ALFREDO MANTOVANO, Cristianità n. 177 (1990)
Dopo un dibattito parlamentare sull’aborto “legale”, che non ha fornito indicazioni apprezzabili neppure sotto il profilo delle semplici proposte (1), l’undicesimo anno di applicazione della legge n. 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza — l’”ivg” —, entrata in vigore il 22 maggio 1978, ha invece offerto, insieme a conferme di posizioni che, al momento, sembrano immodificabili, qualche elemento di novità meritevole d’attenzione.
Due sono, a mio avviso, i fatti salienti verificatisi nel 1989: in primo luogo, il cosiddetto “caso Mangiagalli”, rivelativo del persistente accanimento di buona parte del fronte abortista contro chiunque azzardi — anche timidamente — a mettere in discussione il riconoscimento del “diritto” a interrompere la gravidanza; in secondo luogo, la presentazione in Parlamento, da parte dei deputati del MSI-DN, il Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale, della prima articolata proposta di abrogazione della legge n. 194. Ma un quadro completo non può trascurare la rilevazione dell’immutata ignavia politica di chi pretende di guidare il fronte antiabortista, confermata in più occasioni.
Il “caso Mangiagalli”
1. Inserita nel complesso ospedaliero degli Istituti Clinici di Perfezionamento, la clinica Mangiagalli di Milano non è nuova a polemiche aventi per oggetto l’aborto. Nel luglio del 1976, a poco più di un anno dalla sentenza della Corte Costituzionale che aveva dilatato i confini dell’aborto terapeutico (2), e mentre era in corso in Parlamento e nel paese il dibattito per la legalizzazione dell’aborto stesso, tre medici in servizio presso la clinica — Francesco Dambrosio, Bruno Brambati e Mauro Buscaglia — si recano a Seveso, in Brianza, dove si è sprigionata una nube tossica di diossina dallo stabilimento ICMESA, e si inseriscono in una ben orchestrata campagna politica allo scopo di dissuadere le donne del luogo in stato di gravidanza dal mettere al mondo figli per timore di malformazioni: trentatrè di esse, anche sulla base dell’opera di “sensibilizzazione” svolta dai tre medici, decidono di abortire e si ricoverano alla clinica Mangiagalli (3); è appena il caso di ricordare l’effetto propagandistico d’importanza tutt’altro che secondaria avuto dall’”operazione Seveso” ai fini dell’approvazione della legge n. 194.
Il 15 aprile 1987, il dottor Bruno Brambati esegue, sempre presso la clinica Mangiagalli, un intervento abortivo alla ventunesima settimana di gestazione perché il feto risulta affetto da “sindrome di Turner” — una malformazione dell’apparato genitale che comporta la sterilità —, e questo rappresenta un rischio per la salute psichica della madre; il “prodotto del concepimento”, una bambina, nasce vivo e quindi, in base alla stessa legge n. 194 (4), si deve fare il possibile per salvarla: non solo il medico non provvede a tanto ma, di più, incide con un bisturi il ventre della piccola allo scopo di verificare se vi sia realmente la malformazione diagnosticata, quindi la lascia morire (5). L’episodio, benché denunciato alla magistratura, è ancora in attesa di definizione giudiziaria; pochi giorni dopo, il dottor Egidio Spaziante, direttore sanitario della clinica, denuncia “la finalità eugenetica di molti aborti cosiddetti terapeutici” ivi eseguiti (6).
2. Il “caso” vero e proprio scoppia sul finire del 1988 quando, con un articolo di prima pagina, Avvenire dà notizia di un aborto “terapeutico” eseguito dai ginecologi Francesco Dambrosio e Bruno Brambati su una gestante al quinto mese, la cui salute psichica sembra in pericolo perché sul feto è stata riscontrata un’anomalia genetica — la “tripla x” —, dalla quale può derivare il rischio di una menopausa precoce intorno ai trent’anni: è il 28 dicembre 1988, solennità dei Santi Innocenti. La denuncia viene da due medici della stessa clinica, Luigi Frigerio e Leandro Aletti (7), i quali precisano che, dei circa milleottocento aborti “terapeutici” eseguiti alla clinica Mangiagalli dall’entrata in vigore della legge n. 194, “solo l’uno per cento […] si è reso necessario perché la salute fisica della donna era in pericolo. Nel 35,9% la motivazione è di tipo eugenetico (anomalie, malformazioni anche lievi), nel 63,1% compaiono le ragioni psicologiche” (8); quanto a queste ultime, notano: “Avete mai visto una di queste cosiddette diagnosi? Roba senza né capo né coda. Del tipo: “La paziente da giovane è stata cleptomane. Ha raggiunto la scolarità dell’obbligo con le 150 ore del sindacato. Soggetto psicolabile. Queste condizioni psicologiche rendono necessaria l’interruzione della gravidanza, eccetera, eccetera”” (9).
