di Paolo Mazzeranghi
1. Le origini
Il termine “partito” mutua dal latino pars e partire il significato di separazione rispetto al tutto e ad altre realtà analoghe. Se certamente vi sono sempre stati raggruppamenti umani, operanti in senso lato politicamente, distinti da altri per la difesa d’interessi di varia natura, oppure per la fedeltà a una persona o a una famiglia eminenti, è fuor di dubbio che il moderno partito politico trova la sua collocazione in un contesto di democrazia parlamentare, anche se il termine non viene meno nel caso di un depotenziamento del sistema parlamento o addirittura di monopartitismo. Mentre in Gran Bretagna i moderni partiti affondano le loro radici nell’intreccio fra appartenenza religiosa, gerarchia sociale e interessi economici che fa da sfondo all’evoluzione del primo parlamento moderno, nell’Europa continentale essi hanno origine con la Rivoluzione francese, che ne fissa i termini concettuali e il campo d’azione. Seguendo l’avversione di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) nei confronti delle società parziali, cioè delle associazioni di individui sulla base di fedeltà personali e sociali, o d’interessi professionali o economici, che alimentano quell’egoismo che rende impossibile l’espressione della volonté générale, Emmanuel-Joseph Sieyès (1748-1836), uno dei protagonisti delle fasi iniziali della Rivoluzione francese, nel suo celebre libello Qu’est ce que le Tiers État, del 1788, scrive: “Sappiamo qual è il vero oggetto di una Assemblea nazionale: non è fatta per occuparsi degli affari privati dei cittadini, ma li considera in massa e dal punto di vista dell’interesse comune. Ne traiamo la conseguenza naturale, che il diritto di farsi rappresentare appartiene ai cittadini soltanto in virtù delle qualità che sono loro comuni, e non di quelle che li dividono”. Solo qualche mese prima che la Rivoluzione porti fattualmente a compimento il processo di annientamento dei corpi sociali intermedi intrapreso dall’assolutismo, se ne contesta il diritto alla rappresentanza, inaugurando anche sul continente la stagione dell’individualismo politico e dell’astrazione che meglio lo esprime, il cittadino elettore. Quanto poi alle modalità della rappresentanza, il 7 settembre 1789 Sieyès afferma all’Assemblea Nazionale: “È dunque incontestabile che i deputati si trovano nell’Assemblea nazionale non per enunciarvi i desideri già formulati dei loro diretti committenti, bensì per deliberare secondo la loro opinione attuale, illuminata da tutti i lumi che l’assemblea può fornire a ciascuno”, e che “[…] ciascun deputato è rappresentante dell’intera nazione”. I rappresentanti dunque non sono più legati ai rappresentati da un mandato ristretto e imperativo, dovendo rendere conto del proprio operato e rischiando la revoca del mandato per infedeltà o per inettitudine, bensì da un mandato ampio e non imperativo, che, a elezione avvenuta, li lascia liberi nell’esercizio del mandato stesso. Nella stessa occasione Sieyès afferma pure: “Il popolo può parlare, può agire solo attraverso i suoi rappresentanti”. La Rivoluzione veglia gelosamente a che i corpi elettivi rivoluzionari mantengano la loro indipendenza rispetto al paese reale, mentre li lascia in preda all’azione dei club rivoluzionari, che agitano la piazza e animano le assemblee, antesignani dei partiti ideologici di mobilitazione delle masse. Nonostante la conclamata volontà di evitare le società parziali è infatti necessario guidare con la propaganda o con l’intimidazione il consenso di un popolo atomizzato, e fornirgli rappresentanti visibili non più sulla base di fedeltà e di interessi sociali, bensì sulla base di generiche preferenze ideologiche. Il Regno del Terrore (1792-1794) può essere visto come il tentativo giacobino di organizzare la Francia in un unico gigantesco meccanismo di partito. La Restaurazione non porta al ripristino delle forme di rappresentanza pre-rivoluzionarie, ma al progressivo affermarsi di parlamenti elettivi di stampo liberale, formati da notabili, membri delle vecchie oligarchie professionali e dei nuovi ceti abbienti e istruiti, a cui la Rivoluzione ha aperto la strada. In condizioni di suffragio censitario ristretto, i notabili traggono supporto da un corpo elettorale dello stesso ceto e che li riconosce come “suoi”. Per concertare l’azione dei deputati con rapporti di affinità – prima territoriale o professionale, successivamente ideologica – nascono i gruppi parlamentari; a mano a mano che si estende il suffragio elettorale nascono i comitati elettorali, per l’inquadramento di elettori non più legati da rapporti di conoscenza e di contiguità sociale con i notabili, onde evitare che i voti convergano sulle vecchie élite sociali, che il popolo già conosce e stima, come accade per esempio in Francia nel 1871 con la cosiddetta Repubblica dei Duchi. Il moderno partito politico può essere definito strutturalmente come un rapporto regolare e permanente fra un gruppo parlamentare e un comitato elettorale. Ai partiti di origine interna ai parlamenti, nati come organizzazioni per l’elezione dei notabili, presto si affiancano i partiti di origine esterna, i cui comitati elettorali sono emanazione di associazioni preesistenti, come società di pensiero – si pensi al ruolo svolto dalla massoneria nei confronti di partiti radicali e liberali, o a quello della Fabian Society nei confronti del Labour Party britannico – oppure Chiese, sette religiose, sindacati, associazioni professionali o di categoria, associazioni combattentistiche, poteri economico-finanziari.
