di Lorenzo Cantoni
I. Genitori e figli: quale rapporto? – II. Autorità, educazione e potere – III. Rapporto parentale e mentalità moderna in una prospettiva bioetica – IV. Alcuni aspetti dell’educazione – V. Samuele ed Eli (alcuni appunti su TV ed educazione) – VI. Il gioco e i giochi
I. Genitori e figli: quale rapporto?
Sant’Agostino, nel dialogo “De Magistro” scritto per il figlio Adeodato, osserva che si va dai maestri non per sapere ciò che pensano su questo o quell’argomento, ma per conoscere la verità. Il fondamento del nostro sapere non sono dunque i maestri, ma la realtà stessa, una realtà che essi ci aiutano ad accostare e comprendere.
Chi insegna – parafrasando san Paolo – non è allora padrone della nostra conoscenza, ma collaboratore della nostra saggezza: ci conduce per mano, con i suoi discorsi, a incontrare la verità delle cose.
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La notazione di sant’Agostino può aiutarci a capire meglio anche il rapporto tra genitori e figli.
La mentalità corrente infatti riduce sempre più questo rapporto a un rapporto di produzione: il figlio è un prodotto del fare di altri uomini, e come tale può essere gettato là dove è di ostacolo o non è “riuscito bene” (aborto), lo si può escludere come prodotto non voluto (contraccezione), lo si può fabbricare là dove non c’è (ingegneria genetica), magari solo per usarlo come insieme di pezzi di ricambio biologici… Conviene notare a – questo proposito – come i termini stessi di ingegneria genetica, fecondazione artificiale, utero in affitto, siano tratti dal mondo delle cose, e non richiamino affatto rapporti personali.
Una tale mentalità fa consistere la vita di ogni uomo che viene in questo mondo solo sulle esistenze che lo precedono: il senso della vita di ciascuno non è altro che il fare di chi lo ha generato.
Si tratta – è evidente – di un rapporto di dominio assoluto, di violenza, in cui non c’è spazio alcuno per la libertà. Al contrario, l’osservazione di sant’Agostino, se applicata al rapporto generazionale, ci impone di andare oltre questa mentalità, di non ridurre il senso della vita umana alla sua origine biologica.
Tre vie possono condurci a superare questa riduzione della persona a prodotto di una serie di meccanismi biologici.
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Nel vangelo di san Luca, al termine della genealogia di Gesù, leggiamo: “figlio di Adamo, figlio di Dio” (Lc 3, 38); la stessa linea genealogica incontra alla propria scaturigine l’atto libero di Dio creatore. Prima via.
Nel libro della Sapienza leggiamo: “dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore” (Sap 13,5; cfr. Rom 1, 20); la stessa intelligenza naturale, così come la volontà libera, ci mette in rapporto con Dio, ci fa accostare a Lui. La spiritualità della persona umana non è riducibile a prodotto di organi corporei: è la verità cui la dottrina cattolica ha sempre richiamato insegnando che l’anima di ogni uomo è creata direttamente da Dio. Seconda via.
Nel vangelo di san Giovanni leggiamo: “a quanti però l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1, 12-13); Dio ci ha chiamati – in Cristo Gesù – a un rapporto più intimo, soprannaturale, con Lui: a essere suoi figli adottivi. Terza via.
Queste tre vie costituiscono altrettanti cammini di liberazione dalla violenza dell’evoluzionismo materialistico, dell’agnosticismo e del naturalismo: solo la verità rende liberi.
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Compito dei genitori non è dunque quello di ridurre a sé il senso della vita dei figli, facendo così loro violenza; essi devono piuttosto accogliere in trasparenza la paternità divina, che si annuncia nel loro essere padre e madre a livello biologico, a livello educativo e a livello religioso.
Solo dicendo insieme “Padre nostro” figli e genitori potranno vivere nell’amore e non nella violenza.
II. Autorità, educazione e potere
A volte studiare le etimologie delle parole serve a comprendere meglio le realtà di cui ci parlano: è certo questo il caso delle parole autorità ed educazione.