Il caso interessa i mass media, anche se riesce difficile trovare un’informazione corretta e precisa all’infuori di quella fornita quasi quotidianamente da Avvenire. La sostanza del discorso dei due medici denuncianti — obiettori di coscienza e qualificati, nella migliore delle ipotesi, come “crociati” e come “integralisti” perché vicini a Comunione e Liberazione e sostenuti, nel caso concreto, anche dal Movimento Popolare — è che la realtà dell’aborto — quindi quella della vita prenatale — è così banalizzata che non vengono rispettate neppure le procedure formali previste dalla legge n. 194: in particolare, non si presta attenzione neanche alle motivazioni addotte per interrompere la gravidanza dopo i primi novanta giorni, per le quali la legge stessa stabilisce vi debba essere un minimo di verifica. Se ciò avviene in una delle cliniche ginecologiche più qualificate, non è difficile immaginare che si tratti di prassi diffusa anche altrove.
Questo discorso, se provoca l’invio alla clinica Mangiagalli di ispettori da parte del ministro della Sanità Carlo Donat Cattin — il che pare doveroso, poiché sono ipotizzate violazioni di legge, che possono configurare anche illeciti disciplinari —, attira immediatamente gli strali dell’abortismo organizzato, che si muove a diversi livelli: il 3 febbraio 1989, il consiglio di amministrazione della clinica sospende Luigi Frigerio e Leandro Aletti dal servizio, li deferisce alla commissione disciplinare e li denuncia all’Ordine dei Medici e alla magistratura perché rei di aver rivelato segreti d’ufficio (10); la sospensione sarà revocata qualche giorno dopo dal Comitato Regionale di Controllo (11) e la revoca sarà confermata dal TAR, il Tribunale Amministrativo Regionale, della Lombardia (12); la procura della Repubblica di Milano invierà invece ai due medici un ordine di comparizione, contestando loro il delitto di “rivelazione di segreto d’ufficio” di cui all’articolo 326 del codice penale (13). Il 12 aprile, lo stesso consiglio di amministrazione revoca l’incarico di presidente al dottor Angelo Craveri, democristiano, colpevole di aver preso le difese di Luigi Frigerio e di Leandro Aletti, ed elegge al suo posto il dottor Carlo Zanussi, socialista, che si dimette dopo pochi mesi (14). Il 26 luglio il TAR della Lombardia accoglie il ricorso presentato dal dottor Angelo Craveri contro la delibera di sospensione dalla carica di presidente, così reintegrandolo in tale carica (15).
Non è tutto: il lavoro degli ispettori inviati dal ministro della Sanità viene bloccato all’interno della clinica al secondo giorno, dopo che hanno visionato circa trecento cartelle relative ad aborti terapeutici, per iniziativa della Regione Lombardia e dell’USL — l’Unità Sanitaria Locale — competente, che ne hanno il potere (16).
3. La persecuzione amministrativa è però soltanto uno dei terreni sui quali l’abortismo, che schiera tutte le sue forze — dai liberali ai demoproletari, con tutto quanto vi è in mezzo, compresi gay e veterofemministe —, combatte la battaglia. Nonostante la legge n. 194 e i suoi relatori si siano sforzati di non usare il termine, l’aborto viene rivendicato come un “diritto” e come una “conquista civile”, da difendere a ogni costo, sì che la legge in vigore non andrebbe modificata in senso meno permissivo, ma andrebbero ampliate le sue disposizioni ritenute restrittive, a cominciare dalla disciplina dell’obiezione di coscienza e da quella riguardante le minorenni. Le enunciazioni accompagnano i fatti: a chi ha lamentato l’inosservanza di quei pochi e formali limiti contenuti nella legge n. 194, si risponde non solo non ammettendo la pratica diffusa di tale inosservanza, ma proponendo l’abolizione, anche a costo di creare discriminazioni, di detti limiti.
L’ipocrisia della legge del 1978, a essa intrinseca e denunciata anche da esponenti di primo piano di partiti abortisti (17), deriva da un lato dal prevedere la possibilità di abortire “a richiesta” nei primi novanta giorni, lasciando al solo sanitario che esegue l’intervento la verifica della sussistenza dei presupposti per abortire nel periodo successivo, e dall’altro dal concedere al medico la possibilità di sollevare obiezione. Tale ipocrisia è anche dimostrata dall’allargamento dell’area dell’obiezione medesima, che crea qualche problema nell’organizzazione dei servizi per applicare la legge e nella contemporanea inosservanza delle procedure previste sia nella fase della “rimozione degli ostacoli” alla prosecuzione della gravidanza, sia per l’ivg, dopo il novantesimo giorno.
Al fronte abortista interessa il “risultato”: “La 194 — scrive Enzo Forcella — non si proponeva di abolire l’aborto, ma semplicemente di depenalizzarlo” (18). E Guido Tassinari, che alla realtà è interessato da prima della culla, in quanto sostenitore “storico” dell’aborto, fino alla bara, dal momento che è attivo, anche materialmente, sul terreno dell’eutanasia, ammonisce: “Dobbiamo imparare a guardare in faccia la realtà. Paure e ipocrisie le avevamo già codificate dieci anni fa nella dizione dell’articolo 1 della legge: “L’interruzione volontaria della gravidanza non è un mezzo di controllo delle nascite”. Perché giocare con le parole? L’aborto è un mezzo di controllo delle nascite, il più antico, il più diffuso, il più sofferto, il più punitivo nei confronti della donna” (19).
