Giovanni Cantoni, Cristianità n. 340 (2007)
1. Con crescente frequenza, in occasione di passaggi significativi della vita parlamentare della Repubblica Italiana, si proclama seriamente la graziosa concessione della “libertà di coscienza” da parte della dirigenza di un partito politico ai suoi rappresentanti. Ma un partito politico è un’associazione volontaria di cittadini di uno Stato, un’associazione che si propone quale gestore delle strutture di potere dello Stato stesso, cioè si offre di gestire tali strutture nei loro momenti anzitutto legislativo quindi esecutivo.
2. Trascuro il momento giudiziario, anche se non mi astengo dal riportare, a suo proposito, un’osservazione di un uomo politico, filosofo, scrittore e pubblicista francese, il visconte Louis-Gabriel de Bonald (1754-1840): “L’indipendenza del potere giudiziario è espressione senza senso ovunque i giudici sono pagati dal governo, e dispongono, nella maggior parte dei casi, soltanto degli onorari del loro incarico. Indipendente e salariato sono contraddittori. I giurati presi dal popolo al momento del giudizio per rientrare in esso appena dopo, confusi con quanti sono giudicabili, quindi esposti a tutte le preoccupazioni e a tutti i risentimenti, non sono più indipendenti; voglio dire che sono tutti, giudici e giurati, dipendenti per situazione; anche quando siano indipendenti per carattere, la loro indipendenza personale può essere presunta, ma la loro dipendenza pubblica è provata” (1).
3. Torno allo spazio programmatico di un partito politico, che copre, deve quindi coprire lo spazio legislativo occupato dallo Stato in un determinato tempo e in determinato luogo o territorio — a prescindere dalla liceità sostanziale di questo legiferare, che esula da queste riflessioni —, pena l’offrire un servizio inadeguato, dimidiato. Quindi, pena il rivelarsi l’equivalente di una ditta che concorresse alla gara per la realizzazione di un’opera pubblica — ma anche privata — pur non essendo in grado di realizzarla, per carenze di strutture sia di progettazione sia di esecuzione, così configurando un falso in atto pubblico, perciò tale — una volta che sia stato rilevato e/o rivelato — da escluderla dall’appalto.
4. Quindi la cosiddetta “concessione della libertà di coscienza” da parte della dirigenza di un partito politico ai rappresentanti del corpo elettorale che a tale partito fanno riferimento, rappresentanti che ha raccolto grazie al suffragio di una parte del corpo elettorale stesso, equivale all’auto “scioglimento” almeno virtuale, temporaneo e/o congiunturale, come forza operativa. Né si tratta solo del sottrarsi, da parte del partito politico, allo svolgimento di un compito per cui viene ritenuto dalla pubblica opinione esplicitamente o implicitamente atto, ma del favorire la nascita surrettizia, temporanea e/o congiunturale, di una nuova forza politica per la quale nessuno ha votato, quindi non rappresentativa né direttamente del corpo elettorale, né indirettamente del corpo sociale. Questa nuova forza politica è, dunque, una realtà effimera, fatua, non certificata dal suffragio elettorale: si tratta semplicemente di un “piccolo popolo” costituito da un gruppo di eletti, a questo punto non più qualificati — insisto — dal suffragio, ma equivalenti al “campione” casuale di un sondaggio d’opinione, e come tale di scarsa scientificità in quanto non scelto sulla base di criteri atti a certificare il sondaggio. Inoltre questo “piccolo popolo”, grazie alla legge elettorale in vigore, è stato scelto “a scatola chiusa”, cioè senza che il corpo elettorale potesse esercitare neppure l’esigua cernita concessa dalle preferenze. Quindi non è più soggetto alla pressione lecita — non importa se imperativa oppure orientativa, rappresentativa — del proprio elettorato, ma si limita a fluttuare nello spazio vuoto della irresponsabilità politica, nel quale è stato gettato e abbandonato dal partito che lo ha scelto e delegato alla propria rappresentanza parlamentare, e alla pressione massmediatica e/o, comunque, di ogni genere di lobbing.
5. Perciò, poiché lo Stato può legiferare e per quanto può legiferare, s’impone da parte di ogni partito politico, pena la verifica della sua proditorietà o della sua irrilevanza, l’accettazione di una delega generica, di una rappresentanza generica, se non specifica, corrispondente al ventaglio delle materie su cui lo Stato, quindi il partito, può legiferare, in questo modo definendo comportamenti virtuosi o criminosi per rapporto al diritto positivo.