Autorità deriva dar verbo latino augere, che significa far crescere. L’autorità è dunque la capacità di far crescere.
Educazione deriva invece dal latino educere, che significa condurre fuori. L’educazione è allora il processo con cui si fa crescere (augere) secondo la natura di ciò che cresce: si cava – in altri termini – ciò che già c’è, ma allo stato potenziale.
Autorità ed educazione hanno dunque la loro collocazione originaria tra i viventi, dove ci possono essere nascita, sviluppo e crescita, così come involuzione, stasi e morte. Allora nellessere padre e madre incontriamo il luogo primario dell’autorità e del compito educativo: essi sono infatti i primi a dover rispondere all’appello del bambino che chiede di essere aiutato a crescere, di essere educato; per questo l’autorità è innanzitutto servizio ai piccoli.
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Far crescere, ma in che senso? La crescita infatti ha senso solo rispetto a un progetto, rispetto a un modello guardando al quale si può dire se ci si avvicina a essi o no. Ugualmente, educare ha senso solo se si sa che cosa va tirato fuori e che cosa, eventualmente, no.
Un mondo che nega l’esistenza di una verità sull’uomo, di un fine per cui l’uomo esiste – rispetto al quale egli può essere giudicato buono o meno – non può conoscere né l’autorità né l’educazione. Esso conosce solo il potere – cioè la capacità di far qualsiasi cosa, il cui modello supremo è il denaro, che rappresenta il potere senza alcuno scopo – e l’istruzione, una sorta di addestramento per l’animale uomo.
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Il compito originario di ogni riflessione razionale (di ogni filosofia), già scritto sul tempio di Apollo a Delfi, diceva “conosci te stesso!”, imponeva cioè di cercare la verità sull’uomo, quella verità rispetto alla quale solo è possibile far crescere ed educare.
La modernità – che nega all’esistenza umana alcuno scopo, fino a ridurla a un’inutile passione – ha rinunciato a tale compito, abbandonandosi al puro potere, ha optato per la capacità violenta di convincere con argomentazioni capziose, di manipolare l’opinione altrui (sofistica), rinunciando alla ricerca amorosa della verità (filosofia).
Se il progetto di ogni educazione nella verità (autorevole) è “diventa quello che sei!”, quello di un addestramento è invece: “sii quello che ti faccio diventare!”.
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Il cristiano sa che Gesù svela all’uomo la verità sulluomo: solo Gesù sa ciò che c’è nel cuore dell’uomo.
Solo chi si unisce a Lui, l’uomo nuovo, può essere veramente se stesso, può tutto: chi vuole fare senza di Lui non può nulla.
Quando Pilato presenta Gesù agli ebrei dicendo “Ecco l’uomo!” (Gv 19, 5) senza saperlo indica il compito di ogni educazione e il modello di ogni autorità.
Gesù stesso glielo aveva detto: “chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (Gv 18, 37), ma Pilato non aveva voluto ascoltarlo e gli aveva voltato le spalle.
“Non c’è autorità se non da Dio” (Rom 13,1), ma Pilato era più interessato al proprio potere che alla verità sull’uomo, alla propria carica che a servire gli altri partecipando nella verità della paternità divina.
“Sorse allora una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli disse: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è il più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve”” (Lc 22, 24-27).
III. Rapporto parentale e mentalità moderna in una prospettiva bioetica
1. Sant’Agostino, nel De Magistro, il dialogo scritto per il figlio Adeodato, parlando dellinsegnamento dice che si va dai maestri non per sapere come la pensano, ma per conoscere – grazie ai loro discorsi – come sono le cose.
In altre parole: la nostra conoscenza non consiste, non ha il proprio fondamento nei discorsi degli insegnanti, ma si fonda sulle cose stesse. Nell’insegnamento non incontriamo innanzitutto l’insegnante, ma – attraverso di lui – incontriamo il reale.
