di Mario Ghiozzi
La psichiatria
La psichiatria — dalle parole greche psyché, “anima”, e iatrós, “medico” — è la specializzazione della medicina che studia e cura i disturbi mentali. Essa ha raggiunto una certa autonomia all’interno delle scienze mediche solamente nell’ultimo secolo e, forse più di ogni altra disciplina medica, non è sfuggita e non sfugge ai cambiamenti legati alle mutevoli situazioni storiche dell’umanità e risente via via, nel tempo e nei luoghi, di diversi influssi sociali, filosofici e religiosi, rispecchiando così molteplici aspetti della cultura dell’epoca. Perché s’intendano meglio le problematiche attuali di questa disciplina, peraltro senza la pretesa di ricostruire la storia della neuropsichiatria prima e della psichiatria dopo, conviene presentare, in rapida successione cronologica, i principali indirizzi psichiatrici.
1. La neuropsichiatria e le basi biologiche della malattia mentale
Le basi dello studio biologico — organico — del malato neuropsichiatrico vengono gettate nell’Ottocento dagli studiosi di anatomia e di fisiologia.
Il medico toscano Vincenzo Chiarugi (1759-1820) — autore di un Trattato medico-analitico sulla pazzia, edito a Firenze nel 1793-1794 — viene incaricato di dirigere, nel Granducato di Toscana, un ospedale psichiatrico dove, nel 1788, introduce parametri clinici nell’assistenza ai malati cinque anni prima di quanto farà nel 1793, a Parigi, il medico francese Philippe Pinel (1745-1826) all’ospedale di Bicêtre.
In Germania, nel 1845 lo psichiatra Wilhelm Griesinger (1817-1868) pubblica a Stoccarda l’autorevole testo psichiatrico Pathologie und Therapie der psychischen Krankheiten, “Patologia e terapia delle malattie mentali”; intorno al 1850 il nosologo Karl Ludwig Kahlbaum (1828-1899) tenta un primo inquadramento clinico delle psicosi; lo psichiatra Emil Kraepelin (1856-1926) distingue il gruppo delle psicosi endogene da quello delle psicosi esogene. In conformità con il pensiero positivistico occidentale, la malattia mentale viene inquadrata presupponendo sempre e comunque l’esistenza di una eziologia e di una patogenesi, spesso ignote, poggianti su un substrato organico alterato dell’encefalo.
2. Dalla malattia mentale all’antipsichiatria
All’inizio del secolo XX, dopo la fase dell’inquadramento organico, si assiste alla valorizzazione del concetto per cui la “malattia mentale” viene considerata — per esempio dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler (1857-1939) — come una sindrome, con sue caratteristiche evolutive, alle quali risulta difficile attribuire una specificità assoluta. Si viene così ad allentare il rapporto molto intimo avuto dalla psichiatria con la neurologia — neuropsichiatria — nella seconda metà del secolo XIX.
Il progressivo diffondersi poi delle teorie del medico austriaco Sigmund Freud (1856-1939) promuove ulteriormente il parziale affrancamento della disciplina psichiatrica dall’ambito prettamente organicista. Tendono a definirsi veri e propri indirizzi: accanto al pensiero psicoanalitico, il filosofo tedesco Karl Jaspers (1883-1969) con la psicopatologia generale, fenomenologica, cerca di spiegare i sintomi psicopatologici come li vive il malato sforzandosi di prescindere da teorie e da schemi preesistenti. Si arriva quindi alla psichiatria interpersonale e a quella sociale, nelle quali si valorizzano e si intendono obbiettivare il rapporto relazionale e sociale e il loro peso nello sviluppo della vita psichica individuale.
Erich Fromm (1900-1980), pure tedesco, psicoanalista neofreudiano con tendenze umanistiche, influenzato dal pensiero marxista, si pone il problema della relazione fra l’uomo e la società; Harry Starck Sullivan (1892-1949), prima ufficiale dell’esercito americano, quindi docente di psichiatria a Washington durante la seconda guerra mondiale, focalizza il concetto di malattia mentale sulle relazioni interpersonali fra individui; gli psichiatri britannici Ronald D. Laing (1927-1989) e David Cooper enunciano teorie sul concetto di violenza, che talora l’individuo è costretto a vivere nel contesto socio-culturale, non ultima quella che gli verrebbe imposta con la terapia psicofarmacologica, gettando così le basi dell’antipsichiatria.
