di Mauro Ronco
La narrazione manzoniana della peste di Milano. – Alessandro Manzoni dedica due capitoli del suo capolavoro al flagello della peste che nel 1630 sconvolse la Città di Milano riducendo la popolazione da più di duecentomila abitanti a circa sessantacinquemila.
La narrazione di Manzoni merita di essere oggi riletta poiché dipinge con verismo quasi chirurgico le negligenze delle autorità; la sofferenza di tutti; gli eroismi di molti e la malvagità di alcuni; prova che l’esistenza condotta in pendenza di un pericolo mortale fa inesorabilmente emergere tra gli uomini e le donne di ogni tempo le tendenze più segrete dell’animo.
Le analogie con i nostri tempi. – La drammatica vicenda della pandemia da Covid-19 non è lontanamente paragonabile all’immane tragedia milanese del 1630. Intercorrono tuttavia tra esse alcune analogie significative. Prendo spunto dall’osservazione forse più profonda del racconto manzoniano, quella in cui lo scrittore de’ “I promessi sposi”, dando conto della credenza diffusasi nella popolazione circa la perversa diffusione del contagio ad opera degli “untori”, spiega che agli animi amareggiati dalla presenza dei mali e irritati dall’insistenza del pericolo “[…] piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa fare le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi”.
La minimizzazione iniziale del pericolo. – La narrazione manzoniana è declinata con una critica intransigente del governo politico e delle autorità cittadine per gli errori e le negligenze compiute nel fronteggiare l’insorgere e il diffondersi dell’epidemia. Quando trapelarono le prime notizie di segni strani di malattie, di mali violenti e di morti improvvise, la tendenza generale fu di minimizzare il pericolo. Il Governatore della città – il celebre condottiero genovese Ambrogio Spinola, che Manzoni maltratta in modo forse eccessivo –, mentre il contagio è in agguato, indice pubbliche feste per la nascita del primogenito del Re di Spagna: “senza sospettare o senza curare il pericolo d’un gran concorso, in tali circostanze…”.
Si pensa che il paziente 0 entrò in Milano il 22 ottobre 1629 – si trattava probabilmente di un soldato italiano al servizio di Spagna – ma la peste andò covando e serpeggiando “per l’imperfezione degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli e per la destrezza nell’eluderli tutto il restante dell’anno, e nei primi mesi del susseguente 1630”.
La “grida” con l’ordine d’impedire l’ingresso in Città agli stranieri provenienti da zone contagiate fu decisa il 30 ottobre, redatta il 23 novembre e pubblicata il 29 seguente, quando la peste era già entrata in Milano.
I recenti eventi d’Italia tra la metà di febbraio e l’inizio di marzo 2020 presentano analogie sorprendenti con la storia del ‘600 milanese. Il tenore di vita incomparabilmente diverso nei due momenti storici; l’immensa ricchezza dell’informazione e la fulminea rapidità della comunicazione di oggi rispetto alla modestia e alla lentezza dei mezzi di allora; la preventiva conoscenza – per notizia ricevuta dall’OMS – del rischio di contagio; le potenzialità eccezionali della scienza e della medicina di oggi rispetto a quelle misere di un tempo: ebbene, nonostante tutto ciò, gli errori e le negligenze di oggi presentano somiglianze evidenti con quelle di allora.
La critica di Manzoni alle autorità dell’epoca appare financo ingenerosa alla luce dell’insignificanza delle conoscenze scientifiche che possedevano i nostri antenati e della carenza dei mezzi tecnici ed economici a loro disposizione. Anche nell’Italia socialmente avanzata del 2020, quando il contagio era in agguato, importanti uomini politici sostenevano che tutto sarebbe “andato bene”, e organizzavano incontri ludici di gruppo grondanti ottimismo; scienziati autorevoli dichiaravano che l’allarme era ingiustificato, poiché il Covid rappresentava null’altro che un’influenza ordinaria, solo un poco più aggressiva del solito. La narrazione di Manzoni si distenderebbe oggi con un sarcasmo ben più corrosivo di quello con cui colmò illuministicamente di vergogna le autorità del ‘600.
