di Daniele Fazio
Gli eventi storici non vanno sminuiti, né tantomeno esagerati. Le false esaltazioni fanno male alla storia e servono semplicemente come autoaffermazione di una fazione politica rispetto a un’altra. La verità della storia ha infatti continuamente necessità di ricalibrarsi, depurandosi dall’ideologia, e dunque non può che essere refrattaria alla ragion politica. A questo proposito, lo storico Renzo De Felice (1929-1996) ha scritto: «lo sforzo deve essere quello di emancipare la storia dall’ideologia, di scindere le ragioni della verità storica dalle esigenze della ragion politica» (Rosso e Nero, a cura di P. Chessa, Baldini & Castoldi, Milano 1995, p. 46).
Occorrerà, dunque, lasciare alle beghe della cosiddetta “prima repubblica” la vulgata resistenzialista e analizzare sul serio le vicende drammatiche di una guerra civile che in Italia si è andata sviluppando dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Non una guerra di “Neri contro Rossi”, ma una guerra fratricida che contrappose uomini accecati e avvelenati dalle ideologie. Questa guerra s’innesta peraltro all’interno nel quadro generale di quella che lo storico tedesco Ernest Nolte (1923-2016) ha chiamato, con formula pregnante, “guerra civile europea” (cfr. La guerra civile europea 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo, n. ed. aggiornata, trad. it., con Presentazione di Gian Enrico Rusconi, Firenze, Sansoni 2004), in particolare nel contesto della Seconda guerra Mondiale (1939-1945), anch’essa motivata e infiammata da quelle che lo storico britannico Robert Conquest (1917-2015) ha definito «idee assassine» (cfr. Il secolo delle idee assassine, trad. it., Mondadori, Milano 199).
La contrapposizione tra fascisti e antifascisti ha riguardato, secondo i calcoli di De Felice, al massimo 4 milioni di persone. Pochi rispetto ai 44 milioni di italiani che, abbandonati a se stessi dopo l’Otto Settembre, hanno rappresentato quella grande “zona grigia” che optò per una posizione attendista. Ma la lettura storiografica costruita ad hoc negli anni successivi, e presto divenuta egemonica, ha artefatto il racconto colmandolo di gravi silenzi, importanti lacune e pesanti ipoteche sulla possibilità di un’autentica riconciliazione nazionale da guadagnare, seppur faticosamente, attraverso una memoria condivisa, che – un esempio tra tanti – non potrebbe mai accettare che in una guerra civile – cioè tra fratelli – ci siano morti di serie A e morti di serie B.
Perché una tale lettura ideologica? Risponde ancora De Felice quando parla di: «una vulgata storiografica, aggressivamente egemonica, costruita per ragioni ideologiche (legittimare la nuova democrazia con l’antifascismo), ma usata spesso per scopi politici (legittimare la sinistra comunista con la democrazia» (Rosso e Nero, cit., p. 45).
A più di settant’anni è però possibile raccontare tutta la verità, e non solo parte di essa, peraltro una parte soppesata a tavolino? Demitizzare la Resistenza non significa negarla, ma descriverla per quello che è stata. Per esempio ricordando che l’equazione fra “partigiano” e “comunista” è falsa. La Resistenza è stata un fenomeno variegato e l’elemento comunista ne è stato solo una parte. Tale elemento combatté, del resto, con un “doppio animo”: da un lato liberò sì, in parte, l’Italia dal “nazi-fascismo”, ma dall’altro nutrì, in segreto, la speranza di innescare un processo rivoluzionario in grado d’istituire, secondo la prassi marxista, la dittatura del proletariato.
Da qui il falso mito della “Resistenza tradita”, che ha alimentato per tanti anni ampie fette del mondo comunista, ma che è stato causato dall’ordine impartito da Stalin (Josif Vissarionovič Džugašvili, 1878-1953) al leader comunista italiano Palmiro Togliatti (1893-1964) di compiere quella che sarebbe passata alla storia come la “svolta di Salerno” (1944). Non si spiegherebbe infatti perché i “compagni” uccisero negli anni della guerra civile italiana e anche dopo, fino agli anni 1950, preti, seminaristi, sindacalisti, contadini cattolici e anche partigiani bianchi che nulla avevano a che fare con la contrapposizione fascismo-comunismo.
Un tale astio si è peraltro protratto fino agli anni del terrorismo ed è diventato un elemento significativo anche delle Brigate Rosse per le quali bisognava completare la Resistenza, facendo scoppiare la rivoluzione comunista in Italia. Ancora oggi chi ricorda questa verità dimenticata rischia l’emarginazione culturale perché il farlo mette in crisi la cosiddetta “superiorità morale” del Partito Comunista Italiano in quanto unica forza politica non collusa con il fascismo e quindi automaticamente candidata naturale alla guida della nazione.
Oggi, con il vantaggio dell’ampia distanza temporale da quei fatti, occorre quindi domandarsi quale sia la vera misura della libertà di cui gode l’Italia. Sul piano della memoria storica, fondamentale per l’identità di un popolo, gli italiani saranno veramente liberi solamente nel momento in cui abbandoneranno – o non si lasceranno imporre – letture ideologiche della storia, ricostruendo quel periodo, come lo storico latino Publio Cornelio Tacito (56-120) ha insegnato, sine ira ac studio.
Si è però ancora molto distanti da questo traguardo. Prova ne sono le contestazioni, anche violente, che in passato si sono verificate in occasione delle presentazioni dei libri del giornalista Giampaolo Pansa, già uomo di sinistra; l’etichetta “fascista” appiccicata addosso al socialista e antifascista De Felice e con lui a tutti coloro che non si sono uniformati alla nuova logica del “politicamente corretto”; e l’applicazione di ogni forma di ostruzionismo per evitare la proiezione di film come Il segerto d’Italia di Antonello Bellucco, che narra le vicende dell’eccidio di Codevigo per mano dei partigiani rossi di film come Red Land di Maximiliano Hernando Bruno sulle foibe.
La vera libertà passa insomma dalla liberazione dalle ideologie: tutte, vecchie e nuove ideologie.
Giovedì, 25 aprile 2019