Occorre una battaglia culturale molto determinata che contrasti attivamente la semina della Rivoluzione antropologica sessantottina, che ha creato “nipoti” sazi e disperati
di Aurelio Carloni
Passeggiando per le strade delle città italiane si è colti da una inespressa sensazione di vuoto. Che cosa manca nelle folle di persone che si incontrano? Molto semplicemente mancano donne incinte, passeggini e bambini che le riempiano. È sempre più raro tornare a casa con l’immagine di un grembo che protegga una vita nascente o di una vita appena venuta alla luce, che dimostri col pianto il bisogno del latte materno. I dati sono lì a fotografare il suicidio demografico in atto in tutto l’Occidente, con Israele come unica eccezione.
Il demografo Paul Morland nel suo volume recente, Senza futuro, curato da Marco Valerio Lo Prete, fa emergere l’evidenza incontrovertibile che lo sviluppo economico comporti di fatto il declino, prima lento e poi via via più veloce, delle nascite. Le spiegazioni del fenomeno non sono univoche e rimangono troppo complesse per affrontarle in un post. Anche in Italia, con tragica perseveranza, stiamo costruendo una nazione con molti vecchi (inutile dire che chi scrive, anche per ragioni egoisticamente anagrafiche, non ha nulla contro la “categoria”) e pochi giovani. Dal 2008 il declino delle nascite appare incontenibile. Si è passati dai 576 mila di allora ai 198 mila dei primi sette mesi del 2025, ossia 13.000 in meno rispetto allo stesso periodo del 2024, anno che aveva già visto una decrescita rilevante rispetto al 2023. L’attuale tasso di fecondità dell’1,18 per donna è quindi destinato a calare ulteriormente, allontanandosi ancora di più da quello di “sostituzione” del 2,1 (che consente l’equilibrio tra nati e morti).
Le conseguenze sociali ed economiche per la nazione sono descritte con chiarezza da Marco Valerio Lo Prete in un suo articolo su Formiche (agosto-settembre 2025): «Il tandem tra forte denatalità e intenso invecchiamento, in realtà, alimenta squilibri potentissimi a tutti i livelli. Così, mentre da una parte nelle scuole sono stati sufficienti 5 anni di attività didattiche, tra il 2018 e il 2023, per vedere scomparire 5,2 studenti ogni 100, dalla parte opposta continua a crescere la spesa pensionistica che nel 2024 ha raggiunto quota 355 miliardi di euro, circa un terzo di tutta la spesa pubblica e l’equivalente di 10 leggi di bilancio». Lo Prete ricorda anche un altro effetto, ovvio ma poco considerato: un Paese con pochi giovani perde gran parte della sua capacità di innovazione. Quasi inutile, invece, ricordare gli effetti della denatalità dal punto di vista famigliare ed esistenziale. Pochi figli vogliono dire scomparsa delle figure fondamentali per la crescita: fratelli, sorelle, cugini, zii, ovvero la rete di solidarietà famigliare, fondamentale per superare le inevitabili prove della vita.
Dopo decenni di silenzio a ogni livello, il tema finalmente trova da tempo spazio nella politica e nei media. Il governo Meloni, in particolare con la Ministra della famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella, ha affrontato il problema in maniera strutturale con molte novità a favore dei figli e delle famiglie. E, nonostante i rigidi vincoli di bilancio, è riuscito a introdurre misure concrete che potranno essere auspicabilmente consolidate e ampliate nei due anni di legislatura rimanenti. Luciano Capone analizza così sul Foglio del 22 ottobre i risultati ottenuti in termini di aiuti: «Gli economisti Massimo Baldini e Stefano Toso, in un articolo pubblicato sulla rivista di politica economica Journal of Economic Policy, hanno fatto un confronto con i sistemi fiscali (tax-benefit) degli altri paesi misurando di quanto varia il reddito disponibile di una famiglia rispetto al numero dei figli. Il risultato è sorprendente. In Italia il reddito disponibile di una famiglia aumenta del 4% al primo figlio, dell’11% al secondo figlio e del 19% al terzo figlio. Questa variazione è superiore a quella di tutti i paesi considerati: Germania, Spagna, Svezia, Stati Uniti e persino la Francia del famoso “quoziente familiare”. La spesa monetaria per le famiglie è salita all’1,36% del PIL ed è superiore a quella di quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale. Eppure l’Assegno unico, questa grande innovazione del welfare italiano, non sembra aver portato molti bebè in più». Una evidenza che viene riscontrata in tutto il mondo sviluppato.
Quali le ragioni? Sono soprattutto culturali. Nel dopoguerra due orfani come i miei genitori si incontrarono e, pur in condizioni economiche di “scarsa opulenza”, spinti anche dalla volontà di sconfiggere l’orrore della guerra, decisero di vivere senza ansie la scelta di avere figli, che alla fine arrivarono a sei. E come loro fecero i tanti coetanei protagonisti del baby boom della fine degli anni ’50 e degli inizi degli anni ’60. Ora, invece, la paura del futuro e la cultura deresponsabilizzante dello “spritz” e della convivenza impediscono ai giovani di pensare a una famiglia con figli. Una situazione che richiama la splendida definizione della post-modernità nichilista e consumista che a suo tempo diede il cardinal Giacomo Biffi: sazia e disperata.
Allora la soluzione del problema non è solo politica e non passa solo attraverso le pur importanti misure e incentivi da essa realizzati, ma necessariamente anche attraverso quel faticoso impegno quotidiano di recupero del senso della vita, che alimenta la voglia di avere figli. Ci vuole una battaglia culturale forte e determinata contro la Rivoluzione antropologica del ’68, che dichiarò guerra alla famiglia e alla vita innanzitutto con il divorzio e con l’aborto. Solo attraverso questa opera di rievangelizzazione dei cuori il problema potrà essere risolto. La politica è importante, ma non è giusto che sia lasciata da sola a risolvere una crisi che richiede il coinvolgimento personale di ciascun uomo e donna dei nostri giorni. È l’ora di scendere in campo per far rinascere la speranza.
Venerdì, 24 ottobre 2025