3. L’antipsichiatria in Italia
Mentre nell’America Settentrionale e in Israele l’antipsichiatria, sostenuta soprattutto da studiosi delle scienze sociali, cerca di realizzare più pragmaticamente con il trattamento farmacologico un’azione di ricupero e cioè di reintegrazione dell’individuo in seno alla società, in Italia, durante gli anni 1970, si propone un vero e proprio processo alla società “borghese”, ritenuta alienante e patogena, con inevitabile trasferimento del problema psichiatrico sul terreno politico, mediante un appello alla partecipazione e alla responsabilizzazione di tutti i cittadini e, in alcuni proclami antipsichiatrici, alla contestazione aperta e talora violenta del cosiddetto “sistema”. Si assiste così a un “forte dibattito” fra i diversi orientamenti, talvolta vicini talaltra distanti e contraddittori dell’antipsichiatria, di cui è testimonianza esemplare il tentativo di linciare l’esponente di spicco dell’antipsichiatria italiana Franco Basaglia (1924-1980), verificatosi a Trieste, nel settembre del 1977, da parte degli autonomi di un gruppo che si denomina Marge — “margine” in francese —, i cui componenti si definiscono “ex delinquenti, emarginati, folli, prostitute” e vogliono fare della marginalità una “coscienza nuova”.
4. La difesa della psichiatria accademica italiana
Parallelamente, difendendosi dalle diverse strategie antipsichiatriche, la psichiatria accademica italiana continua a praticare l’assistenza, la didattica e la ricerca mantenendo ferma l’impostazione medica nell’approccio al malato psichiatrico.
Già dai primi anni 1950 — la notazione è del professor Pietro Sarteschi, direttore della Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa dagli anni 1960 — sono introdotti nella terapia psichiatrica, sotto controllo clinico attento, tranquillanti e nooanalettici o neurostimolanti; i successivi rapidi sviluppi della psicofarmacologia consentono a molti malati mentali di comportarsi in maniera più adeguata e accettabile in situazioni istituzionalizzate e molti di essi possono evitare il ricovero; per altri è possibile una loro dimissione con il ritorno in famiglia e in società. Al tempo stesso nelle università italiane i vari orientamenti — fenomenologico, interpersonale, esistenziale, sociale e così via —, talora in aperta opposizione dialettica con la “tradizionale” impostazione somatogena, portano al progressivo definirsi della psichiatria clinica come disciplina multidimensionale nella quale far convergere e far coesistere, con peso diverso, mediato dalla cultura del medico psichiatra, nell’interesse della cura dei diversi pazienti con le loro varie patologie, approcci culturali diversi, espressioni del caleidoscopico mondo che circonda l’uomo. Nella Repubblica Italiana, sul finire degli anni 1970, l’ala più ortodossa dell’antipsichiatria, godendo di notevoli appoggi parlamentari, nel clima politico del cosiddetto “compromesso storico” — la strategia della collaborazione fra comunisti, democristiani e socialisti —, in contrasto con gran parte del mondo accademico, vede riconosciuta la propria prospettiva nella legge n. 180, del 13 maggio 1978, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, più nota come “legge Basaglia”, che prevede — fra l’altro — la demanicomializzazione, cioè in prospettiva l’abolizione degli ospedali psichiatrici; un provvedimento ripreso nello spirito e nella lettera dalla legge n. 833, del 23 dicembre dello stesso anno, relativa all’Istituzione del servizio sanitario nazionale.
