino

di Oscar Sanguinetti

Il particolare rapporto di amicizia che mi legava a lui, la non comune durata di questa amicizia nel tempo, l’entità del “capitale” di esperienza e di amore per la vita che mi ha trasferito mi impongono di ricordarlo a pochi giorni dalla sua scomparsa terrena. Non sono note biografiche vere e proprie, ma piuttosto brevi annotazioni e rapidi flash su quello che di lui mi è rimasto impresso nella memoria.

Ho conosciuto Francesco Barbesino, credo, nell’estate del 1971 e l’ho incontrato per l’ultima volta poco tempo dopo la morte di Teresa, sua moglie, quando già viveva da solo, assistito dalla badante ucraina.

Il primo incontro con lui fu di fronte all’ingresso secondario della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano, in un torrido sabato pomeriggio di luglio. Ricordo che, accompagnato da un amico per partecipare per la prima volta a una riunione di Alleanza Cattolica, che lì si teneva abitualmente, Francesco ci venne incontro, vestito di tutto punto in giacca e cravatta nonostante il caldo — ma poi apprenderò che si trattava di una sua caratteristica permanente, forse dovuta alla sua magrezza —, sorridente e con la mano tesa per stringere la mia e quella dell’amico.

Era stato un aderente della prima ora al progetto di Agostino Sanfratello e di Giovanni Cantoni di un’associazione di laici cattolici, fondata a ridosso del Sessantotto, per riprendere l’esperienza del cattolicesimo contro-rivoluzionario nel nostro Paese, finita con i Patti del 1929. La situazione a dir poco bollente degli atenei e delle fabbriche, investiti da una ondata rivoluzionaria di straordinaria potenza, mai ostacolata dai cattolici al potere, vedeva in questa opzione l’unica strada seria che aveva suggerito a molti giovani la modalità giusta per opporvisi.

Sulla scorta dell’esperienza che ho avuto della sua frequentazione e della sua vicinanza, durate per decenni, posso dire che Francesco Barbesino è stato un esempio di una vita interamente spesa al servizio dell’ideale contro-rivoluzionario nello stato laicale. Egli fu parte attiva dell’organismo nascente, ne fu promotore, protagonista, guida, esponente di vertice, sino a incarnarne la seniorità. Giunto già “grande”, già sposato, con numerose figlie, all’incontro con Alleanza Cattolica, capì che in quel contesto, nei ranghi di quel piccolo organismo che, pur crescendo di numero e di peso, rimaneva una vocazione del tutto marginale nel panorama dell’impegno ecclesiale in Italia, la sua volontà di combattere la Rivoluzione che stava distruggendo il Bel Paese e di ricostruire un ordine civile d’impronta cristiana come era stato nei secoli della fede, avrebbe trovato la collocazione giusta. Con parole del regnante Pontefice, la soluzione ai problemi “dell’ora presente” era per lui e per Alleanza Cattolica «[…] impregnare la società terrena dei valori del Regno di Dio, orientando in tal modo la storia verso il suo compimento ultimo in Dio, consentendo però anche la prosperità umana autentica in questa vita»[1].

Francesco era figlio unico di una famiglia fortemente anti-comunista e decisamente conservatrice. Il padre Rinaldo, casalese, aveva combattuto ai confini orientali negli anni della Repubblica Sociale Italiana con il grado di capitano e, nel dopoguerra, era stato presidente dell’associazione dei reduci di Salò: nato nel 1931, Francesco, allora quattordicenne, avrà sicuramente fatto in tempo a vedere o a sapere delle stragi di fascisti e di uomini d’ordine perpetrate dai comunisti dopo il 1945. In lui l’anti-comunismo e il desiderio di un ordine civile che non vedeva difettare nei nuovi ordinamenti repubblicani erano, come si dice, nel suo DNA e la sua volontà d’impegnarsi politicamente genuina e intensa.

Dopo il servizio di leva, svolto come sottotenente di complemento dell’artiglieria da montagna, come tanti giovani anti-comunisti Francesco aveva cercato a lungo nell’“offerta” culturale di una destra fortemente rattrappita sul Movimento Sociale Italiano — un luogo dove, gentilianamente, l’azione prevaleva sulla teoria — un approdo e un appiglio, ma ne era restato deluso. Ingegnere, era abituato alla sistematicità del pensiero e dell’organizzazione e non poteva non restare frustrato di fronte alla povertà di idee e ai corti circuiti carismatico-nostalgici in cui si imbatteva in quell’ambiente. Così l’incontro con la grandiosità della visione cattolica di un ancor giovane Giovanni Cantoni, cui giunse attraverso la mediazione di Agostino Sanfratello, non poté non essere anche per lui decisivo.