2. Se questa osservazione può aiutarci a comprendere meglio il senso dell’istruzione, del rapporto allievo/insegnante e viceversa, essa può anche introdurci a una migliore comprensione del rapporto educativo, e di quello figli/genitori (e viceversa) in particolare. Una introduzione che – indicando il rapporto corretto – illuminerà i limiti, gli errori e le minacce che caratterizzano l’attuale rapporto fra le generazioni.
3. Innanzitutto: così come il maestro non è padrone della verità, ma piuttosto aiuta il discepolo a incontrarla, allo stesso modo i genitori non sono padroni del figlio: egli non consiste, non si riduce completamente a loro, anzi, è in tutto loro simile, loro pari.
4. Ma prima di approfondire ulteriormente questo aspetto, conviene notare come una mentalità abortista, contraccettiva e favorevole alla fecondazione artificiale, sia del tutto contraria a questa prospettiva. Per essa il figlio è una cosa, un prodotto di una attività, meglio, di un fare.
Il figlio è una cosa che si fa o si disfa: qui le due strade apparentemente divergenti dell’aborto-contraccezione e della fecondazione artificiale si incontrano: nel primo caso o lo si disfa – lo si uccide – quando c’è (aborto), o lo si esclude quando potrebbe esserci (contraccezione); nell’altro caso lo si fa a ogni costo. In entrambe le situazioni esso è qualcosa su cui si ha potere di morte e di vita (di vita non solo nel senso negativo di non-uccidere-ciò-che-si-può-uccidere, ma anche in quello di far-vivere-ciò-che-prima-non-viveva).
5. Di più: le frontiere dell’ingegneria genetica portano a una concezione dell’uomo/figlio come di qualcosa di cui si dispone anche nei particolari, programmandone le caratteristiche somatiche e psichiche. Di più ancora, già si parla di fabbricare sempre un doppio per ogni uomo, da usare per eventuali pezzi di ricambio.
Né devono sfuggire le assonanze anche linguistiche con l’ambito del linguaggio che parla delle cose: ingegneria genetica, programmare, pezzi di ricambio, utero in affitto, ecc.
6. Si diceva del rapporto genitori/figli, suggerendo che esso vada in qualche modo esemplato su quello maestri/discepoli così come tratteggiato da sant’Agostino. In che senso? Si tratta di una verità che la teologia cristiana, così come la metafisica classica, dichiaravano affermando l’irriducibilità dell’anima al corpo, e la sua diretta creazione da parte di Dio. Il rapporto coniugale, alla luce di questa affermazione, si presenta dunque come una condizione necessaria, ma non sufficiente dell’essere del figlio.
La sua vita è dunque – fin dall’origine – in rapporto con Dio, un rapporto liberante, che lo emancipa da un meccanicismo biologico – quale è posto e accettato da ogni posizione materialistica – e lo costituisce come persona.
7. Per certi aspetti si può dire che in una visione cristiana del mondo ogni persona umana (sia essa persona/padre, persona/madre o – comunque sempre – persona/figlio) intrattiene un triplice rapporto con Dio:
a. un rapporto che coinvolge la sua stessa corporeità: egli è figlio – tramite la linea genealogica – del primo uomo, Adamo, e Adamo è figlio di Dio (cfr. Lc 3, 38), si tratta di una situazione tutta particolare dell’affermazione secondo cui tutto il creato dipende strutturalmente dal Creatore;
b. un rapporto personale, perché l’anima è creata direttamente da Dio, e con Dio può relazionarsi attraverso le sue facoltà: intelligenza (attraverso la conoscenza della teologia naturale) e volontà (attraverso la vita morale e la religione naturale [cfr. Sap 13 e Rom 1]);
c. un rapporto ancora più immediato e pieno, attraverso la partecipazione soprannaturale alla vita divina: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1, 12-13).
Contro questi rapporti si schierano (oltre, evidentemente, a tutte le forme di ateismo e di materialismo) rispettivamente l’evoluzionismo ideologico, l’agnosticismo e il deismo.
