Secondo la Congregazione per la dottrina e la fede, il cattolico può farsi somministrare vaccini preparati utilizzando materiale proveniente da feti abortiti solo se non sono presenti alternative migliori. Rimangono quindi in vigore le distinzioni codificate, una volta per tutte, da san Tommaso d’Aquino.
di Antonio Casciano
La Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) ha pubblicato, lunedì 21 dicembre, una Nota sulla moralità dell’uso di alcuni vaccini anti-Covid-19. L’esigenza di addivenire ad un tale pronunciamento ufficiale è nato, come espressamente riconosciuto dal medesimo organismo della Curia romana, dalle «diverse richieste di un parere sull’uso di alcuni vaccini contro il virus SARS-CoV-2 che causa il Covid-19, sviluppati facendo ricorso, nel processo di ricerca e produzione, a linee cellulari che provengono da tessuti ottenuti da due aborti avvenuti nel secolo scorso». Peraltro, preso atto del fatto che «sono già a disposizione, per la distribuzione
in diversi Paesi e la relativa somministrazione, i primi vaccini contro il Covid-19» e non volendo, né potendo, entrare nel merito della «sicurezza ed efficacia di questi vaccini, pur eticamente rilevanti e necessarie, la cui valutazione è di competenza dei ricercatori biomedici e delle agenzie per i farmaci», la Congregazione ha ribadito e chiarificato l’orizzonte del suo intervento, limitandolo, appunto, alla riflessione relativa «all’aspetto morale dell’uso di quei vaccini contro il Covid-19 che sono stati sviluppati con linee cellulari provenienti da tessuti ottenuti da due feti abortiti non spontaneamente». Invero, su tale ultima questione, erano apparsi negli anni addietro ulteriori pronunciamenti ufficiali, due da parte della stessa CDF – le istruzioni Donum vitae (1987) Dignitas Personae (2008) – e due da parte della Pontificia Accademia per la Vita (PAV) – una Nota del 2005 dal titolo Riflessioni morali circa i vaccini preparati a partire da cellule prevenienti da feti umani abortiti, una del 2017 sul medesimo tema.
Nel documento qui in esame, invece, accanto alla trattazione della problematica surriferita, l’ex-Santo Uffizio si premura di ampliare l’orizzonte tematico del suo pronunciamento ad altri due importanti questioni, aventi una pari pregnanza di etica generale e rispettivamente afferenti: 1) al dovere di sottoporsi alla vaccinazione, atto la cui moralità verrebbe a dipendere «non soltanto dal dovere di tutela della propria salute, ma anche da quello del perseguimento del bene comune»; 2) alla questione della predisposizione delle misure necessarie a garantire, a livello globale, che siffatti dosi vaccinali risultino effettivamente «accessibili anche ai Paesi più poveri ed in modo non oneroso per loro», così da evitare il rischio di un’inaccettabile asimmetria vaccinale. Ma, nella riflessione che qui si svolge, si assumerà ad oggetto di analisi soltanto la prima delle tre questioni affrontate dal testo del documento, ovvero quella relativa alla “accettabilità morale” di quei vaccini ricavati facendo uso di materiale cellulare proveniente da feti abortiti non spontaneamente, nel tentativo di chiarire tanto le ragioni che fondano il nucleo del pronunciamento medesimo quanto una serie di questioni ulteriori, che la brevità del documento non ha permesso di esplicitare con chiarezza.