2. Il partito di massa
Nei secoli XIX e XX, con lo sviluppo delle grandi ideologie figlie della Rivoluzione francese e con l’ulteriore estensione del suffragio, hanno origine i partiti organizzativi di massa, di cui sono esempio tipico i partiti socialisti, il più delle volte sorti da organizzazioni inizialmente estranee o avverse alla logica parlamentare, ma che – a un certo punto – intravvedono sia la possibilità di inseminare germi di socialismo per via legislativa, che, soprattutto, le potenzialità di azione sulla “coscienza politica” delle masse fornite dal loro inquadramento elettorale. Sono anche detti partiti di apparato, perché per educare le masse e attivarle politicamente occorre una struttura permanente e non limitata alla contingenza elettorale, con un personale a tempo pieno, qualificato e retribuito. Anche la struttura interna, rudimentale nel caso dei partiti di notabili, si fa complessa. I partiti socialisti sono organizzati localmente in sezioni, a loro volta coordinate a livello territoriale più ampio in federazioni, con al vertice una direzione centrale elettiva. I partiti comunisti hanno invece la tipica organizzazione bolscevica in cellule, aziendali o locali, adatte all’azione clandestina, che ne testimonia l’origine insurrezionale. I partiti non socialisti si strutturano invece in partiti elettorali di massa, che non perseguono la mobilitazione degli iscritti mediante un’educazione politica permanente, ma solo la conquista di suffragi elettorali: non si rivolgono perciò a classi particolari, ma all’intera popolazione, spesso con programmi vasti e flessibili, elaborati sulla base delle istanze alle quali di volta in volta si attribuisce il maggior richiamo propagandistico – “partiti pigliatutto” -, salvo poi spendere il consenso elettorale ricevuto in strategie politiche inconfessate in campagna elettorale. Sull’esempio dei partiti organizzativi di massa, sono dotati di sezioni, di federazioni, di una direzione centrale e di un personale politico a tempo pieno. Se alcuni di essi – partiti di patronato – hanno il preciso scopo di insediare il proprio capo al governo, perché questi poi distribuisca le cariche statali al suo seguito, l’imposizione del proprio personale politico non elettivo nelle amministrazioni centrali e periferiche diviene una prassi diffusa per tutti i partiti di massa.