Lo slogan La 194 non si tocca, scritto in più articoli, striscioni e manifesti e urlato in più manifestazioni, è in realtà equivalente a “L’aborto non si tocca”, perché quest’ultimo interessa, oltre tutte le dichiarazioni e proprio alla luce di quelle degli abortisti più sinceri: l’aborto senza limiti o condizionamenti, e garantito, in ogni momento e in ogni fase della gravidanza, dallo Stato. Chi osa denunciare tale logica viene isolato e, se inserito nella struttura che provvede all’ivg, viene espulso, sospeso oppure “dimissionato”. E da tempo si auspicano forme di ghettizzazione degli obiettori, reclamate nuovamente in occasione del dibattito sul caso Mangiagalli.
Per la vita e… per la legge n. 194?
4. Il concetto dell’intoccabilità della legge n. 194 — strano ma vero — sembra condiviso, almeno sotto il profilo del comportamento concreto, in ultima analisi l’unico di qualche rilievo, da una parte di quanti, da anni, si presentano come leader dello schieramento per il diritto alla vita.
L’on. Carlo Casini — vicepresidente del MpV, il Movimento per la Vita, deputato al Parlamento italiano, rieletto a quello europeo il 18 giugno 1989 nelle liste della Democrazia Cristiana —, nell’intervento pronunciato alla Camera durante la discussione del 1988, affermava: “Ci dispiace che un dibattito di così ampio respiro sia stato ridotto all’aborto, anzi di più: alla legge sull’aborto, la cui modifica noi non abbiamo chiesto neppure nella nostra mozione” (20). Questa posizione è stata ribadita a proposito della marcia a favore dell’aborto svoltasi a Roma il 18 aprile 1989: “Trovo poi singolare –– diceva lo stesso deputato democristiano — un corteo di donne per difendere una legge della quale in questo momento nessuno chiede la modifica, ma solo una attuazione meno dimentica del figlio concepito. […] Sono d’accordo con il presidente dell’Azione cattolica, il quale nella recente assemblea nazionale della sua associazione ha messo in guardia contro atteggiamenti di scontro in materia di aborto. […] l’integralismo e l’intolleranza in materia di vita sono un residuato pressoché irrilevante in campo cattolico” (21).
Lieto di entrare a far parte della categoria definita dall’on. Carlo Casini con il termine di “residuato”, ribadisco quanto ho scritto in argomento nel 1988 (22), e cioè che non si può condividere la linea dello stesso uomo politico, che è poi quella fatta propria dalla DC e dal vertice del MpV (23), di richiesta di applicazione “coerente” della legge n. 194, “con riferimento — così si esprimeva la mozione Martinazzoli — al fine di “tutelare la vita umana fin dal suo inizio””, contenuto nell’articolo 1 della legge in questione: infatti, posto che tale articolo non specifica il momento in cui si pone l’“inizio” della vita umana (24), né riferisce esplicitamente al nascituro la “vita” che verrebbe tutelata, gli articoli 4 e 5, che costituiscono il nucleo della legge, autorizzano l’aborto sulla base delle indicazioni più diverse e dietro semplice richiesta della gestante, sì che la “tutela della vita umana dal suo inizio” si rivela un’enunciazione generica, priva di riscontro all’interno della stessa legge n. 194 (25).
5. Se poi si chiede all’on. Carlo Casini perché mai non punta a “una legislazione coerente con le esigenze inviolabili della persona umana” — come raccomanda il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II —, che aiuti “i cittadini a riconoscere il valore della vita e a rispettarlo” (26), egli risponde: “Se non chiediamo modifiche alla legge non è perché la condividiamo, il nostro giudizio resta severo; ma sappiamo che non vi è consenso per cambiare la legge e ci sforziamo allora di avere la mentalità della madre vera di fronte al re sapiente, a Salomone, di cui parla la Bibbia. Le due donne si litigavano il figlio e il re saggio decise di dividerlo in due. Fu la madre vera a rinunciare alle proprie ragioni purché il figlio vivesse. Così non ci chiuderemo in una rancorosa protesta, non grideremo ” lo avevamo detto”, anzi ci appelleremo alla legge” (27).
Ora, a parte l’opportunità di accostare la DC alla “madre vera”, la piccola differenza esistente rispetto all’episodio veterotestamentario richiamato dall’on. Carlo Casini è che, nel caso in questione, il figlio, se nessuno fa nulla perché sia abrogata la legge n. 194, muore senz’altro: infatti, non si tratta di “rinunciare alle proprie ragioni” perché qualcuno viva, ma di difendere le ragioni del nascituro, che viene certamente ammazzato se chi ha la possibilità di garantirgli l’esistenza compie il beau geste di rinunciarvi, appellandosi alla stessa legge n. 194.
È poi superfluo rilevare la profonda differenza fra la posizione dei medici Luigi Frigerio e Leandro Aletti, che non potevano far altro, nella situazione concreta in cui operavano e operano, se non denunciare la prevalenza della logica abortista, anche oltre i tenui limiti fissati dalla legge n. 194, e quindi chiedere almeno il rispetto di questi limiti, e quella di parlamentari in possesso degli strumenti tecnici per proporre modifiche che, se approvate, potrebbero impedire la stessa eventualità di casi come quello che si è verificato alla clinica Mangiagalli.