La questione in esame riguarda, dicevamo, la liceità̀ morale della produzione, commercializzazione e somministrazione di vaccini messi a punto attraverso l’uso di virus vivi preparati a partire da linee cellulari umane di origine fetale. Con questa metodica, peraltro, sarebbero stati sviluppati, a partire dagli anni Sessanta, i vaccini volti a debellare importanti infezione virali, quali rosolia, morbillo, parotite, epatite A, varicella, poliomielite, rabbia e vaiolo. L’esigenza di articolare una riflessione morale sulla questione qui presa ad esame nasce proprio dal nesso esistente tra la preparazione dei vaccini summenzionati e gli aborti procurati dai quali sono stati ottenuti i materiali biologici necessari per tale preparazione. Ebbene, le categorie di soggetti morali il cui ruolo assumerebbe un qualche rilievo nel processo di sviluppo e diffusione dei vaccini messi a punto con la metodica oggetto della nostra disamina sarebbero essenzialmente tre: a) l’industria farmaceutica responsabile della sperimentazione e preparazione dei vaccini attraverso l’uso di cellule umane provenienti di aborti volontari; b) la catena di soggetti coinvolti nella macchina della commercializzazione degli stessi; c) gli utilizzatori finali. A fronte di tali categorie di soggetti morali coinvolti, quali sono, brevemente, i principali assunti dalla dottrina della morale naturale circa la possibile cooperazione al male da parte di ciascuno di essi?
In linea generale può dirsi che il processo, unitariamente inteso, di preparazione, commercializzazione e somministrazione di vaccini realizzati grazie a l’impiego di materiale biologico proveniente da feti volontariamente abortiti può considerarsi moralmente illecito – fermo l’obbligo di differenziazione del grado di responsabilità dei diversi soggetti coinvolti – se non altro perché, implicando appunto la disponibilità di feti abortiti, potrebbe incentivare il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza, considerato dalla morale classica come un intrinsece malum in ragione della sua essenziale finalità occisiva. L’aspetto che in particolare la Congregazione ha preso ad esame concerne la possibile configurazione, a carico dei fruitori finali dei vaccini che vi ricorrano per motivi di salute, di un’indebita cooperazione materiale (non implicante, cioè, il coinvolgimento intenzionale del cooperatore), mediata (ovvero, indiretta) e passiva (sostanzi antesi, cioè, in un’omissione) all’atto abortivo. All’uopo, va precisato che generalmente medici o fruitori finali, che ricorrano «all’uso di tali vaccini, pur conoscendone l’origine (l’aborto volontario), realizzano una forma di cooperazione materiale mediata molto remota, e quindi molto debole, rispetto alla produzione dell’aborto, e una cooperazione materiale mediata, rispetto alla commercializzazione di cellule procedenti da aborti, e immediata, rispetto alla commercializzazione dei vaccini prodotti con tali cellule» (PAV, Riflessioni morali circa i vaccini preparati a partire da cellule prevenienti da feti umani abortiti, 2005). Invero, nel documento in esame, oltre al dato della lontananza di una siffatta cooperazione, diviene centrale un ulteriore aspetto, relativo alla non vincolatività morale del divieto di cooperazione laddove sussista «un grave pericolo, come la diffusione, altrimenti incontenibile, di un agente patogeno grave: in questo caso, la diffusione pandemica del virus SARS-CoV-2 che causa il Covid-19. È perciò da ritenere che in tale caso si possano usare tutte le vaccinazioni riconosciute come clinicamente sicure ed efficaci con coscienza certa che il ricorso a tali vaccini non significhi una cooperazione formale all’aborto dal quale derivano le cellule con cui i vaccini sono stati prodotti» (CDF, Nota sulla moralità dell’uso di alcuni vaccini anti-Covid-19, 2020).
