20-11-2019
di Oscar Sanguinetti
La Conciliazione
- Premessa
Nella politica ecclesiastica del «dispotismo illuminato» settecentesco — ma anche nell’assolutismo del secolo precedente — il giurisdizionalismo è una costante. I sovrani europei di quell’epoca, oltre a ridurre l’influenza della religione nella società, si sforzano di indebolire il legame delle chiese particolari con Roma e di creare chiese nazionali sul modello di quella gallicana.
Nel periodo rivoluzionario e napoleonico, quando i principi del 1789 improntano prima la legislazione delle «repubbliche sorelle», poi i grandi codici dell’Impero, il Vecchio Continente fa le prime esperienze concrete di regime di separazione fra Stato e Chiesa e vede affiorare forme di laicismo non frutto di estemporanei contrasti fra sovrani e Santa Sede, ma articolo organico della politica statale.
La Restaurazione del 1815 segna il ritorno alla concordia fra trono e altare, ma nella società prosegue impetuosa la «meccanica» del processo di scristianizzazione e non tutte le devastazioni operate nell’organismo ecclesiale dal ventennio rivoluzionario vengono sanate, mentre le antiche tendenze giurisdizionalistiche riaffiorano presto un po’ ovunque.
Il processo di unificazione italiano — molto meno quello germanico — avrà come propulsore un plesso di ideologie e di forze che propugnano, insieme all’unità, un radicale mutamento culturale e sociale, che attui il cosiddetto «risorgimento» della nazione. La dimensione più profonda e schietta di tale mutamento non saranno tanto l’unificazione e la riforma politica, quanto la ripresa dell’emarginazione dalla vita nazionale del dato religioso e in prospettiva la sua rimozione dallo spazio pubblico.
Il nuovo Stato italiano non è una nuova creatura politica, bensì una semplice estensione delle istituzioni del Regno di Sardegna alla Penisola. I provvedimenti separatistici già introdotti in Piemonte fra il 1849 e il 1859 saranno così anch’essi imposti ai popoli degli Stati soppressi. La nuova legislazione religiosa sarà aspramente contrastata dai vescovi e dai sudditi del Centro e del Meridione d’Italia e produrrà talora anche sollevazioni popolari spontanee. La risposta del nuovo Stato a questa reazione sarà assai dura: l’opposizione anti-unitaria costerà la prigione o il confino a ben sessantasei vescovi, sì che parecchie diocesi rimarranno a lungo vacanti, mentre parecchi preti e fedeli saranno incarcerati.
Lo Stato unitario nel 1870 ingloba anche lo Stato Pontificio, privando così la Santa Sede di una base politico-territoriale, che in un tempo di comunicazioni ancora primitive è necessaria per il libero svolgimento della sua missione universale. La diplomazia vaticana sarà disconosciuta e il Vicario di Cristo, per protestare contro l’enormità dell’affronto patito, sceglierà di rinchiudersi nei Sacri Palazzi, dichiarandosi prigioniero di uno Stato ingiusto e rapace.
2. Questione Romana e Questione Cattolica, lascito del Risorgimento
Fin dall’indomani dell’unificazione affiorano — fra altri — due nodi, due «questioni» di rilievo irrisolte, che condizionano la vicenda storica del nuovo Stato: la «questione romana», ossia il problema dei rapporti fra Italia e Santa Sede, e la più ampia «questione cattolica», ossia il conflitto fra Stato liberale e mondo cattolico nel suo insieme.
Il laicato, obbedendo al non expedit (non giova), ossia l’astensione nelle elezioni politiche nazionali — allora votava non più del 2% della popolazione e l’elettorato era concentrato nei ceti altolocati — prescritto ufficiosamente da Papa Pio IX (1846-1878), si auto-emarginerà dalla vita politica nazionale e l’azione cattolica si sposterà massicciamente verso il sociale. Gli ultimi decenni dell’Ottocento vedono prevalere la corrente detta «intransigente», ossia quella che fa della soluzione alla Questione Romana l’impedimento per il ralliément allo Stato unitario, sulla linea «conciliatoristica».