Innamoratosi della causa e del suo strumento in temporalibus, entrò ben presto nel nucleo traente del nascente progetto. Nonostante il lavoro di ricercatore presso il CISE, Centro Informazioni Studi ed Esperienze, di Segrate, alle porte di Milano, e la responsabilità di una famiglia sempre più numerosa ed esigente — formata insieme a Teresa Daldossi —, egli dedicò gran parte del suo tempo e delle sue risorse all’azione di apostolato contro-rivoluzionario di Alleanza Cattolica. Nei primi anni 1960 fu spesso a Piacenza, la culla dell’Associazione, a collaborare con Cantoni e Sanfratello e lì partecipò persino alla elaborazione del simbolo associativo, l’aquila con il Sacro Cuore. Frequentò a lungo, lui già laureato da tempo, il gruppo di studenti che Sanfratello radunava il sabato pomeriggio presso le suore orsoline di via Lanzone, poi a Santa Maria delle Grazie e, infine, presso Santa Maria Segreta, sempre a Milano. Poi, quando nacquero le prime “croci”, le cellule di formazione e di azione di base dell’Associazione, a lui fu assegnata la responsabilità di più di una di esse, prima nell’hinterland milanese, poi in città. Svolse il compito di guida e di formatore con rara solerzia e con sensibilità unica. Chi scrive lo ricorda girare instancabile con la sua Fiat 127 —forse prima e dopo avrà avuto altre auto, ma la sua utilitaria bordeaux mi è rimasta inconfondibile nel ricordo — fra una riunione di croce e un capitolo, fra un volantinaggio e una diffusione militante di Cristianità. Amava allo spasimo la conversazione e sapeva ascoltare attentamente prima di rispondere e replicava con non comune equilibrio. Talora — mi si consenta di ricordarlo —, infervorato nell’argomentare, quando durante i viaggi comuni toccava a lui essere al volante, si rivolgeva con nonchalance al passeggero sul sedile posteriore, con visibili rischi per l’incolumità comune. Non si curava troppo delle formalità e abituava chi aveva a che fare con lui a non cadere, in epoca di consumismo galoppante, nella facile idolatria delle cose e dei possessi, dall’auto al vestire. Non possedeva la dialettica di Sanfratello o di Cantoni, ma sapeva molte cose, aveva letto e approfondito — da ingegnere — molto della cultura “di casa” e lo trasmetteva con integrità e passione, riuscendo sempre convincente. Non era un conferenziere, ma, per obbedienza, non si tirava indietro quando c’era da parlare e da parlare anche a un pubblico qualificato.

Chi scrive ricorda una sua importante conferenza tenuta ad ambienti militari, credo, di Milano, dove parlò per un’ora, pur avendo trentanove gradi di febbre. Il suo stile era fatto di dolcezza, di sorriso, di pazienza, anche se talora, quando s’indignava, i suoi occhi scuri diventavano neri come due chiodi di garofano. Era tanto radicale nel suo conservatorismo quanto amabile nella esposizione e proposta della dottrina in cui credeva, quella contro-rivoluzionaria: non amava le “vie brevi”, che allora imperversavano anche nel suo ambiente umano, ma smussava sempre gli angoli, smontava i troppo facili entusiasmi e le mal elaborate delusioni, suggeriva di attendere, di riflettere e poi di agire.

Non mostrava alcuna contaminazione del genere “cattolico adulto”, ma, laico, pur coltivando un amore non comune per la Chiesa, si atteneva fedelmente alla formula semplificata — ma non semplicistica — di devozione proposta dall’Associazione. Pregava molto, pregava spesso, ma non era un gourmet di spiritualità, come purtroppo accadeva ad alcuni dei comuni amici. Aveva i suoi maestri spirituali: quelli scelti dall’Associazione; aveva i suoi maestri culturali: quelli scelti dall’Associazione. Non ha mai deflesso dalla linea “politica” assunta da Alleanza Cattolica, anche quando questa sembrava porsi in discontinuità con un passato recente: ha sempre anteposto la grandezza della meta alla statura dei suoi attuatori.