8. A questo punto il rapporto fra parentalità genetica ed educativa e paternità divina (“dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome” [Ef 3, 15]) acquista il suo giusto equilibrio e, insieme, mostra la violenza del rapporto così come è considerato nella mentalità che caratterizza il mondo moderno.
Compito del rapporto parentale non è dunque quello di velare, ma di svelare, di accogliere in trasparenza la luce della paternità divina, sia
a. al livello naturale, nell’accogliere la volontà divina quale si annuncia nella natura stessa del creato, nella legge naturale (cfr. 2Mac 7, 22-23: “Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore del mondo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo lo spirito e la vita, come voi ora per le sue leggi non vi curate di voi stessi”);
b. a livello spirituale, nell’educare l’intelligenza al vero e la volontà al bene e alla virtù (cfr. Lc 2, 52: “E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”);
c. a livello religioso, nel condurre a Dio, Padre di ogni dono buono, articolando così la famiglia come chiesa domestica, che è insieme ecclesia di amici (cfr. Sal 132 (133): “Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme! […] Là il Signore dona la benedizione e la vita per sempre”; Gv 15, 15: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”), figli (cfr. Rom 8, 15-16: “E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo “Abba, Padre!”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio”) e dèi (cfr. Sal 81 (82), 6: “Io ho detto: “Voi siete dèi, siete tutti figli dell’Altissimo””; Gv 10, 34-36: “Rispose loro Gesù: “Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi? Ora, se essa ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio (e la Scrittura non può essere annullata), a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo, voi dite: Tu bestemmi, perché ha detto: Sono Figlio di Dio?”).
9. Il cammino percorso si è proposto – è il momento di uno sguardo anche retrospettivo – di indicare una traccia per la comprensione del corretto rapporto fra parentalità genetica ed educativa e paternità divina, esso ha però inteso gettare insieme una luce su quale tipo di rapporto sia presupposto e implicato dalla mentalità abortista, contraccettiva e favorevole all’ingegneria genetica. In particolare, ha voluto mostrare la cifra di tale mentalità, che consiste nella violenza. Una violenza che, a sua volta, si situa già prima della generazione, nel rapporto fra i coniugi stessi; e che, dopo, si svela nel sentirsi “oggetto” da parte del figlio, e nel caricare il rapporto parentale di oneri eccessivi, richiedendogli di render conto e di fondare ultimamente la vita dei figli.
Tale onere eccessivo impedisce la comunicazione (che non ha nella contiguità spazio-temporale una condizione sufficiente) e un’autentica realizzazione personale libera, solo il rapporto con l’Assoluto può garantire la libertà umana, così come l’amore (cfr. Gv 2, 1-11, le nozze di Cana) da quei fenomeni aberranti come tossicodipendenza, suicidio e altri generi di fuga da una vita senza senso.
Tale sovraccarico si accompagna però – e non è un caso – alla non assunzione da parte dei genitori (e dei figli) delle autentiche responsabilità educative e realmente interpersonali.
10. Solo una società – anche quella microsocietà che è la famiglia – i cui membri possano dire, tutti insieme, “Padre nostro” può attendere al compito generativo ed educativo senza che in esso si annidi la violenza.
IV. Alcuni aspetti delleducazione
L’attività educativa è certamente un’attività che richiede grande equilibrio, e un’attenzione continua e contemporanea ad aspetti diversi. In qualche modo si può dire che si svolge attorno a tre poli principali; l’attenzione più decisa all’uno o all’altro di essi ha caratterizzato scuole e orientamenti diversi nella pedagogia.
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Il primo polo è costituito dalla verità. Ogni educazione deve essere orientata alla verità: alla verità del modello proposto a chi viene educato, alla verità degli insegnamenti impartiti.
