di Marco Invernizzi
Mario Barbera S.J. (1877-1947)
1. La vita
Mario Barbera nasce il 17 aprile 1877 a Mineo, in provincia di Catania, quarto dei dieci figli di un noto medico-chirurgo locale. Frequenta il ginnasio di Caltagirone e nel settembre del 1891 entra nel noviziato della Compagnia di Gesù, che la Provincia Sicula aveva allora a Notabile, nell’isola di Malta, emettendo i voti nell’aprile del 1894. Completati gli studi letterari, viene consacrato sacerdote nel 1905, quindi consegue la laurea in teologia e in lettere e il diploma in lingua francese. Nel 1910 viene chiamato alla redazione della rivista La Civiltà Cattolica — del cui Collegio degli Scrittori entra così a far parte — dove resterà fino alla morte scrivendo centinaia di articoli, di rassegne e di recensioni.
Nei primi tempi si dedica prevalentemente alla narrativa, scrivendo romanzi e novelle con intenti educativi, quindi si orienta verso le questioni pedagogiche e didattiche. Nei suoi frequenti viaggi di studio in Europa e negli Stati Uniti d’America visita scuole e centri culturali, partecipa a congressi e segue sia i nuovi indirizzi pedagogici sia le diverse politiche scolastiche, tanto da diventare il massimo esperto dei problemi educativi della rivista dei gesuiti, continuando l’opera di padre Gaetano Zocchi S.J. (1846-1912). I saggi di padre Barbera — che si richiama alla scuola del gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862) e del sociologo cattolico contro-rivoluzionario Frédéric Le Play (1806 -1882) — spaziano dall’esposizione dei princìpi filosofici e di diritto naturale, su cui si fonda ogni discorso pedagogico, all’analisi di provvedimenti legislativi in Italia e all’estero; dalla segnalazione di opere e di pedagogisti meritevoli alla critica delle teorie educative rivoluzionarie; dalla difesa dell’eredità didattica classico-cristiana all’apologia dei santi educatori. Dal 1929 — l’anno della pubblicazione del più importante documento pontificio in tema educativo, l’enciclica Divini illius magistri, di Papa Pio XI (1922-1939) — è consultore della Sacra Congregazione del Concilio e, quindi, della Consulta tecnica dell’Ufficio Scolastico Centrale per gli Istituti di Istruzione e di Educazione dipendenti dall’autorità ecclesiastica, costituito presso la Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi.
Muore a Roma, il 5 novembre 1947, mentre si reca a portare del pane a famiglie bisognose.
2. Il periodo “liberale”
I primi articoli di padre Barbera in materia di politica scolastica — inizialmente non firmati per evitare le ritorsioni di cui erano talora vittime gli scrittori cattolici — sono pubblicati nel periodo di massima pressione laicista sul popolo italiano, quello precedente l’importante vittoria elettorale cattolico-conservatrice del 1913.
Fin dal primo intervento — sulla legge n. 487 del 1911, firmata dal ministro massone Luigi Credaro (1860-1939), che disponeva l’avocazione allo Stato della scuola elementare —, denuncia “[…] la tendenza alla statizzazione della scuola”, quindi, nella cronaca Di un’agitazione nazionale per la libertà della scuola — relativa a un Convegno pro scholasvoltosi ad Assisi —, auspica “[…] una crociata nazionale […] per rivendicare quei diritti conculcati, che sono anche diritti della coscienza, della fede, del verace patriottismo”.
Nel 1921 interviene per criticare le misure vessatorie nei confronti dei renitenti all’istruzione obbligatoria proposte da Benedetto Croce (1866-1952) e sostenute solo dal Partito Popolare Italiano: “Sin dai tempi della Rivoluzione francese, lo Stato moderno si vanta di aver introdotto nella civile convivenza l’obbligo dell’istruzione, quasi che per l’innanzi non fosse esistito per diritto di natura un obbligo d’istruzione e non vi fosse stata nessuna autorità che l’inculcasse. Il vero è che lo Stato moderno liberale, nato dalla rivoluzione […], si è arrogato un preteso diritto di imporre direttamente siffatto obbligo, non solo senza riguardo al diritto di natura, ma a questo sostituendo se stesso”.