Merita comunque decisa contestazione il motivo addotto a sostegno dell’ignavia legislativa, che cioè non vi sarebbe in Parlamento il “consenso per cambiare la legge”, e ciò per tre ordini di ragioni:
a. l’assenza di una maggioranza parlamentare abortista anteriormente alle elezioni politiche del 1976 non ha frenato gli sforzi dei deputati e dei senatori abortisti tesi alla discussione delle proposte di legalizzazione presentate prima che, anche grazie a una ben orchestrata azione propagandistica, il rapporto di forze fosse mutato a loro vantaggio: perciò, perché escludere di principio un’eventualità analoga, anche se di segno opposto?
b. anche con l’attuale rapporto di forze fra i partiti, perché escludere preventivamente che un dibattito sulla revisione radicale della disciplina dell’aborto trovi consenso fra taluni appartenenti a formazioni in tesi filoabortiste? I casi di coscienza, i dubbi e le perplessità sull’aborto legale espressi da esponenti socialisti, liberali e Verdi, pur se non da sopravvalutare quanto a consistenza, sono da trascurare al punto da non essere neppure presi in considerazione?
c. l’esito della votazione sulla mozione Martinazzoli, nel luglio del 1988, prova che spesso non sono i numeri a difettare, ma la volontà politica: “Questa mozione — ha detto infatti l’on. Mino Martinazzoli — non è passata per soli cinque voti e mancavano ben più di venti parlamentari della Democrazia cristiana” (28), sì che non si comprende su quale base lo stesso deputato, a commento del dibattito, abbia potuto scrivere “che — ridotta la questione ad una disputa pregiudiziale sulla legge 194 del 1978 — noi dovessimo, in parlamento, tornare a perdere, era, secondo la logica dei numeri, prevedibile e scontato” (29).
6. Quand’anche le ragioni esposte non fossero convincenti — e, comunque, andrebbe spiegato perché non sono tali —, sarebbe interessante sapere quali risultati sono stati ottenuti relativamente alla tutela della vita con l’ultradecennale rinuncia a qualsiasi significativa proposta di modifica legislativa. Né sono rilevabili contropartite di rilievo ottenute relativamente alla difesa e al rafforzamento della famiglia, anche dal solo punto di vista strettamente economico, pur se assolutamente non bastevoli a giustificare contrattazioni; infatti, fra le iniziative del governo guidato dall’on. Ciriaco De Mita non si possono dimenticare gli aumenti delle aliquote IVA per una larga fascia di beni di prima necessità, aumenti che hanno interessato negativamente le famiglie più numerose (30), mentre nulla è stato fatto in favore dell’accoglienza di nuove vite, a differenza di quanto accade in paesi vicini all’Italia come la Francia e la Germania Occidentale (31).
Eppure, le indicazioni dei Pastori di quel mondo cattolico al quale sono chiesti voti in nome dei valori cui è irrinunciabilmente legato, non lasciano adito a dubbi sulla via da battere: “Quando uno Stato mette a disposizione le sue istituzioni, perché qualcuno possa tradurre in atto la volontà di sopprimere il concepito, rinuncia ad uno dei suoi doveri primari, ed alla sua stessa dignità di Stato”, diceva Papa Giovanni Paolo II ai partecipanti al convegno di studi su Il diritto alla vita e l’Europa, fra i quali, in prima fila, era l’on. Carlo Casini; e aggiungeva: “Non vi freni la constatazione di essere minoranza. La storia dell’Europa dimostra che non di rado i grandi salti qualitativi della sua cultura sono stati propiziati dalla testimonianza, spesso pagata col sacrificio personale, di solitari. La forza è nella verità stessa e non nel numero” (32). E il cardinale Ugo Poletti, presidente della CEI, la Conferenza Episcopale Italiana — promotrice, nell’aprile del 1989, del convegno nazionale sul tema A servizio della vita umana, fra i cui relatori non mancava lo stesso on. Carlo Casini (33) —, dopo aver ricordato che gli interventi volti a modificare la legge n. 194 “sono problemi del Parlamento”, ha però formulato “l’augurio […] che la legge 194 sia riveduta e corretta nel miglior modo possibile […]; toccherà comunque al Parlamento esprimere una scelta che sia autenticamente rispettosa della dignità della persona umana, in tutto e per sempre” (34).
Una proposta di abrogazione della legge n. 194
7. In questo quadro va segnalata l’azione di chi non ha atteso ipotetici “tempi migliori” per prendere l’iniziativa nella direzione indicata: infatti, il 9 febbraio 1989 è stata depositata alla Camera una proposta di legge, sottoscritta da tutti i deputati del MSI-DN e avente come prima firmataria l’on. Adriana Poli Bortone, dal titolo Provvedimenti in favore della maternità (35). La proposta, corredata da un’ampia relazione sugli effetti della legge n. 194, basata anche sulla lettura comparata dei dati annualmente forniti dai ministeri interessati alla sua attuazione e preoccupata del disprezzo della vita provocato dalla diffusa pratica abortiva, consta di undici articoli, divisi in due parti precedute dall’esposizione di “princìpi generali”.