Gli aiuti ai bisognosi. – I Decurioni della città “cercavano di far danari per via d’imprestiti, d’imposte; e di quel che ne raccoglievano, ne davano un po’ alla Sanità, un po’ a’ poveri; un po’ di grano compravano; supplivano a una parte del bisogno”. I sussidi ai poveri e la cassa di integrazione dovrebbero sostituire oggi il pane ai poveri e quel grano allora somministrato ai fornai per alleviare la carenza di cibo. Il disagio economico e la miseria sociale, conseguenza delle epidemie, richiedono l’aiuto pubblico. Non si arresti oggi lo Stato di fronte alle istanze europee e internazionali. Si preoccupi piuttosto delle sofferenze della popolazione.
Il compito della sanità pubblica. – Nel 1630 la sanità pubblica a un certo punto si arrese. Nell’ospedale di allora – il lazzeretto – divenne difficile assicurare l’ordine e il servizio; garantire le separazioni e rispettare le prescrizioni del Tribunale della sanità. Le autorità si rivolsero ai frati cappuccini, che presero la guida del lazzeretto il 30 marzo 1630. La quasi totalità di loro ci lasciò la vita, ma – nota Manzoni – “tutti con allegrezza”. Nell’esaltare i Cappuccini per la cura e la carità con cui svolsero l’assistenza, Manzoni non manca di biasimare le autorità civili, per aver dato un saggio di “una società molto rozza e mal regolata”, sorprendendosi per il vedere che “quelli a cui toccava un così importante governo, non sapessero più farne altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il più alieno da ciò”.
Anche oggi vi sono stati degli eroi: tutti coloro, uomini e donne, che non hanno abbandonato il loro compito di medici e di infermieri, continuando a prestare con generosità, nonostante la frequente carenza di mezzi, le cure necessarie agli ammalati; tutti coloro che hanno cercato in via amministrativa di far fronte all’emergenza, nell’incomprensione dei più ed esposti alla critica preconcetta dei media; tutti colori che hanno svolto gli indispensabili servizi di necessità, a cominciare dalle Forze dell’Ordine e dagli addetti alle esigenze primarie dei cittadini.
La caccia ai responsabili. – Oggi, appena cessata la fase più acuta della pandemia, si è scatenata immediatamente la ricerca dei responsabili. Leggo il titolo di un quotidiano: “Da Londra a New York la politica sotto indagine. A Parigi ottanta denunce accusano il governo”. Il testo prosegue: “Quando già l’Italia contava i morti a centinaia, in Francia il governo si preoccupava soprattutto di rassicurare la popolazione: la situazione era sotto controllo, il piano epidemiologico del 2011 aveva previsto tutto o quasi, il sistema sanitario era l’orgoglio della nazione, l’importante era evitare l’eccesso di allarmismo” (La Stampa, sabato 13 giugno).
In Italia è già partita in grande parata la caccia ai responsabili per via giudiziaria, non soltanto politica e mediatica. Le Procure stanno indagando con solerzia e determinazione; hanno mobilitato la Polizia giudiziaria in tutte le sue branche; selezionano le denunce; ordinano sequestri; iscrivono i nominativi dei sospettati nel Registro degli indagati. Si compulsano i codici. Più ampio lo spettro delle fattispecie punitive individuabili, più incisive e vaste saranno le indagini. Il delitto di epidemia colposa, con il supporto immancabile dell’art. 40 cpv. del codice penale, costituisce uno strumento straordinario per colpevolizzare una ragguardevole quota delle autorità politiche e amministrative che sono intervenute per dovere di ufficio nella gestione della pandemia.