Le due questioni religiose rimarranno a lungo aperte perché lo Stato, prono alla montante influenza della setta massonica, insisterà caparbiamente nel suo percorso di estromissione dei valori cattolici dalla sfera pubblica: i cattolici espliciti saranno discriminati e talora perseguitati nelle università, nelle professioni, negli ospedali, nella pubblica amministrazione, nell’esercito, mentre ovunque saranno favoriti i candidati affiliati alla setta o da questa «raccomandati». La battagliera stampa cattolica intransigente parlerà per l’Italia dell’esistenza di un «Paese legale», ampiamente minoritario sotto il profilo numerico, che determina le sorti del «Paese reale».
3. I primi tentativi di soluzione della Questione Romana e della Questione Cattolica
Nella seconda metà del secolo XIX e nel XX, non mancheranno ripetuti tentativi di risolvere le questioni a sfondo religioso post-risorgimentali. Pur nel clima di diffusa ostilità ufficiale, frequenti saranno i contatti discreti fra esponenti della Santa Sede — la conferenza dei vescovi allora ancora non esisteva — e del governo. Il cattolicesimo «conciliatorista» o «transigente» sarà in prima fila nel trovare modi e occasioni per ristabilire i contatti fra le due sponde del Tevere.
Fra i primi tentativi di pacificazione vi sono quelli, ripetuti, dell’ex gesuita lucchese Carlo Passaglia (1812-1887), ascoltato teologo tomista presso Papa Pio IX, più tardi vicino ai cattolici liberali piemontesi. Egli con reiterati appelli chiederà al Papa di rinunciare al potere temporale e al clero italiano di accettare il nuovo Stato unitario. Nel 1862 una sua petizione al Papa affinché ceda Roma per farne la capitale d’Italia raccoglie circa novemila firme fra il clero. A testimonianza che i tempi non erano «maturi», la sua intensa attività conciliatrice gli costerà tuttavia la sospensione a divinis e poi la riduzione allo stato laicale. Rimarrà tuttavia su posizioni teologiche ortodosse e morrà riconciliato con Roma.
Più oltre cattolici conservatori o «nazionali», come il napoletano Luigi Tosti O.S.B. (1811-1897) e il bresciano mons. Geremia Bonomelli (1831-1914), vescovo di Cremona, cercheranno contatti sull’altra sponda del Tevere, resi più audaci dallo stile pastorale meno rigido nelle forme del nuovo Papa, Leone XIII (1878-1903). A essi risponderanno liberali moderati di area governativa quali l’economista cremonese Stefano Iacini (1826-1891) e il napoletano Ruggiero Bonghi (1826-1895), ministro della Pubblica Istruzione.
Questa tornata di contatti si svolge negli anni in cui domina la politica la figura dell’antico cospiratore e garibaldino Francesco Crispi (1818-1901), il quale imprime una sterzata in senso «forte» alla figura di Primo ministro. Crispi teme l’impetuosa avanzata del movimento socialista e comprende che l’assenteismo dei cattolici riduce ulteriormente la base di legittimità del potere statale. Per questo, attraverso il padre Tosti, effettua alcuni sondaggi in direzione del Vaticano per sollecitare la rimozione, o almeno l’attenuazione, del non expedit per guadagnare al governo almeno la fascia di consenso cattolico-conservatrice. Il tentativo negoziale di padre Tosti tuttavia naufraga e il benedettino viene redarguito dal Vaticano per la sua iniziativa e, poco dopo, trasferito. Questo fallimento si tradurrà in una «conversione a U» del politico siciliano, che risfodererà il suo antico radicalismo anticlericale: da allora in avanti il governo considererà i cattolici alla stessa stregua dei socialisti, ovvero come una minaccia per il sistema liberale.
La famosa «crisi del Novantotto», scoppiata sotto il liberale conservatore Antonio Starabba, marchese di Rudinì (1839-1908), anch’egli siciliano, e culminata con i moti operai di Milano dispersi a cannonate dal generale Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924), con decine di morti e centinaia di arresti di esponenti cattolici — fra cui don Albertario — e socialisti, segnerà il punto più alto della tensione fra governo e mondo cattolico.