L’organicità della proposta — la prima e l’unica con completezza di quadro presentata dopo l’approvazione della legge n. 194 (36) — ne rende opportuno un esame dettagliato, anche perché, oltre un cenno sui quotidiani del giorno successivo alla sua presentazione, di essa non si è più parlato, nonostante la sua portata politica.
Nel primo articolo vengono enunciati i princìpi e gli intenti della nuova disciplina della quale si propone l’approvazione, e in particolare il riconoscimento e la tutela da parte dello Stato della vita umana fin dal suo inizio, nonché la promozione e la protezione della maternità. Quanto al primo aspetto, si ha cura di precisare, a differenza di quando si dà nel testo dell’articolo 1 della legge n. 194, nel quale pure si parla della “tutela della vita umana fin dal suo inizio”, che quest’ultimo coincide con il momento del concepimento. L’affermazione è chiara e netta e ne vengono tratti princìpi conseguenti nelle norme successive. Manca invece — e non si può non condividere la volontaria omissione — la garanzia che il primo comma dell’articolo 1 della legge n. 194 forniva alla “procreazione cosciente e responsabile”, ambigua nella formulazione e smentita dalla diffusa recidività riscontrata nel ricorso all’ivg nella pratica di undici anni di aborto legale (37).
Circa la maternità — qualificata non soltanto, come nella legge n. 194, in termini di “valore sociale”, ma anche come “evento di grande rilevanza personale” —, si sottolinea l’impegno dello Stato e degli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, ad aiutare la donna durante la gravidanza e dopo il parto.
Prevenzione e assistenza
8. Gli articoli 2 e 3 della proposta specificano il senso e la consistenza di tale impegno, ribaltando la logica delle norme cosiddette “di prevenzione” della legge n. 194, che si sono rivelate nella realtà soltanto una copertura formale al perseguimento dello scopo della legge stessa, cioè di garantire comunque l’intervento interruttivo della gravidanza. Per “la donna che, durante la gravidanza, sia afflitta da serie difficoltà, in qualunque modo collegabili alla gestazione” (art. 2, 1° co.), sono previsti tre ordini di “interventi speciali”, a seconda che le “difficoltà” siano di natura “sanitaria”, “socio-assistenziale” oppure “economica e familiare”. Senza scendere nel dettaglio delle diverse procedure d’intervento — che tuttavia, per la particolarità della materia, tale da esigere la massima tempestività, sono molto snelle — basta ricordare, oltre alla necessaria interazione fra l’USL, il Comune e la Regione — quest’ultima interessata soprattutto sotto il profilo del sostegno economico —, il ruolo che possono svolgere “organismi privati e di volontariato, agenti senza scopo di lucro e col fine statutario dell’accoglienza e della tutela della vita nascente e della maternità”, operanti nel territorio e iscritti in un apposito albo (art. 2, 5° co.), sia al momento della segnalazione dei casi bisognosi di “intervento speciale”, sia nella fase dell’attuazione degl’interventi medesimi.
Tutto questo nel rispetto della volontà della gestante e del suo nucleo familiare, che “hanno diritto di scegliere le modalità di attuazione e di fruizione degli interventi speciali” (art. 2, 6° co.), e con la chiara prescrizione della tangibilità e della concretezza del sostegno: fra gli altri, il terzo comma dell’articolo 3 stabilisce che gli aiuti economici “devono essere congrui rispetto alle necessità della donna e del suo nucleo familiare, in modo da assicurare alla donna e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Quindi l’articolo 4 della proposta ridisegna, alla luce della prospettiva di difesa e di accoglienza della vita che l’anima, i compiti dei consultori familiari istituiti dalla legge n. 405, del 29 luglio 1975, che finora, sulla scorta dei dati forniti annualmente dalle relazioni del ministro della Sanità, non solo non hanno svolto opera di dissuasione dal ricorso all’aborto, ma molto spesso lo hanno facilitato. Le lettere a e b del primo comma dell’articolo riproducono testualmente le stesse lettere del primo comma dell’articolo 2 della legge n. 194, ove si tratta degli obblighi di informazione della donna circa i diritti a lei spettanti in base alla legislazione vigente, con particolare riferimento alla tutela del lavoro; le altre lettere del primo comma e il secondo comma, pur riprendendo le analoghe disposizioni del citato articolo 2 della legge n. 194, appaiono rispetto a questo meno generiche e più mirate alla protezione della vita nascente, anche attraverso la collaborazione, prevista mediante regolamenti o convenzioni, del volontariato con le caratteristiche precedentemente enunciate.
Non viene riproposto il contenuto del terzo comma dell’articolo 2 della legge n. 194, che consentiva la somministrazione dei contraccettivi anche ai minori: pure in questo caso l’omissione è felice trattandosi di una riaffermazione della maturità cui il minore va educato in materia, nel momento in cui, in Parlamento, si cerca di eliminare la necessaria protezione del minore stesso nell’ambito della discussione delle norme in tema di violenza sessuale.