Con il passare del tempo, e con tale copertura legislativa, mentre gli antipsichiatri italiani riescono a occupare numerosi posti chiave nella rete assistenziale ospedaliera nazionale, l’atteggiamento ostile di molti accademici nei loro confronti si stempera, come provano, nel 1993, passi significativi del trattato di Psichiatria di Carlo Lorenzo Cazzullo, professore emerito di Psichiatria, già direttore dell’Istituto di Clinica Psichiatrica dell’Università di Milano.
Permangono peraltro posizioni cliniche — ben rappresentate, per esempio, dal professor Giovanni Battista Cassano, docente di Clinica Psichiatrica nell’Università di Pisa — tese a valorizzare i progressi nel campo della biologia molecolare, la fioritura di studi clinico-descrittivi e, infine, la vertiginosa rapidità con cui nuove molecole chimiche di grande interesse terapeutico vengono introdotte nella pratica clinica, producendo mutamenti sostanziali nella terapia e nella prognosi di molti quadri morbosi; come pure non vanno dimenticate produzioni letterarie del medico psichiatra toscano Mario Tobino, che nel 1982 denuncia l’alto costo in vite umane della deistituzionalizzazione manicomiale forzata voluta dai “novatori”, la quale conosce ancora sopravviventi sacche di istituzionalizzazione, là dove non si è voluta applicare in modo cinico.
5. Oltre le tendenze, il malato, unico momento unitario
L’aspetto composito e per certi aspetti caotico presentato dalla psichiatria contemporanea è espressione inevitabile della complessità del suo compito vocazionale: la cura della sofferenza psicopatologica dell’uomo, della mente umana, della persona, fatta a immagine di Dio.
Pertanto non esiste un unico sistema teorico all’interno del quale sia possibile elaborare un solo modello interpretativo del disturbo psichico, che colpisce i diversi individui; si danno invece numerosi indirizzi e prospettive, talora difficilmente conciliabili fra loro, atti, per le loro peculiarità metodologiche, a esplorare o a spiegare aspetti del comportamento umano, che peraltro spesso tende a riprodursi nella patologia mentale con sorprendente somiglianza e che, nelle singole patologie, mostra spesso decorsi sovrapponibili in individui anche fortemente diversi fra loro.
Quindi, ognuno di questi approcci ha limiti definiti, ma anche una certa validità, se non altro come contributo culturale alla comprensione di taluni pazienti, necessaria decodifica razionale del linguaggio, non solo verbale, e del vissuto psicopatologico del malato.
Quando in medicina si smarrisce la consapevolezza dei limiti di ogni teoria conoscitiva e, abbandonando la realtà psicosomatica, si persegue, in omaggio a un’assolutizzazione ideologica, la pretesa di ricondurre, in modo riduttivo, la malattia mentale a uno solo di questi approcci, si determinano totalitarismi terapeutici, terrificanti distorsioni di quadri psicopatologici, semplificazioni erronee di sentimenti umani e affermazioni infondate, poi ridicolizzate dalla realtà storica. Se di visione unitaria si vuol parlare in psichiatria, come in generale in medicina, si può far riferimento a parole di Papa Giovanni Paolo II che — nell’ottobre del 1980 — esclamava: “Quale stimolo all’auspicata “personalizzazione” della medicina può venire dalla carità cristiana, che fa scoprire nei lineamenti di ogni infermo il volto adorabile del grande, misterioso Paziente, che continua a soffrire in coloro sui quali si curva, sapiente e provvida, la vostra professione!”.
Mario Chiozzi
Per approfondire: vedi elementi storici e contenutistici in Pietro Sarteschi e Carlo Maggini, Psichiatria, Goliardica, Parma 1982; Alfred M. Freedman, Harold I. Kaplan e Benjamin J. Sadock, Trattato di Psichiatria, trad. it., Piccin, Padova 1984; Giovanni B. Cassano, Psichiatria Medica, UTET, Torino 1990; Carlo Lorenzo Cazzullo, Psichiatria, Micarelli, Roma 1993; vedi pure un’efficace descrizione degli effetti prodotti dalla chiusura dei manicomi in Mario Tobino, Gli ultimi giorni di Magliano, 4aristampa, Mondadori, Milano 1992.
Cfr. L’antipsichiatria.