Sant’Agostino scrive nel De Magistro che non si va a scuola per sapere le opinioni degli insegnanti, ma per conoscere la verità. Non mi importa che cosa pensa il professore di matematica sulle equazioni di primo grado, ma m’importa come si risolvono…
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È noto però che, se tutti gli insegnanti di matematica sanno come si risolve un’equazione di primo grado, non tutti lo insegnano nello stesso modo, ma alcuni lo insegnano meglio (e prima, e in modo che chi apprende lo faccia senza fatica) e altri peggio. Alla fine ciò che viene insegnato – come si risolvono le equazioni di primo grado – è appreso, ma le modalità di insegnamento possono essere molto diverse; questo è il secondo polo: il metodo. Il metodo è la via che ci conduce alla meta che ci siamo prefissi di raggiungere, e – come tutte le strade – può essere breve o lunga, sicura o pericolosa, stretta o larga, facile o ardua…
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Se il primo polo ci ha indicato quale debba essere la meta di ogni educazione, e il secondo ha richiamato l’attenzione sul cammino da percorrere per raggiungerla nel modo migliore (e dunque anche nel modo “più vero”), il terzo sottolinea che la strada è percorsa, e la meta raggiunta, da qualcuno: chi viene educato. La sua vita intera, con tutte le sue dimensioni corporea, psicoaffettiva, intellettiva, volitiva e spirituale, viene coinvolta nell’atto e nel processo dell’educazione.
Se il metodo deve essere la via migliore per condurre alla meta, deve essere la via migliore per qualcuno; se la meta è Milano, la via migliore per raggiungerla è l’Autostrada del Sole, se sono a Roma, ma è la Via dei Laghi se sono a Como. La verità sul metodo è allora indicata non solo dalla verità della meta, ma anche dalla verità su chi la deve percorrere.
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Sottolineare uno solo di questi tre poli, ignorando gli altri, porta a una pedagogia squilibrata, che rischia di fallire il suo obiettivo. Ma come riuscire a tenerli presenti tutti e tre, e insieme? Come condurli a una prospettiva unitaria?
“”E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”.
“Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”” (Gv 14, 4-6).
V. Samuele ed Eli (alcuni appunti su TV ed educazione)
“Il giovane Samuele continuava a servire il Signore sotto la guida di Eli. La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti. In questo tempo Eli stava riposando in casa, perché i suoi occhi cominciavano a indebolirsi e non riusciva più a vedere. La lampada di Dio non era ancora spenta e Samuele era coricato nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio. Allora il Signore chiamò: “Samuele!” e quegli rispose: “Eccomi”, poi corse da Eli e gli disse: “Mi hai chiamato; eccomi!”. Eli rispose: “Non ti ho chiamato, torna a dormire!”. Tornò e si mise a dormire” (1Sam 3, 1-5).
Samuele vive nel tempio, ed è educato dal vecchio sacerdote Eli: a lui si rivolge quando si sente chiamato per nome. L’educazione è anzitutto un rapporto personale dialogico; così, ad esempio, la considerava sant’Agostino, che nel suo dialogo Il maestro afferma che ogni dire è, in qualche modo, un educare, un far crescere.
Il mass-media invece non permette alcun dialogo: non c’è un tu cui ci si possa rivolgere, cui dichiarare la propria disponibilità (eccomi!), o cui chiedere spiegazioni, con cui confrontarsi continuamente.
È vero: si dice che la TV parla al pubblico; ma chi è costui? Certo, nessuna persona reale – cui dare del “tu” – che si possa ascoltare, si tratta invece di una comoda finzione, quasi di un’ipotetica media di tutti gli ascoltatori reali. Quando parlo con qualcuno, e non ci capiamo bene, cerchiamo, per via di domande e risposte, di spiegarci, di allineare in un certo senso i nostri mondi. Facciamo un esempio: se qualcuno mi dice “ci vediamo subito dopo cena”, e non so a che ora è solito cenare, gli chiederò: “a che ora?”, così da non andare da lui alle otto, se cena alle nove; o alle nove, se cena alle sette.