6. Né questo ventaglio definisce un orizzonte ideologico, ma l’attitudine ad affrontare problemi possibili, prevedibili, perciò eventuali. Cioè non si tratta di auspicare la nascita, o la rinascita, di un’ideologia, di una prospettiva che assuma una pars pro toto, una “parte per il tutto”, di operare per l’intronizzazione di un’”idea fissa”, ma di chiedere, di pretendere, l’esistenza di una “visione del mondo”, di una patente che autorizzi alla guida dello Stato. E non si può, quindi non si deve, escludere che questa “visione del mondo” possa nascere o si costruisca a partire da un problema concreto, da una prospettiva concreta — per esempio, il regionalismo o, più latamente, il federalismo —, ma si può, quindi si deve, escludere che possa ridursi a essa, pena la trasformazione di un orizzonte a tutto tondo, qual è quello politico, in un orizzonte amministrativo, settoriale. Ma si può considerare ideologica l’attenzione alla vita, senza la quale non vi sarebbe spazio neppure per la possibilità di un’ideologia? Si può considerare ideologica l’attenzione alla coppia e alla famiglia, senza le quali non vi sarebbe nessuno, perché non concepito oppure abbandonato? Si può considerare ideologica l’attenzione all’educazione, senza la quale non vi sarebbe trasmissione, “tradizione”, quindi progresso, dovendo cominciare tutto e sempre da zero? E non sono forse questi i “valori non negoziabili”, pre-sociali, pre-politici, quindi naturali?
7. Stando così le cose, dov’è, allora, lo spazio della “libertà di coscienza” in senso lato? La “libertà di coscienza” non è forse negata? No, non è assolutamente negata, come vanno talora starnazzando le oche del Campidoglio radicale. Il suo spazio è quello di cui si è servito l’eletto prima di aderire a un determinato partito politico e di candidarsi per esso, e l’elettore prima di votarlo. E tale spazio è stato sacrificato a una scelta, qualificato con una scelta, scambiato con una scelta, colmato con una decisione, libera nella misura in cui non vige un regime a partito unico.
8. Un ulteriore quesito: la “visione del mondo” auspicata, almeno quanto alla sua esistenza, può ridursi anche alla sua inesistenza espressa nelle risposte “senza pregiudizi”, temporanee e congiunturali, suggerite dalle sfide imprevedibili presentate dal corso degli avvenimenti, della “storia”? Ovvero: ha senso l’affermazione “la mia visione del mondo consiste nel non averne una”, cioè in quanto oggi viene indicato con il termine “relativismo”?
A questo proposito s’impone la distinzione fra “pre-giudizi” e “post-giudizi”, cioè i “giudizi da cui si parte” e i “giudizi che si emettono a fronte dei fatti”. I primi sono costruiti sulla base di quello che si sa già, per informazione, per scienza o per esperienza; i secondi sulla base di quello che non si può ancora sapere. Per cogliere la problematica, propongo una riflessione di un pensatore francese, Gustave Thibon (1903-2001). Nel 1943 scriveva: “Un tempo il cristianesimo ha dovuto lottare contro la natura; quella natura era tanto dura, tanto ermeticamente chiusa che la grazia durava fatica a intaccarla. Oggi dobbiamo lottare per la natura, al fine di salvare il minimo di salute terrena necessaria all’innesto del soprannaturale. […] Oggi bisogna, al contrario, rianimare quel naturale senso dell’onore, affinché la fedeltà verso il soprannaturale e l’eterno possa in esso trovare il suo abbozzo analogico, il suo indispensabile punto di partenza. La natura è come una torre, dal sommo della quale l’uomo si lancia verso il cielo (egli non prende il volo dal livello del suolo e del nulla, non prende il volo dal niente…)” (2). Il testo del pensatore francese è stato “tradotto” e “interpretato”, nel 1989, dal pensatore spagnolo Rafael Gambra Ciudad (1920-2004): “È vecchia la sentenza nihil innovatur nisi quod traditum est, che coincide con la luminosa espressione […]: quanto non è tradizione è plagio. E con l’affermazione di Gustave Thibon in contrasto con quanti negano la tradizione: si può saltare nel vuoto, ma non si può saltare dal vuoto” (3).
9. Dunque, i “pre-giudizi” sono indispensabili; è un’illusione pensare di non averne: infatti, “si può saltare nel vuoto, ma non si può saltare dal vuoto”. Ma i “pre-giudizi” vanno confrontati con i fatti e da questo confronto nascono i “post-giudizi”. Di fronte a una realtà di cui s’ignora la causa, non si pensa anzitutto a molte ipotetiche cause, ma a una sola causa. Di fronte alla Realtà, si pensa a un Creatore, non a più creatori, che si limitano — si limiterebbero — a spostare semplicemente il problema. Di fronte a Dio, non si pensa a molti dèi, al politeismo. Di fronte a un figlio, si pensa a un rapporto monogamico fra un uomo e una donna, non alla poligamia. Così, a sua volta, di fronte a molte realtà si possono immaginare prima le loro cause, poi la loro causa. Anche se conoscere la causa di qualcosa non significa conoscerla tutta né, tanto meno, perfettamente.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Louis de Bonald, Pensées, scelta e con Introduction di Michel Toda, Perrin & Perrin, Parigi 1998, p. 26.
(2) Gustave Thibon, Ritorno al reale. Nuove diagnosi, in Idem, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, con Prefazione di Gabriel Marcel (1889-1973), a cura e con Considerazioni introduttive di Marco Respinti, trad. it., Effedieffe, Milano 1998, pp. 147-321 (p. 241).
(3) Rafael Gambra Ciudad, Tradicionalismo, II. Política, in Gran Enciclopedia Rialp, vol. XXII, Rialp, Madrid 1989, pp. 671-673 (p. 673).