di Laura Boccenti
Come scrive Maurizio Crippa sul Il Foglio (21 maggio), le argomentazioni che Corrado Augias “sciabolava” sulla prima pagina di Repubblica del 20 maggio (“Prima la scuola pubblica”) contro le detrazioni fiscali per le scuole cattoliche sono “meravigliosamente retrò”. Chi scrive fa un po’ fatica a condividere il distacco ironico dell’avverbio, visto che ha scelto, e pagato, per i suoi quattro figli la scuola cattolica dalle elementari alla maturità, ma sul “retrò” non ha dubbi, tanto sono antichi i luoghi comuni sulla scuola “pubblica”, statale, libera e gratuita, contrapposta alla scuola “privata”, confessionale e per i ricchi.
Il primo luogo comune riguarda la libertà della scuola statale. In Italia, Paese di tradizione cattolica, la controversia tra scuola “pubblica” e “privata” si è intrecciato alla questione della confessionalità o “laicità” della scuola sin dai tempi dell’unificazione italiana, quando la legge n. 3725/1859 del ministro del Regno di Sardegna Gabrio Casati viene estesa a tutta la penisola. Dal punto di vista della classe politica liberale, la legge sulla scuola doveva aiutare a risolvere i problemi che mettevano in crisi la coesione del nuovo Stato. L’Italia era stata unificata da gruppi ristretti e, tra il popolo, in pochi avevano partecipato alle lotte per l’unità o avevano idea del concetto di nazione. La scuola perciò, oltre a impartire l’istruzione elementare per debellare l’analfabetismo e insegnare l’italiano, lingua poco conosciuta e pochissimo parlata, diventa un mezzo per la diffusione dei valori risorgimentali e liberali. Il R.D. 3961/1877, firmato dal ministro Michele Coppino, oltre a rendere effettivo l’obbligo scolastico di frequenza del primo biennio elementare, introduce il controllo statale sulle nomine dei maestri, sottraendole ai Comuni, e inserisce l’insegnamento “delle prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino” al posto dell’insegnamento religioso, attuando così l’indicazione di Massimo D’Azeglio, convinto che l’imperativo di quel momento storico fosse di “fare” gli italiani, plasmandone lo spirito civico e la coscienza nazionale.
Nei 150 anni successivi la scuola attraversa un percorso d’ininterrotta statalizzazione finché, negli ultimi decenni, va anche assumendo in modo progressivo una prospettiva culturale che unisce l’idea individualista di libertà, propria del radicalismo libertario, con la relatività storica di ogni valore. Così per Augias la scuola statale sarebbe “libera” in quanto laica, cioè aperta a qualsiasi insegnamento, purché dispensato con “buona e informata coscienza”. E come esempio di questa libertà d’insegnamento propone l’ipotesi di un docente che “insegnasse che Gesù aveva quattro fratelli e alcune sorelle, come scritto nei vangeli”. Questo ipotetico professore sarebbe libero d’insegnare nella scuola statale, “coerentemente al dettato costituzionale che disegna la laicità della Repubblica”, mentre correrebbe il rischio di essere licenziato in quella cattolica.
Non è semplice dirimere in poche parole il nodo di equivoci sotteso a questo concetto di laicità, che con più precisione dovrebbe essere definito laicismo. Mi limito a due considerazioni. La prima è che la nozione di laicità nasce col cristianesimo, che per primo distinse la sfera religiosa da quella civile. La seconda è che in tutte le civiltà della storia la cultura si è sviluppata come risposta alle grandi domande sul vero, sul bello e sul buono; perciò il compito di ogni cultura dovrebbe essere quello di consegnare all’uomo il significato della realtà, anche quella rivelata, e, insieme, la proposta di un’identità e di una vocazione con cui confrontarsi. Invece la libertà di cui parla Augias è figlia di una cultura che pone tutte le credenze sullo stesso piano e stabilisce come criterio di valore non la realtà, ma l’opinione e le preferenze individuali. Anche la scuola, nella misura in cui fa propria questa idea di libertà, finisce per offrire una visione univoca del mondo: quella del relativismo e del multiculturalismo. Con l’aggravante di destituire di plausibilità culturale qualsiasi proposta identitaria, relegandola nell’ambito del privato o, se non si sta al gioco, stigmatizzandola come fondamentalismo.
Il secondo luogo comune riguarda la gratuità (o semi-gratuità) della scuola statale. In realtà la scuola statale non è gratis, il costo medio per alunno è di circa 6.000 euro.
I genitori che, esercitando il diritto-dovere, riconosciuto dalla Costituzione, di primi educatori dei propri figli, scelgono una proposta educativa diversa da quella statale, pagano la scuola due volte: con le tasse e con la retta che devono versare all’istituto scelto da loro.
Se si considera poi che la legge n. 62, comma 7 art.1 del 2000 stabilisce che le scuole paritarie svolgono un servizio pubblico pienamente equipollente a quelle statali (sono inserite nel sistema nazionale di istruzione, i diritti e dei doveri degli studenti sono equiparati, vi sono le medesime modalità di svolgimento degli esami di Stato, compresa l’abilitazione a rilasciare titoli di studio aventi lo stesso valore legale delle scuole statali), si delinea una vera e propria discriminazione ai danni delle famiglie che esercitano il proprio diritto alla libertà educativa in quanto devono sostenere due volte i costi del diritto allo studio dei figli.
Questi luoghi comuni hanno accompagnato la storia d’Italia dal secondo dopoguerra senza mai trovare soluzione. Nel frattempo sono diminuite le famiglie in grado di permettersi la retta per mandare i propri figli nella scuola che vorrebbero. Queste scuole “parificate” dalla legge del 2000 (ma non per quanto riguarda l’aspetto economico) sono costrette a chiudere o ad alzare le rette a livelli improponibili. Contemporaneamente la scuola pubblica degrada sempre più. E l’Italia affonda.
Venerdì, 22 maggio 2020