La prima parte della proposta si chiude, all’articolo 5, con la previsione della somma di duemila miliardi quale onere annuale a carico dello Stato per adempiere ai compiti in essa stabiliti. Mi sembra il caso di ricordare — a fronte delle eventuali perplessità circa l’ulteriore sensibile aggravio del deficit pubblico che potrebbero sorgere per questo stanziamento — che a. dal punto di vista strettamente materiale, in fase di calo demografico il denaro impiegato in favore della vita appare più un investimento che una spesa; b. impedire anche la soppressione di una sola persona non tollera quantificazioni; c. la cifra prevista è comunque tutt’altro che ingente, se confrontata con gli enormi sprechi di Stato, che hanno portato a un indebitamento pubblico complessivo di circa un milione di miliardi e a un deficit che non si riesce a contenere in centocinquantamila miliardi di lire.
Strumenti penali
9. Dopo aver fissato l’insieme di provvedimenti idonei a dissuadere dal ricorso all’aborto attraverso aiuti concreti, la seconda parte della proposta contiene e sviluppa in modo articolato l’affermazione di principio che l’aborto è per l’ordinamento giuridico un fatto illecito, se è vero, com’è riconosciuto dal primo comma del primo articolo, che la vita dell’uomo comincia dal concepimento.
Ma non basta affrontare la questione soltanto con le pur importanti norme sulla fase della prevenzione e dell’assistenza, è inoltre necessario che lo Stato prenda posizione manifestando un chiaro giudizio di disvalore nei confronti dell’uccisione dell’essere innocente e indifeso, e questo può essere fatto unicamente con lo strumento penale (38): infatti, se è vero che non si tratta di un rimedio contro tutti i comportamenti illeciti — quasi fosse sufficiente minacciare la pena e poi applicarla al caso concreto per risolvere ogni problema —, e se deve sempre essere considerato come una extrema ratio, è anche vero che l’esperienza comune e il buon senso insegnano che la descrizione di un modello di condotta che si ritiene debba essere seguito — nel caso specifico, quella dell’uomo che si astiene dal ledere il più elementare diritto del suo prossimo, il diritto alla vita —, si rivela assolutamente inefficace se priva della sanzione, cioè della previsione di conseguenze afflittive per i comportamenti contrastanti con il precetto.
E il rapporto esistente e constatabile da chiunque fra la legislazione permissiva gradualmente introdotta nell’ultimo quarto di secolo e il parallelo grave decadimento del costume conferma — se ve ne fosse bisogno — la funzione pedagogica e responsabilizzante propria della norma penale, anche se non si tratta dell’unico strumento di controllo sociale: essa infatti non determina soltanto il corrispettivo da pagare per chi viola il precetto fissato, ma esprime un giudizio di disapprovazione verso un particolare atto. Questa riprovazione — soprattutto nell’attuale contesto di forte secolarizzazione, nel quale la morale oggettiva non rappresenta più il criterio di verifica della validità e della bontà della legge positiva, ed è piuttosto quest’ultima a costituire spesso il parametro sulla cui base si forma la mentalità corrente — è in grado di influire, anche attraverso il suo connotato intimidatorio, sulla scelta del comportamento da tenere da parte di ciascun consociato.
Va detto che nella sua parte sanzionatoria la proposta missina manifesta una certa articolazione, che vuole tener conto dell’evoluzione in senso soggettivistico del diritto penale contemporaneo e della giurisprudenza — assolutamente inaccettabile ma, comunque, allo stato insuperabile — elaborata in materia dalla Corte Costituzionale anche in epoca precedente l’approvazione della legge n. 194, pesantemente e drasticamente ostile a qualsiasi revisione, anche parziale, della disciplina dell’aborto legale (39). Comune alle diverse ipotesi configurate, e coerente con i princìpi affermati all’articolo 1, è l’eliminazione di qualsiasi distinzione, ai fini della disciplina giuridica, fra le varie fasi della gravidanza: se il concepimento è il momento di inizio della vita, non ha senso considerare in modo separato i primi tre mesi di gestazione dai successivi novanta giorni, e poi ancora dal tempo che precede la nascita, come invece fa la legge n. 194. Le nuove fattispecie di reato sono catalogate in tre gruppi:
a. interruzione della gravidanza di donna non consenziente, prevista dall’articolo 6, che richiama, con qualche modifica relativa all’entità delle pene, aumentate di circa la metà, il contenuto dell’articolo 18 della legge n. 194. Viene così punito sia chi provoca l’aborto senza il consenso della gestante — il consenso è come non prestato se carpito con violenza, minaccia, suggestione, inganno oppure se proviene da una minorenne —, sia chi cagiona l’aborto con azioni volte a provocare lesioni alla donna. La sanzione viene diminuita se, invece dell’aborto, dalle lesioni deriva l’anticipazione del parto, e cresce in caso di morte o di pericolo di morte o di grave pregiudizio per la salute della donna, oppure, infine, se questa è minore;
b. interruzione colposa della gravidanza, prevista dall’articolo 8, che riproduce il contenuto dell’articolo 17 della legge n. 194;
c. interruzione della gravidanza di donna consenziente, prevista dall’articolo 7: questa è la vera novità — quella certamente più qualificante — della seconda parte della proposta. La norma distingue fra la donna che ricorre volontariamente all’aborto e chi glielo procura: quest’ultimo è punito con la reclusione da uno a quattro anni e la pena è elevata in presenza delle stesse aggravanti previste dall’articolo 6 ed esposte sopra al punto a. Anche la donna è punita, e la pena è più lieve se la gestante si procura l’aborto da sola.