Dunque, l’uso di vaccini la cui produzione è collegata all’aborto provocato costituisce di regola una forma di cooperazione materiale passiva mediata remota all’atto abortivo, per quanto siffatta cooperazione talvolta può considerarsi scusabile, e il relativo atto moralmente accettabile, in base alle condizioni del cosiddetto principio del “duplice effetto”, quando cioè non vi sarebbe altra maniera di scongiurare rischi per la salute umana individuale e/o – come nel caso che attualmente viviamo a causa della pandemia – generale: «La ragione morale è che il dovere di evitare la cooperazione materiale passiva non obbliga se c’è grave incomodo. In più, ci troviamo, in tale caso, una ragione proporzionata per accettare l’uso di questi vaccini in presenza del pericolo di favorire la diffusione dell’agente patogeno» (PAV, Riflessioni morali circa i vaccini preparati a partire da cellule prevenienti da feti umani abortiti, 2005). Fuori di tale ipotesi, però, conserva intatta la sua validità il principio secondo cui i «feti umani, volontariamente abortiti o non, devono essere rispettati come le spoglie degli altri esseri umani. In particolare non possono essere oggetto di mutilazioni o autopsie se la loro morte non è stata accertata e senza il consenso dei genitori o della madre. Inoltre va sempre fatta salva l’esigenza morale che non vi sia stata complicità alcuna con l’aborto volontario e che sia evitato il pericolo di scandalo». (CDF, Istruzione Donum vitae, 1987, I, 4).
Orbene, al fine di scongiurare uno sdoganamento culturale diffuso dell’uso di vaccini immoralmente sviluppati utilizzando materiale cellulare fetale proveniente da IVG, in particolare quando ciò sia avallato dalle stesse leggi pubbliche dello stato, «occorre prendere le distanze dagli aspetti iniqui di tale sistema, per non dare l’impressione di una certa tolleranza o accettazione tacita di azioni gravemente ingiuste. Ciò infatti contribuirebbe a aumentare l’indifferenza, se non il favore con cui queste azioni sono viste in alcuni ambienti medici e politici» (CDF, Istruzione Dignitas Personae, 2008, n. 35). Esiste dunque un preciso e diffuso obbligo morale per ogni credente e uomo di buona volontà di esercitare ogni possibile «pressione sulle autorità̀ politiche e sui sistemi sanitari affinché́ altri vaccini senza problemi morali siano disponibili. Essi dovrebbero invocare, se necessario, l’obiezione di coscienza rispetto all’uso di vaccini prodotti mediante ceppi cellulari di origine fetale umana abortiva. Ugualmente dovrebbero opporsi con ogni mezzo (per iscritto, attraverso le diverse associazioni, i mass media, ecc.) ai vaccini che non hanno ancora alternative senza problemi morali, facendo pressione affinché́ vengano preparati vaccini alternativi non collegati a un aborto di feto umano» (PAV, Riflessioni morali circa i vaccini preparati a partire da cellule prevenienti da feti umani abortiti, 2005).
La moralità di un atto, infatti, non domanda mai soltanto la legittimità morale del fine che nell’intenzione ci si prefigge di raggiungere e realizzare, ma anche quella dei mezzi per mezzo dei quali tale fine è di fatto conseguito, valore quest’ultimo il cui rispetto è assicurato dalla virtù della prudenza, «la quale, consiglia, giudica e comanda le cose che sono per il fine» (san Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, PS 651). Se, infatti, si tiene presente che «gli oggetti degli atti umani sono i loro fini» (Ivi,PS 733) e che «le cose esteriori sono ordinate all’uomo» come mezzi per conseguire dei fini, «mentre l’uomo è, a sua volta, ordinato a Dio come a fine» (ib.), è evidente che la moralità di ogni azione domanda di non sconvolgere «l’ordine della ragione o della legge divina o la carità di Dio» (PS 781), sconvolgimento che invece si produce ogni qualvolta uno «ama di più un bene temporale, per es. le ricchezze o il piacere» (ib.) o la stessa salute, preferendo uno di tali beni temporali, mutevoli e incerti ad un bene più grande qual potrebbe essere, appunto, quello della vita umana, bene quest’ultimo che, collocandosi nella legge di natura al di sopra di ogni altro, appare come non sacrificabile, né utilizzabile come mezzo/fine se non nei casi specifici sopra elencati e, comunque, per un tempo determinato, fino alla messa a punto, cioè, di valide soluzioni – vaccinali nel nostro caso – alternative.
Mercoledì, 23 dicembre 2020