Ma se lo dice in TV, e lo ascoltano dieci milioni di persone, con abitudini molto diverse, a che ora ci vanno? Figuriamoci cosa succede quando qualcuno dice “è una questione di giustizia sociale”, o “bisogna tornare alla rivoluzione francese”, oppure “il turismo in Georgia è in sensibile crescita”, o ancora “il trend sociale è molto positivo” e via fraintendendo… Per essere sicuri che tutti capiscano la stessa cosa (o quasi), si è allora inventato l’interlocutore perfetto del pubblico: la pubblicità. Per farsi capire, essa si rivolge solo agli istinti e alle pulsioni primarie (i basic instincts), riducendo la comunicazione-educazione a una semplice stimolazione, a manipolazione delle volontà.
Si diceva del dialogo: in ogni dialogo, chi viene interpellato si sente chiamato a rispondere, è responsabile. Sono a tavola, qualcuno mi dice che il vicino di casa sta male, e io continuo a mangiare come se niente fosse: sono un sadico. Sono a tavola, qualcuno dice che migliaia di persone sono state colpite da una catastrofe, e io continuo a mangiare con appetito crescente: sto guardando il telegiornale. Il pubblico è, necessariamente, irresponsabile.
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“Ma il Signore chiamò di nuovo: “Samuele!” e Samuele, alzatosi, corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Ma quegli rispose di nuovo: “Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!”” (1Sam 3, 6).
La vicenda di Samuele si svolge in un tempo e in uno spazio reali, dove lui dorme, ascolta, corre, parla. La comunicazione dei mass-media è, di necessità, ridotta invece solo ad alcuni canali sensoriali, costituendo così delle esperienze fittizie, venendo ad essere il contrario di uneducazione al realismo.
Il bambino che gioca a nascondino nel parco impara a collegare in un tutto unitario le sue esperienze percettive (la luminosità del pomeriggio, il caldo, la stanchezza, i suoni…), a collegare i fini (scoprire gli altri bambini) con i mezzi (osservare con attenzione ogni possibile nascondiglio, non allontanarsi troppo dalla tana…). Anche una sbucciatura al ginocchio per la corsa sulla ghiaia lo aiuterà a capire meglio la realtà e ad operare in essa con maggiore consapevolezza.
Il bambino che dopo un pomeriggio ha ucciso seimila alieni sul video televisivo, in realtà ha solo premuto numerose volte un tasto: nulla della stanchezza, del rischio, della gioia, dell’entusiasmo, della realtà di un gioco e di un’esperienza vera.
Anche rispetto al sapere si rischia di cadere in un pericoloso equivoco: che esso non sia questione di paziente e continua ricerca, ma semplicemente il frutto di un’esposizione passiva alle “informazioni”. La TV induce a credere di sapere tutto, di aver visto tutto, tale è la potenza suggestiva delle impressioni visive e la quantità di “informazioni” cui veniamo esposti, dalle catastrofi naturali alle notizie più insignificanti. Da questo punto di vista, l’informazione a stampa è meno pericolosa, perché non può annullare la coscienza che si tratti di un resoconto, del racconto fatto da qualcuno di qualcosa cui il lettore non ha assistito di persona; in questo caso il lettore ha ben chiaro che ciò che ha di fronte non è la realtà stessa, ma un medium, un mezzo per accostarsi alla realtà.
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“In realtà Samuele fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore. Il Signore tornò a chiamare: “Samuele!” per la terza volta: questi si alzò ancora e corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”” (1Sam 3, 7-8a).
Se uno dei modi per superare il problema di una comunicazione anonima al pubblico è quello di ridurne i contenuti ai basic instincts, un altro modo – sempre più diffuso – è quello di far riferimento a ciò che sicuramente è pure comune a tutti gli utenti: d’essere cioè utenti di quel mezzo di comunicazione. Così i media, da mezzi per accostarsi alla realtà, sempre più si stanno trasformando in mezzi che rimandano a se stessi, in una realtà alternativa. È quello che si indica quando si dice che i mass-media tendono ad essere “autoreferenziali”, e così essi vengono sempre più a costituire un altro mondo, fantastico, diverso dal reale, dove il rimando è da programma a programma, da presentatore a presentatore, da attore ad attore.