Secondo il diritto naturale — ricorda il saggista — “[…] lo Stato può e deve conseguire il fine secondario della prosperità pubblica nell’istruzione, senza violare il diritto paterno, usando del suo diritto e azione indiretta, cioè incoraggiando e stimolando le libere iniziative private, favorendo le associazioni insegnanti, ecc.”.
3. La Riforma Gentile
Sulle successive e importanti riforme scolastiche, operate dal gruppo di filosofi idealisti facente capo al ministro Giovanni Gentile (1875-1944) — e a torto identificate con il solo regio decreto n. 1054 del 1923 relativo alla scuola secondaria — il padre gesuita esprime il seguente giudizio: “La riforma scolastica del ministro Gentile […] attua in qualche parte il principio della libertà d’insegnamento. Essa cioè riconosce alla scuola privata, espressione più diretta del diritto educativo della famiglia, qualche parità di condizioni con la scuola pubblica — non tutta quella che le spetta […]. Inoltre […] restringe il numero delle scuole dello Stato e il numero degli alunni che vi possono essere ammessi”. Mentre raccomanda di non cedere a un incauto ottimismo — “Non ci illudiamo su un troppo favorevole avvenire. Gli Stati moderni accrescono, anzichè diminuirle, le loro pretensioni di vigilanza e di monopolio più o meno larvato su ogni fatta d’insegnamento” —, suggerisce alcune direttive per l’azione: “A future prepotenze legislative, ed anche alle eccessive esigenze presenti delle autorità dello Stato, è inutile opporre sterili lamenti; bisogna dar mano all’opera e andare un passo innanzi affine di sventare le macchinazioni del laicismo che mai non disarma”.
In un altro articolo osserva: “Sino dagli inizi del regno italico, sorto dal liberalismo, come tutti gli stati moderni, erano stati sovvertiti i due principi fondamentali della scuola: il principio etico-educativo dell’autorità e missione educativa paterna, naturale della famiglia, soprannaturale della Chiesa […].
“[…] All’altro principio dell’unità didattica dell’insegnamento e negli insegnanti, si sostituì la molteplicità contemporanea delle materie e dei maestri, e quindi si ebbe l’enciclopedismo superficiale e disgregatore”. Fa quindi notare che la Riforma Gentile — che rappresentava un miglioramento, se paragonata alla legislazione persecutoria del periodo “liberale” — non consiste nel “[…] semplice ritorno alla legge Casati […].
“[…] [perché] nei nuovi programmi si dice chiaramente “Alla religione, che la legge considera fondamento e coronamento degli studi elementari, si fa un posto notevole in molti insegnamenti”“. Poi — pur denunciando che il “[…] principio al quale si ispira la riforma è il principio hegeliano dello Stato panteista” — segnala che “[…] questi scopi, o intenzioni, sono estrinseci al fatto, quale è voluto dalla legge”. E conclude raccomandando: “Accettiamo il fatto, e non curiamo le intenzioni, quando queste non alterano né il fatto né i principi sui quali esso si regge”.
4. La “Carta della Scuola”
Il Concordato stipulato l’11 febbraio 1929 fra lo Stato italiano e la Santa Sede — che dà soluzione giuridica alla Questione Romana, ma non risolve il problema dell’estraneità culturale del popolo cattolico rispetto alla struttura politica nata dal Risorgimento, quindi della loro conflittualità latente —, non fa mutare il giudizio di padre Barbera sulla Riforma Gentile, che lo ripropone quasi alla lettera nei confronti delle XXIX Dichiarazioni — più note come Carta della Scuola —, presentate dal ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai (1895-1959) e approvate dal Gran Consiglio del Fascismo il 15 febbraio 1939. Così si apre, infatti, la valutazione della nuova riforma: “È opportuno rilevare, sin dal principio, che, nella Carta della Scuola, alla famiglia è riconosciuta importanza primaria (benché non esplicitamente tutto il primato che le compete) rispetto alla scuola […].
“Queste parole valgano ad interpretare meglio la settima dichiarazione, nel retto senso: quanto a responsabilità educativa, morale e religiosa, non i parenti dalla scuola, ma la scuola dai parenti deve prendere norma”. L’analisi del documento, giudicato alla luce del diritto naturale, prosegue con altri due ampi studi, nei quali segnala i punti condivisibili, interpreta quelli ambigui, denuncia le parti che non possono essere condivise.