4. L’inizio della svolta
Nel primo decennio del nuovo secolo la rischiosità dell’intransigentismo e dell’assenteismo politico diverrà evidente agli occhi del successore di Leone XIII, san Pio X (1903-1914). Il socialismo è ormai allora una forza determinante nei destini della nazione, mentre al suo interno iniziano a declinare le correnti «umanitaristiche» e ad affermarsi quelle rivoluzionarie ispirate alle dottrine marxiste. Già nelle elezioni nazionali del 1904 Papa Pio X autorizza deroghe al non expedit, che fruttano l’elezione di tre deputati cattolici. Ma la pratica rimozione del divieto avviene in forma sistematica e formalmente concordata con le elezioni del 1913, quando è al governo Giovanni Giolitti (1842-1928). Nei collegi dove più si profila il successo socialista, la Santa Sede, pur mantenendo la massima intransigenza sulla Questione Romana, autorizza un esperimento: l’Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI), presieduta dal conte Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916), candiderà suoi esponenti o appoggerà candidati liberali moderati disposti a sottoscrivere l’impegno a non violare sette punti corrispondenti ad altrettanti «valori non negoziabili» per i cattolici. Le elezioni — le prime a suffragio universale maschile — segneranno il trionfo assoluto dei candidati liberali e l’accordo apparirà visibilmente un segnale di mutamento dell’ottica vaticana e preludio ad accordi di maggiore sostanza.
La Prima Guerra Mondiale, sotto la sferza della situazione di emergenza, vedrà infittirsi i contatti fra Stato e Chiesa. Alla vigilia della discesa in campo dell’Italia e specialmente dopo le prime grandi «mattanze» l’esercito «aprirà» ai cappellani militari e tollererà manifestazioni di devozione come la consacrazione dei soldati al Sacro Cuore, la stampa di immaginette sacre e la coniazione di medagliette devozionali destinate alle truppe. Ciononostante il governo, tenendo fede a quanto pattuito nel maggio del 1915 a Londra con gli Alleati, riesce a far escludere la Santa Sede dai negoziati di pace di Versailles del 1919.
Tuttavia, proprio in quella sede, in giugno, vi saranno incontri segreti fra il cardinale Bonaventura Cerretti (1872-1933) e il Primo ministro Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952). Il nuovo negoziato fallirà, però, per l’intransigenza della monarchia e per la successiva crisi del governo Orlando. Di nuovo, alla fine del 1921 il card. Cerretti sarà contattato dall’influente cardinale belga Desiré-Félicien Mercier (1851-1926), perché tenti una mediazione fra Vaticano e Quirinale, ma anche questo tentativo s’infrange.
A testimonianza che il clima si è fatto relativamente più disteso, la nuova Camera francese, nel novembre del 1920, vota i crediti per ripristinare l’ambasciata di Francia presso la Santa Sede e nel maggio dell’anno seguente sana la quaestio delle amministrazioni dei luoghi di culto, apertasi sotto Pio X, e la Francia riprende le relazioni diplomatiche con il Vaticano. Pochi anni dopo il governo italiano darà via libera al primo ateneo ufficialmente cattolico, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
5. Gli accordi del 1929
Con l’avvento del fascismo gli eventi si accelerano: contatti segreti fra Benito Mussolini (1883-1945) e il card. Pietro Gasparri (1852-1934) sono segnalati già nel gennaio del 1923. Nel 1925 Mussolini pensa a una riforma unilaterale dell’intera materia ecclesiastica e religiosa, sullo stile della Legge delle Guarentigie del 1870. Ma il progetto si arena, probabilmente perché assume sempre maggior concretezza l’ipotesi di un’intesa bilaterale di tipo concordatario, l’unica via di accordo considerata accettabile dalla Santa Sede.
Nel 1929 il fascismo è ormai stabilmente al comando della nazione e sembra davvero intenzionato a chiudere la Questione Romana e, in qualche misura, a porre fine al «carnevale» laicistico che ha contrassegnato il cinquantennio precedente. Dal loro punto di vista, Mussolini e le forze che lo hanno voluto Duce capiscono che il popolo italiano non può essere «nazionalizzato» integralmente finché è diviso nelle sue appartenenze e, inoltre, il regime non può avere il campo totalmente sgombro nel riplasmare la nazione.