Fin qui si sono visti alcuni aspetti strutturali dei mass-media (soprattuto della TV), aspetti che sono loro propri a prescindere dai contenuti veicolati, e su cui conviene riflettere a fondo per servirsene con accortezza.
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“Adolesco” significa “cresco”, e ognuno di noi – adolescente e non – sta crescendo, cambia ogni momento, e si chiede “verso quale adulto è bene che io cresca?”. Il problema dell’educazione diventa allora problema del modello che viene proposto come meta della crescita. A questo punto bisognerebbe allora valutare, in prospettiva pedagogica, quali modelli di uomo e di donna sono proposti dai mass-media, se essi rimandino a Colui di cui, come dice san Paolo, dobbiamo imitare gli stessi sentimenti – “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 5) – o ad altri…
“Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovinetto. Eli disse a Samuele: “Vattene a dormire e, se ti chiamerà ancora, dirai: Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”. Samuele andò a coricarsi al suo posto. Venne il Signore, stette di nuovo accanto a lui e lo chiamò ancora come le altre volte: “Samuele, Samuele!”. Samuele rispose subito: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”” (1Sam 3, 8b-10).
“Al contrario della mia generazione, quella attuale non è più curiosa: i giovani oggi chiedono di avere tutto a portata di mano, e non vanno a cercare ciò che non viene loro offerto direttamente e senza fatica”. Così mi diceva una simpatica professoressa di inglese per spiegarmi il perché nessuno studente viene mai a vedere che libri e che videocassette conservo in biblioteca.
Forse me lo ha detto perché le facessi un complimento sulla sua età, comunque ha ragione.
E così mi sono venuti in mente i giocattoli.
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Il gioco è per il bambino (e per l’adulto) un luogo ricchissimo di occasioni per crescere e migliorare.
Innanzitutto: nel gioco il bambino impara a stare con gli amici, a dialogare con gli altri, a stare in società. Ma questo stare insieme non è uno stare insieme generico, ma secondo alcune regole, che insegnano al bambino che si sta bene con gli altri solo nella lealtà e nella verità. Tant’è che se uno dei giocatori non le rispetta, “non sta al gioco”, non si può più giocare. Non ci si diverte più.
Sì, perché questo stare insieme è caratterizzato essenzialmente dalla gratuità: unica sua ragione è stare bene, essere felici, rallegrarsi gli uni degli altri, crescere insieme.
E il giocattolo serve, in tutto questo gioco di crescita, ad aiutare il gioco: esso non è, né mai può essere, il gioco stesso. Senza la fantasia e la creatività del bambino il giocattolo non può essere gioco, con queste, anche un vecchio giocattolo diventa nuovo.
Di più: il giocattolo non può mai sostituire gli altri giocatori; anche quando il bambino gioca da solo, gioca sempre con altri: nel desiderio e nella fantasia altre persone sono con lui. Del resto, basta osservare il fatto che il bambino che gioca parla sempre, anche quando è solo.
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Ma la frase della professoressa mi ha fatto venire in mente i giocattoli perché – purtroppo – talora gli adulti cercano di ridurre la crescita giocosa del bambino ai limiti angusti di cose-giocattoli.
Ed è così che il giocattolo tende a sostituirsi al gioco: giocattoli sofisticatissimi giocano con un bambino che anziché essere il creatore, l’animatore del gioco, ne diventa solo un possibile “utente”, un semplice “operatore”.
Anziché stimolare intelligenza e inventiva, questi giocattoli le riducono, la loro complessità è tale che al bambino non rivelano nulla: egli non può smontarli e rimontarli (aprirli e chiuderli) esercitando così la sua capacità di scoprire e di capire. E siccome ci prova lo stesso, allora li rompe. E ne vuole altri, sempre nuovi e diversi e più numerosi.
La vera novità non è più il suo entusiasmo, la sua fantasia, la sua capacità di capire e di inventare, la sua voglia di crescere bene con gli altri, ma il giocattolo stesso.
Un nuovo giocattolo è allora la controparte di un bambino che rischia di diventare già vecchio…