L’azione penale è obbligatoria: mi è noto e non è mio intento accusare alcuno di eccesso di zelo. Le investigazioni per esercitare correttamente l’azione sono doverose. Mi domando però: dato per scontato che le pubbliche autorità avessero, secondo la distribuzione di competenze previste dal plesso delle norme vigenti, una serie cospicua di doveri a tutela della salute pubblica, è ragionevole l’idea che l’eventuale violazione di norme preventive – riscontrata ex post nella calma di un ufficio giudiziario – abbia costituito un fattore causale del diffondersi dell’epidemia in modo talmente significativo da far ritenere che il comportamento perfettamente diligente avrebbe impedito anche soltanto l’aggravamento del contagio? E ancora: quali connotazioni precise avrebbe dovuto avere il comportamento perfettamente diligente, valutato ex ante, quando le opinioni degli scienziati chiamati a consulto erano le più diverse tra loro? E quale livello di aggravamento dell’epidemia sarebbe ora necessario focalizzare al fine di responsabilizzare per il delitto di epidemia colposa un determinato agente pubblico, attesa l’incisività dell’aggressione del virus, la sua variabilità in relazione ai tempi e ai luoghi, l’incertezza in ordine al suo svilupparsi, la carenza di esperienze direttamente confrontabili? E con quali criteri epistemologici è possibile individuare ora il tipo di misure la cui assunzione avrebbe integrato la condotta irreprensibile se – nel momento dell’esplosione della pandemia – vi era un insuperabile conflitto di opinioni in ordine alle misure da assumere?
I temi scientifici e giuridici che si apriranno, certamente interessanti per la ricerca teorica, saranno estremamente complessi e, quasi certamente, l’incalzante ricerca dei colpevoli in queste ore scolorerà in diatribe legali che molto difficilmente focalizzeranno responsabilità penali al di là di ogni ragionevole dubbio: l’opinione griderà allo scandalo per la denegata giustizia!
Il rilievo di Manzoni circa l’attitudine umana di voler attribuire la causa dei mali alla perversità dolosa e, ora, alla negligenza biasimevole di taluni dovrebbe costituire oggetto di prudente riflessione per tutti.
La volontà colpevolista, che tracima dai quotidiani ai talk show televisivi e che lambisce le istanze giudiziarie, è la conseguenza di un fragilissimo stato di salute morale della società contemporanea, qualitativamente non diverso, ma forse più deplorevole, dello stato di salute della società seicentesca, che Manzoni criticò in maniera forse troppo severa.
La colpevolizzazione implica necessità di difesa; induce a ritorsioni accusatorie, provoca intossicazione degli animi e aggrava fino alla morte l’avvelenamento della vita politica e amministrativa del Paese.
Conclusione. – Non desidero che si equivochi il mio dire. Affermo con forza che la questione è politica, non giudiziaria. Non possono i processi risolvere la cronica inadeguatezza del sistema amministrativo e sanitario attuale. I problemi potranno essere avviati a soluzione soltanto in virtù di una politica radicalmente diversa.
La pandemia da Coronavirus ha mostrato un’incredibile impreparazione delle autorità politiche e amministrative preposte alla tutela della salute della popolazione, in Italia come negli altri Paesi occidentali. Tenendo conto di ciò, in particolare tenendo conto dei passi in avanti da compiere, delle lacune da colmare, dei mezzi da implementare, dei desideri superflui da accantonare, delle energie morali da sollecitare, anche in previsione di future e ancor più difficili prove – non soltanto da Coronavirus, ma da altre ancor più drammatiche evenienze, fors’anche provocate dalla perversità degli uomini – non sarebbe forse meglio dedicarsi, con lena rinnovata, con intatta buona fede e con generosità feconda, a ricostruire un sistema sociale gravemente infermo per le colpe di tutti, piuttosto che additarci reciprocamente a colpevoli?
Il mio appello è in questa direzione. Non v’è più tempo per accusarci gli uni gli altri. È tempo invece di costruire un sistema di vita meno convulso e di predisporre misure di prevenzione effettive. Ai mali che provengono dai virus e dalle innumerevoli calamità naturali la scienza e la tecnologia – lo abbiamo constatato – non sono in grado di opporre una resistenza assolutamente invincibile.
Senza dimenticare i compiti della scienza, occorre operare con l’obiettivo di una prevenzione più sicura; di un’assistenza meglio organizzata; di un’accettazione serena dei mali inevitabili con la ferma determinazione di combattere quelli evitabili.
L’ὕβϱις che ci induce talvolta a ritenerci invincibili va corretta con le virtù della fortezza operosa contro i mali vincibili; della pietà solidale verso la sofferenza umana e del giusto timor di Dio: rimedio appropriato contro la vanagloria.
Martedì, 16 giugno 2020