Durante la seconda guerra mondiale, quasi presagendo la caduta del fascismo e la difficile “ricostruzione” post-bellica, padre Barbera riprende la trattazione dei princìpi fondamentali della libertà di educazione in alcuni articoli dal titolo eloquente: nel 1944 scrive I principii educativi e la retta formazione sociale e A chi spetta il diritto educativo, nel 1945 Rinnovamento della scuola nella libertà e Liberalismo illiberale e democrazia non democratica.
5. Il secondo dopoguerra
Dopo l’insediamento dell’Assemblea Costituente, avvenuto il 25 giugno 1946, padre Barbera interviene ripetutamente nella discussione sulla libertà scolastica e sulla scuola cattolica, confutando la tesi di laicisti e di marxisti secondo cui l’insegnamento religioso non rispetterebbe la libertà di coscienza del fanciullo. Allo scopo ricorda che, prescindendo “[…] dal principio universale del diritto educativo naturale e inalienabile dei genitori […] e dal diritto di chi possiede la verità di comunicarla a chi non la possiede”, “se fosse valevole questo principio astratto, nella pratica sarebbe impossibile qualsiasi insegnamento”. Quindi ricorda pure che “[…] ben altro di più vogliono effettivamente le famiglie italiane: una scuola interamente cattolica, non solo nell’istruzione religiosa, ma nello spirito di tutto l’ordinamento scolastico, com’è loro diritto, poichè tutte contribuiscono, con il pagamento delle comuni tasse, alle scuole dello Stato”. Infine denuncia la politica delle forze laiciste, che intendono “[…] continuare l’asservimento delle nostre scuole alle più minute, quanto pedantesche prescrizioni, ed ai pesi fiscali impostici durante il regime passato. Noi riconosciamo bensì un equo e moderato controllo dello Stato quanto al riconoscimento legale o parificazione, ma non possiamo né dobbiamo tollerare il soffocamento della legittima libertà pedagogica e didattica. Non tolleriamo poi assolutamente che la scuola dello Stato, come la scuola di tutti, la scuola alla quale contribuiamo con le tasse comuni, sia infeudata ad uso e consumo esclusivo di un’infima e trascurabilissima minoranza, pur sufficientemente garantita nella sua “libertà di coscienza” … laicista”.
La battaglia sarà purtroppo perduta, soprattutto per il tradimento dei rappresentanti della Democrazia Cristiana, come anche padre Barbera — impegnato nella costituzione della FIDAE, la Federazione Istituti Dipendenti dall’Autorità Ecclesiastica — avrà modo di constatare in occasione di una fredda risposta dell’on. Alcide De Gasperi (1881-1954), presidente del Consiglio, a un suo realistico suggerimento per aggirare l’ostacolo dei dibattiti all’Assemblea Costituente.
L’ultimo articolo del padre gesuita è sulla prima Conferenza generale dell’UNESCO, l’United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization, che si tiene a Parigi il 4 novembre 1946. Intuendo di trovarsi di fronte alla “[…] più vasta e comprensiva opera internazionale del mondo laico”, il religioso rileva anzitutto che “[…] nella Conferenza si sono fatti sentire influssi marxisti, massonici e scientisti”, ma che, “[…]non ostante le diverse influenze, non si può dire che l’Unesco sia anticristiano: vi manca però qualche cosa di più positivo, che possa contribuire ad un risorgimento dell’idea di cristianità, che affratelli i popoli”. E, comunque, conclude: “Il nostro timore è di vedere che un organismo come l’Unesco voglia imporre, forse senza darsene conto, sotto il generoso pretesto di estirpare dal cuore e dalla mente dei popoli “la ignoranza e il pregiudizio”, delle forme standardizzate di cultura al genere umano”.
Per approfondire: del padre gesuita vedi Libertà d’insegnamento. Principî e proposte, La Civiltà Cattolica, Roma 1919; Il buono e il cattivo della Riforma Gentile, F.I.U.C., Roma 1925; e Educazione e salvezza sociale, La Civiltà Cattolica, Roma 1945; su di lui, vedi padre Domenico Mondrone S.J. (1897-1985), Il Padre Mario Barbera D.C.D.G., in La Civiltà Cattolica, anno 98, n. 2338, 15-11-1947, pp. 343-349.