10. È dunque finalmente riaffermato, sia pure con la previsione di sanzioni tutt’altro che severe, che l’aborto volontario, qualunque ne sia la ragione, è considerato contrario all’ordinamento giuridico. La proposta tiene presente che, dall’entrata in vigore della legge n. 194, sono trascorsi undici anni, che hanno profondamente inciso sulla valutazione dell’interruzione della gravidanza da parte di molti italiani e che hanno modificato in modo ancor più profondo il comportamento quotidiano: la riaffermazione del principio, munito del presidio sanzionatorio, è comunque un passo importante per la ricostruzione di una mentalità rispettosa della vita.
La considerazione della ricordata giurisprudenza elaborata in materia dalla Corte Costituzionale determina il contenuto del secondo comma dell’articolo 7: “Il giudice può astenersi dall’infliggere la pena nei confronti della donna, se essa, al momento del fatto, si trovava in una situazione di speciale difficoltà per ragioni di salute, fisica o psichica, per ragioni economiche o familiari, ovvero per timori in ordine al decorso della gravidanza e alle condizioni di vita del nascituro”.
Tuttavia, per quanto la disciplina lasci spazio a scusanti infondate, merita apprezzamento il rifiuto dei princìpi contenuti negli articoli 4 e 5 della legge n. 194. Infatti, mentre in base a questi articoli l’intervento di ivg rappresenta un vero e proprio “diritto” della donna tanto che il medico di fiducia, o quello del consultorio oppure dell’USL è tenuto a rilasciare un documento con il quale la gestante può interrompere la gravidanza dopo sette giorni, anche se non riscontra l’urgenza delle ragioni addotte per abortire, l’articolo 7 della proposta in esame non consente di ritenere in alcun modo lecito l’aborto se è vero che: a. si avvia comunque il procedimento penale teso ad accertare l’eventuale sussistenza delle condizioni per non infliggere la pena; b. tale accertamento consiste in una valutazione a posteriori, basata sull’esame del fatto concreto e non, come per gli articoli 4 e 5 della legge n. 194, in una aprioristica legittimazione dell’ivg; c. l’accertamento stesso non appare tanto generico, se le difficoltà da valutare devono avere carattere di “specialità”, e quindi devono apparire non prive di fondamento; d. la non punibilità riguarda, nelle ipotesi indicate, soltanto la donna, e non anche chi le procuri l’aborto, a sottolineare che quanto viene preso in considerazione è la condizione tutta particolare in cui può venirsi a trovare la gestante e questo esclusivamente ai fini della pena, non del giudizio.
A conferma di quest’ultimo aspetto, l’articolo 9 della proposta disciplina in modo del tutto autonomo la situazione dei sanitari che eseguano l’intervento interruttivo, per i quali l’area della non punibilità è molto più circoscritta e si fonda su presupposti diversi, se è vero che devono sussistere le seguenti condizioni: a. l’aborto si sia reso necessario “per evitare un grave pericolo per la vita o la salute della donna, e il pericolo non è altrimenti evitabile” (1° co.); b. vi sia il consenso della donna (1° co.); c. il “grave pericolo” sia accertato e certificato da due medici del servizio ostetrico-ginecologico dell’ospedale interessato all’intervento (2° co.): tale procedura può essere omessa quando l’ivg sia “necessaria per l’imminente pericolo per la vita della donna” (3° co.); d. nell’ipotesi di possibilità di vita autonoma del feto, vi siano i requisiti dello “stato di necessità” di cui all’articolo 54 del codice penale (4° co.). L’articolo 9 si mantiene nei limiti tracciati dalla sentenza n. 27 del 1975 della Corte Costituzionale (40), avendo tuttavia cura di precisare le concrete modalità di accertamento del “grave pericolo”.
Ricondotta nei termini descritti, l’area degli interventi interruttivi della gravidanza che il medico può essere chiamato a eseguire riduce — com’è ovvio — in modo notevole l’area dei conflitti di coscienza. Ciononostante, la proposta manifesta rispetto per la coscienza quando — allo scopo di prevenire qualsiasi ragione di contrasto con le direzioni sanitarie — stabilisce, all’articolo 10, che “il personale sanitario ed esercente attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di interruzione della gravidanza non punibili ai sensi dell’art. 9, quando sollevi obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione” (1° co.).