Al di là del Tevere si farà dunque forte la tentazione di operare finalmente il ralliément dei cattolici italiani allo Stato, anche perché i buoni rapporti intessuti con il regime fin dai suoi esordi suggeriscono che in futuro sarà forse possibile condizionarlo dall’esterno. Papa Pio XI (1922-1939) peraltro diffida delle iniziative politiche autonome del laicato e predilige i contatti diplomatici e lo strumento concordatario. A sveltire la marcia verso la soluzione della questione religiosa contribuisce altresì la forte impressione che hanno destato in entrambi gli ambienti le violenze comuniste e anarchiche verificatesi nei primi anni del dopoguerra in Europa come in Italia, su impulso dalla conquista bolscevica del potere in Russia nel 1917, specialmente gli scioperi e le occupazioni delle fabbriche nel 1921.
Mussolini e Papa Pio XI comprendono che devono rinunciare ciascuno a qualcosa pur di ottenere il grosso della posta in gioco: per la Santa Sede la restaurazione come Stato indipendente e per il regime l’appoggio della Chiesa alla sua politica: la prima acconsentiva a rinunciare a influenzare la politica, liquidando i popolari — don Luigi Sturzo (1871-1959) dovrà partire per gli Stati Uniti — e gli intransigenti superstiti — gli ultimi irriducibili focolai, come il circolo fiesolano che si adunava intorno alla rivista Fede e ragione, diretta da don Paolo De Töth (1881-1965), saranno «silenziati» —, l’altro attenuava buona parte del laicismo presente nel suo codice genetico di sinistra.
Il connubio sarà sancito da un trattato diplomatico, inteso a porre fine al contenzioso apertosi nel settembre del 1870, nonché da un concordato fra Stato e Chiesa italiani. Per il Vaticano protagonisti dell’accordo sono specialmente l’avvocato Francesco Pacelli (1874-1935) — fratello del futuro Papa venerabile Pio XII (1939-1958) — e il gesuita marchigiano padre Pietro Tacchi Venturi (18611956), assai ben introdotto nell’entourage mussoliniano, che opererà come «uomo-ombra». Sull’altro versante un ruolo importante avrà il consigliere di Stato Domenico Barone (1879-1929), nonché il genero del Duce, conte Galeazzo Ciano (1903-1944).
Così, l’11 febbraio 1929 — con ratifica siglata il 7 giugno successivo — Chiesa e Stato attraverso i loro rappresentanti ufficiali, il segretario di Stato vaticano card. Gasparri e il capo del Governo italiano Mussolini, sottoscrivono nei palazzi del Laterano il patto che sancisce la chiusura della Questione Romana e, grazie al Concordato, in certa misura quella della Questione Cattolica.
6. I patti
Senza addentrarsi troppo negli aspetti giuridici, il Trattato — che non a caso esordisce con «In nome della Santissima Trinità» — consta di un testo di ventisette articoli, più una convenzione finanziaria. Con esso lo Stato italiano riconosce l’arbitrio perpetrato occupando l’antico Patrimonio di San Pietro e, nel contempo, indennizza la Chiesa per gli espropri forzati dell’«asse ecclesiastico» compiuti in Italia fra il 1859 e il 1870. Il Vaticano riconosce lo Stato italiano, che a sua volta abroga la Legge delle Guarentigie del 1870 e afferma ad perpetuum la piena sovranità della Santa Sede sull’area urbana di Roma racchiusa dalle mura leonine e vaticane: quest’area diviene il territorio di un nuovo Stato indipendente dal nome di Sacra Città del Vaticano. Oltre a ciò dichiara la extra-territorialità di alcuni edifici della Capitale e stabilisce un regime fiscale ad hoc per le proprietà vaticane.
La religione cattolica è riconosciuta religione dello Stato, con l’impegno di quest’ultimo di tutelarla e di promuoverla nei confronti degli altri culti. Per il sostegno del personale ecclesiastico lo Stato eroga un sussidio periodico, il cosiddetto «assegno di congrua» o, tout court, «congrua».
Con il Concordato — composto di quarantacinque articoli — il regime garantisce alla Chiesa italiana piena libertà di culto e di azione pastorale, sancisce l’abolizione dell’exequatur e del giuspatronato e la facoltà di nomina autonoma dei vescovi — cui però lo Stato impone un giuramento di fedeltà —, riconosce giuridicamente gli enti ecclesiastici e le congregazioni religiose, impone il rispetto della morale nelle leggi sul matrimonio, afferma la teorica libertà d’insegnamento, promuove la stabilità e il sostegno dell’istituto familiare e assicura lo svolgimento pacifico delle liturgie pubbliche. Ai due accordi daranno efficacia nell’ordinamento italiano la legge n. 810 del 27 maggio 1929 e leggi successive relative a materie particolari.
