di Domenico Airoma
Il 25 Aprile non si tocca. Bisogna festeggiare la liberazione dall’oppressione fascista. Con tanto di associazioni partigiane e combattentistiche. E magari con il vescovo che benedice. Pure in epoca di pandemia.
Non intendo ritornare sulla discriminazione evidente rispetto ad altri cittadini italiani, che hanno reclamato di festeggiare anche un’altra liberazione, non certo da meno, quella dal peccato, nel giorno di Pasqua. Né mai mi sognerei di invitare a festeggiare la liberazione nel bagno di casa. Ma tant’è. Misteri di una democrazia viralizzata, e non solo per colpa del Covid-19.
Mi preme, però, suggerire una riflessione su chi davvero oggi possa fregiarsi del titolo di combattente per la libertà e per gli oppressi.
Succede, infatti, che Catalina Devandas Aguilar, relatrice per l’Organizzazione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, lanci l’allarme su aborto selettivo, diagnosi genetica pre-impianto e test prenatale, accusati di essere nient’altro che la «giustificazione etica a una nuova forma di eugenetica», smascherando così la sostanza disumana di asettiche pratiche mediche che vengono viceversa contrabbandate come conquiste civili. Ma vi è di più (come si usa dire in un pessimo gergo da aula di giustizia). La nostra novella Antigone chiama sul banco dei tiranni una ben precisa mentalità e i veri pianificatori di questo nuovo silente sterminio: «bioeticisti utilitaristi hanno sostenuto che il potenziamento genetico è un obbligo morale e che è etico dare ai genitori la possibilità di eutanasizzare i loro neonati con disabilità». E non è finita: «Potrebbe seguire che è meglio essere morti che vivere con una disabilità». Sicché ‒ così conclude la sua arringa l’avvocatessa costaricana (anch’ella disabile perché nata con la spina bifida) ‒ è urgente che gli Stati si adoperino per eliminare queste odiose discriminazioni che si fondano su un concetto sbagliato di dignità dell’uomo.
Reazioni? Silenzio, pressoché assoluto.
Torniamo, allora, al 25 Aprile e interroghiamoci su chi oggi attende ancora di essere liberato. Davvero.
Chi, cioè, si trova in una condizione di sudditanza tale da non avere nessuno, proprio nessuno, neppure una Carola o una Greta, insomma, che si batta per i suoi diritti? Catalina non sembra avere dubbi. E, con lei, tutti coloro che quotidianamente combattono negli ospedali e nei consultori in difesa dei nuovi schiavi, di quelli che si vedono negato il diritto a nascere, magari indesiderati o inadatti, o che, per la stessa ragione, vengono persuasi che è bene per loro morire.
E chi, invece, è dalla parte dell’oppressore? Ancora una volta Catalina, non ha dubbi, e, con lei, quanti si battono perché le leggi tornino ad essere rispettose della verità sull’uomo e venga svelata l’anima mortifera della cultura relativistica dominante.
Orbene, se sull’altare del 25 Aprile – icona della religione laicista – non c’è posto per quegli oppressi, se nelle celebrazioni della liberazione risuona – colonna sonora di una democrazia senza valori – la vuota retorica dei moderni oppressori dal volto buono, allora significa che c’è davvero da resistere ancora. E che non c’è da meravigliarsi se questa liberazione vale molto più di una Messa di Pasqua.
Ma non c’è da scoraggiarsi. Almeno fino a quando accadranno miracoli come quello che si è verificato qualche giorno fa nel tempio internazionale del relativismo più aggressivo, a opera di una donna il cui coraggio non si è fatto condizionare da una sedia a rotelle né dalla protervia dei tanti sacerdoti della falsa libertà.
Non ci scoraggiamo. E confidiamo che un giorno anche noi celebreremo la vera liberazione. E festeggeremo. Sarà il giorno 25, ma del mese di marzo. Perché è giusto festeggiare nel giorno in cui la Vergine Maria ha detto sì alla vita, permettendo la liberazione dell’uomo dalla schiavitù della morte.
Sabato, 25 aprile 2020