Con il partito di massa, intermediario fra il popolo e il corpo legislativo, si realizza una cerniera così costruita: l’eletto dal popolo nelle liste del partito, mentre mantiene la sua indipendenza nei riguardi dell’elettorato, a cui lo lega un mandato sempre più ampio e sempre meno imperativo, è legato da un mandato sempre più ristretto e imperativo nei confronti del partito, la cui segreteria diventa il luogo di sintesi della presunta volontà generale, mentre il parlamento rimane solo il luogo in cui tale elaborazione prende veste pubblica. Le elezioni perdono ogni residuo carattere di scelta dei rappresentanti, legittimando un personale politico mandatario non del paese ma dei partiti, e divengono atti di tipo plebiscitario nei confronti di programmi politici globali. Né i partiti trovano limitazioni al loro operato in una società che la democrazia rivoluzionaria ha progressivamente destrutturato, e le cui residue realtà associate non hanno in ogni caso alcuna possibilità di essere rappresentate come tali, se non attraverso ambigui rapporti clientelari o di fiancheggiamento. La sfera della politica è monopolizzata dai partiti, ognuno dei quali rivendica il possesso della volontà generale, in un clima come di guerra civile: maggiore è infatti la componente ideologica di un partito, più esso vede nei partiti rivali non puri competitori, ma avversari del proprio programma di rigenerazione sociale, quindi nemici totali. Non deve perciò stupire che uno dei possibili esiti del sistema dei partiti di massa sia l’affermazione del partito unico, che rivendica la rappresentanza di quella che, per essere la volontà generale, deve essere di necessità logica unica. Ma anche in assenza di tale esito il partito, in grado di esigere l’ubbidienza dei rappresentanti eletti, viene a costituire il punto di saldatura del potere esecutivo, del potere legislativo e – in un quadro di positivismo giuridico qual è quello moderno – del potere giudiziario, rendendo illusoria quella divisione dei poteri correntemente considerata come la principale garanzia della libertà politica. Quando un singolo partito, o il regime dei partiti, ha anche il pratico monopolio della formazione dell’opinione pubblica, si assiste a una deriva totalitaria della democrazia.
3. Il futuro
Con la cosiddetta “morte delle ideologie” e con l’attenuazione della conflittualità in una società priva di significativa stratificazione sociale, è certamente scontato ipotizzare la scomparsa del partito ideologico di mobilitazione a favore del partito di rappresentanza, di cui però si tratta di precisare la natura, per poter, se non eliminare, almeno limitare gli elementi negativi che al partito derivano dalla sua stessa genesi. La morte delle grandi ideologie, cioè di “visioni del mondo” semplificate atte a orientare l’azione delle masse e a giustificare l’adesione ai partiti come a “chiese”, presso cui trovare la soluzione a ogni esigenza esistenziale, non significa, per i singoli, la scomparsa delle idee, che, approfondite e articolate, possono acquisire rilevanza sociologica con la rinascita di movimenti di idee, che costituiscono corpi intermedi volontari a fianco di quanto resta dei corpi intermedi naturali. Lo stesso discorso vale per i gruppi d’interesse in senso lato – civici, professionali ed economici – sia durevoli che contingenti, che, svincolati dall’appartenenza di classe e dalla contiguità con i partiti ideologici, possono autolegittimarsi come necessarie articolazioni del corpo sociale. Il nuovo partito – realtà organizzata e non solo comitato elettorale, ma non affetta dall’elefantiasi dei partiti di apparato -, pur senza rinunciare a una propria cultura politica, dovrebbe incaricarsi di difendere e di promuovere l’autostrutturazione della società, garantendo spazi di libertà e rappresentando politicamente i soggetti portatori di una cultura compatibile con la propria nonché gli spontanei gruppi d’interesse non confliggenti con il bene comune, senza pretendere di “crearli”, rinunciando a occupare totalisticamente la società com’era intrinseca tendenza dei vecchi partiti politici. La riorganizzazione e il rafforzamento della società vera, attualmente agonizzante, consentirebbero una fisiologica limitazione di quei “poteri forti”, che vengono falsamente rappresentati come la rivincita della società su un mondo della politica opportunamente demonizzato, scongiurando il pericolo che la democrazia di massa possa essere sostituita da una tecnocrazia di uguali – se non maggiori – potenzialità totalitarie.
Per approfondire: vedi un primo esame delle unità del moderno sistema politico, in Domenico Fisichella, Lineamenti di scienza politica, NIS, Roma 1988; molto utile dal punto di vista storico Paolo Pombeni, Introduzione alla storia dei partiti politici, il Mulino, Bologna 1985; fondamentale, per quanto riguarda la struttura dei partiti e i sistemi di partito, Maurice Duverger, I partiti politici, trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1980; vedi pure, sinteticamente, Giovanni Cantoni, Riflessioni in tema di partito dopo il “crollo delle ideologie”. Verso una politica limitata e forte, in Cristianità, anno XXIV, n. 258, ottobre 1996, pp. 3-6.