I Patti del Laterano manterranno vigore in età repubblicana con il loro inserimento all’articolo 7 della Costituzione, votata, con il consenso del segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti (1893-1964), fra il 25 e il 26 marzo 1947. Il Concordato sarà revisionato consensualmente nell’Accordo di Villa Madama, del 18 febbraio 1984, siglato dal card. Agostino Casaroli (1914-1998) e dal presidente del Consiglio Bettino Craxi (1934-2000).
7. Una lettura
Quali sono gli effetti dei Patti del Laterano? Per i cattolici, almeno in tesi, essi segnano la fine della discriminazione e la riapertura dello spazio pubblico alla religione e per la Chiesa di Roma la libertà di azione globale, la sanatoria dell’annosa Questione Romana e l’indennizzo per gli espropri patiti nel secolo precedente.
Al regime l’accordo frutta la conquista di nuovo e più ampio consenso popolare e l’appoggio della Chiesa nelle questioni temporali: lo Stato fascista può così cercare di portare a compimento quella «nazionalizzazione delle masse» avviata dalla Grande Guerra e mai riuscita ai governi liberali. La «cambiale» andrà allo sconto al momento dell’invasione dell’Impero di Etiopia nel 1935 e quando Mussolini deciderà di appoggiare militarmente la Cruzada anti-comunista spagnola del 1936-1939: entrambi i frangenti vedranno un entusiastico concorso di popolo, non escluso, salve poche eccezioni, quello dei pastori.
Negli anni seguenti non mancheranno tuttavia momenti di tensione e anche scontri fra regime e Chiesa sull’educazione della gioventù che il primo, via via più totalitario, tende ad arrogarsi integralmente. Nel 1931 i rapporti si rompono, i fascisti assaltano le sedi dei gruppi cattolici e Papa Pio XI sarà costretto a prendere le distanze dal regime con l’enciclica Non abbiamo bisogno. Ma, come detto, la riconquista del consenso cattolico al regime, salve alcune voci solitarie, sarà un fatto compiuto.
Quali, infine, i limiti degli accordi del 1929? In primis, i Patti instaurano un mero modus vivendi, in tesi revocabile, che lascia incompleti i progetti di entrambe le parti, quello restaurativo dei cattolici e quello tendenzialmente totalitario del regime. Solo i pochi integralisti cattolici sopravvissuti — ma anche, sebbene dal punto di vista opposto, i modernisti — capiscono che Mussolini non è Carlo Magno (742-814) o san Luigi IX di Francia (1214-1270); qualche fascista, dal canto suo, si accorgerà che la tenace presa del cattolicesimo sul popolo — che si rivelerà provvidenziale per gl’italiani quando il regime crollerà, l’8 settembre 1943 — continuerà a limitare non poco il disegno mussoliniano di uno Stato «fascistissimo».
Quindi, comportano la smobilitazione di ogni presenza cattolica in quanto tale nella politica, affidano il Paese a una classe dirigente ideologicamente spuria e spesso improvvisata, e producono così un grave deficit di cultura politica che impedisce la formazione, nel difficile contesto di metà secolo XX, di una classe dirigente cattolica secondo la dottrina sociale della Chiesa. Durante il fascismo i cattolici si concentreranno sul religioso e sul sociale, mentre nuclei di cattolicesimo politico autonomo sopravvivono, ancorché privi di rilevanza, solo all’ombra dell’Azione Cattolica, che il regime non riuscirà a sopprimere. In queste nicchie crescerà sempre più l’influenza della cultura ispirata dal filosofo francese Jacques Maritain (1882-1973).
Finita l’avventura del «clericofascismo», a prendere la guida politica dei cattolici nel nuovo contesto pluralistico, democratico e repubblicano, si troveranno dunque solo frammenti di classe politica pre-fascista sopravviventi — i vecchi esponenti del popolarismo —, nonché, anche se con minore peso, cattolici «democratici» come don Giuseppe Dossetti (1913-1996) e Giorgio La Pira (1904-1977) — peraltro assai diversi fra loro —, nonché gl’intellettuali «dirigisti» formatisi all’ombra di padre Gemelli alla Cattolica, come Amintore Fanfani (1908-1999).