Aveva, comunque, i suoi interessi intellettuali specifici, che metteva fin dove possibile al servizio dell’apostolato in cui si era impegnato. Così, lui, gran lettore di storia romana, si era dato a studiare la Sacra Sindone di Torino, quando era apparsa la clamorosa notizia che alcuni scienziati avevano postdatato il sacro lino a epoca medioevale “dimostrandone”, così, la presunta falsità. Francesco si era impegnato con acume, con sacrificio, con assiduità da studioso di mestiere — anche se in altro ambito —divenendo in breve spazio di tempo uno degli esperti più noti della corrente “anti-falsificazionistica”. Sulla scia della Sindone, la sua attenzione era stata catturata da altre immagini acheropite, come il misterioso Volto Santo conservato a Manoppello (Pescara), sui cui scrisse un pionieristico articolo su Cristianità, la rivista di AC. Nel campo degli studi religiosi, in età ormai avanzata, si era dedicato allo studio della Chiesa copta egiziana. Ma non era un intellettuale: anzi, più volte, sino ai più recenti colloqui, mise in guardia chi scrive dalla tentazione di diventarlo.

Credo che la sua dote principale fosse la costanza, l’assiduità ossequiosa alle pratiche della sua Associazione, la docilità ad accettarne le decisioni e i ruoli che gli venivano assegnati, purtroppo sempre meno di prima linea con il crescere dell’età.

Chi scrive, come accennato in apertura, privo di padre sin dai diciotto anni, ha avuto un rapporto quasi filiale con questa dolce persona, che si era presa a cuore il giovane pieno di domande che aveva conosciuto il quel lontano luglio milanese. Così lo aveva seguito nella crescita intellettuale e culturale, ma lo aveva altresì consigliato anche e soprattutto nei problemi della vita: il lavoro, la famiglia, la conciliazione di entrambi con l’impegno in Alleanza Cattolica. Tutti i lunedì partecipava con chi scrive alla riunione del capitolo cittadino —che precedeva la riunione delle rispettive croci — e Francesco lo passava a prendere, parcheggiava non senza difficoltà nel viale del centro di Milano, saliva all’ottavo piano del condominio, entrava nel piccolo monolocale dove questi viveva appena sposato, scambiava due chiacchiere con sua moglie davanti a una tazza di caffè fumante e dava una carezza alla piccola Anna, che occhieggiava dal bordo del suo lettino. Poi usciva con lui e, finita la riunione, lo riaccompagnava, in genere a ore quasi “piccole”, a casa: questo per anni.

Poi, con il trasferimento, dopo la morte del padre — avvenuta nel 1978 —, a Bergamo, il sodalizio ad personam si interruppe, anche se restava la comune appartenenza alla provincia associativa lombardo-veneta e vi era quindi l’occasione per rivedersi nei ritiri e negli incontri collettivi. In relazione a essi erano diventati leggendari fra i suoi amici i suoi appunti, che prendeva su quadernoni quadrettati: precisi, vergati con il pennarello Fila blu o verde a punta fine, organizzati, pieni di graffe: quasi miniati. A Bergamo Francesco divenne in breve il “padre” del folto gruppo di giovani di un po’ tutti i ceti che si radunavano intorno al simbolo dell’aquila.

Francesco Barbesino resta esempio limpido di impegno ininterrotto per una causa ideale in cui riconosceva tutto se stesso e che giudicava meritevole del sacrificio suo e delle sue cose e degli affetti più cari. Un esempio particolarmente istruttivo per i tanti giovani che arrivano all’apostolato attivo ma poi, quando contraggono matrimonio e diventano padri — quando non scompaiono —, derubricano il loro impegno associativo e civile ad attività secondaria, da confinare nei tempi liberi dal lavoro e dalla famiglia. Francesco ha dato il massimo, sfatando il pretesto degli “impegni familiari” — in genere iperdilatati — con cui molti riducevano il proprio apporto alla causa: ha tolto forse qualcosa alla sposa e alle cinque figlie, ma ha accumulato un capitale di grazie che si è riversato, oltre che sull’Associazione di cui faceva parte, anche su di loro e sul loro futuro.

Chi scrive, mentre ringrazia Francesco per il bene che ha fatto per la causa di Cristo Re e che gli ha fatto personalmente, lo affida alla misericordia divina, che «ha sì gran braccia», perché gli conceda una eternità felice.

Domenica, 31 agosto 2025


[1] Leone XIV, Discorso ai membri dell’International Catholic Legislators Network, del 23 agosto 2025.

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