Le novità rispetto alla disciplina dell’obiezione prevista dalla legge n. 194 stanno, oltre che nella limitazione dei casi che possono determinarla, a. nella circostanza che l’obiezione medesima viene estesa all’intera procedura che si conclude con l’ivg — e quindi non riguarda soltanto, come nell’articolo 9 della legge n. 194, l’intervento interruttivo —, sì che il sanitario può legittimamente rifiutare, come invece ora non gli è consentito, di svolgere tutte quelle attività antecedenti e seguenti l’intervento — come accertamenti e altro —, che egli sa essere strumentali alla soppressione di una vita umana; b. nel fatto che la dichiarazione di obiezione può essere formulata — e revocata — in ogni momento, senza sottostare alle rigide formalità stabilite dalla legge n. 194, che escludono crisi e ripensamenti.
L’ultimo articolo della proposta è una sorta di “norma di chiusura” e serve a fugare ogni dubbio circa la nuova disciplina della materia: “La legge 22 maggio 1978 n. 194 — così recita — è abrogata”.
Prospettive
11. Dopo aver letto il testo della proposta di legge Provvedimenti in favore della maternità non costituisce ragione di meraviglia la scarsa eco da essa avuta sui mass media, soprattutto di ambito ostile all’aborto: infatti, non si tratta di un’iniziativa demagogica, che sarebbe stato molto più semplice — benché decisamente meno serio — adottare, ma di un’ipotesi di riforma della vigente legislazione non priva di una sua specifica rilevanza per la tendenziale organicità con la quale affronta una materia di importanza cruciale, per aver tenuto presenti gli aspetti principali della stessa, e soprattutto per non aver avuto precedenti negli oltre undici anni di applicazione della legge n. 194. Meraviglia invece la scarsa eco che il testo ha avuto negli ambiti associativi maggiormente impegnati nella difesa della vita nascente e riesce strano leggere, sulle colonne di Avvenire, che pure ha dato notizia della proposta del MSI-DN (41), che “l’iniziativa più importante e significativa nel campo della vita umana fu, proprio alla vigila del Natale dell’anno scorso (il 22 dicembre [1988])la presentazione alla Camera, da parte della Dc, e, ancora una volta, con le firme quelle [sic] di Martinazzoli e di Carlo Casini, di un progetto di legge che contiene “norme a tutela dell’embrione umano”” (42).
Quanto affermato non è infatti esatto non soltanto perché non tiene conto della proposta che ho illustrato e esaminato, ma anche perché la menzionata iniziativa democristiana non intende intaccare la vigenza della legge n. 194, e quindi quella dell’aborto legale in Italia; per convincersene basta leggere il secondo comma dell’articolo 2 di tale proposta che, dopo aver stabilito una pena per “chiunque cagiona la soppressione di un embrione umano o di un feto”, fa “salve le ipotesi di interruzione volontaria della gravidanza assoggettate a normativa speciale”. Ancora una volta: la legge n. 194 non si tocca!
Questo viene confermato in modo esplicito, anche se contorto, nella relazione alla proposta di legge, in cui si asserisce, fra l’altro, con riferimento alla legge n. 194, che “almeno in linea teorica, inoltre, e nonostante le contraddizioni e i dati applicativi della legislazione del 1978, non dovrebbe affatto trattarsi, nelle ipotesi ritenute rilevanti ai fini della non punibilità dell’aborto, di un disconoscimento del principio di tutela della vita, quanto piuttosto della rinuncia a determinati mezzi preventivi, in favore del ricorso preminente a strumenti lato sensu sociali. Prescindendo dalle valutazioni critiche circa la legge n. 194, che non possono essere svolte in questa sede, tutto ciò implica ai nostri fini l’assoluta improponibilità di qualsiasi censura nella tutela della vita prenatale che intenda giustificarsi in analogia con la problematica dell’interruzione volontaria della gravidanza”.
Traducendo in italiano comprensibile, l’on. Mino Martinazzoli, l’on. Carlo Casini e gli altri firmatari sostengono che: a. la legge n. 194 stabilisce ipotesi di “non punibilità” dell’aborto, ed è errato, se è vero che “dal sistema organico degli artt. 4 e 5 [della legge n. 194] deriva la necessità di qualificare la facoltà di interrompere la gravidanza nei primi novanta giorni come un vero e proprio diritto di aborto”, come scriveva il medesimo Carlo Casini quando non era ancora deputato democristiano (43); b. la stessa legge n. 194 non disconosce di principio la tutela della vita, ma rinuncia a che tale tutela avvenga in via preventiva, favorendo invece strumenti che vengono definiti “sociali”: tali strumenti sono gli interventi di ivg; c. in sede di tutela dell’embrione non possono essere svolte valutazioni critiche alla legge n. 194. Questo e altro viene affermato da chi si propone come portabandiera della difesa della vita, in una proposta di legge qualificata come “l’iniziativa più importante e più significativa nel campo della vita umana”!
Se questi sono i dati più significativi dell’undicesimo anno di applicazione della legge peggiore che sia oggi in vigore nell’ordinamento giuridico italiano, credo ci si possa chiedere, conclusivamente, quanto si dovrà attendere, in presenza da un lato del persistere della consumazione di una strage legale pubblicamente finanziata che miete in media duecentomila vittime all’anno, e dall’altro di una proposta di legge di una certa organicità come quella che ho esposto per sommi capi, perché l’impegno a livello parlamentare verso una legislazione meno ostile alla vita acquisti connotati di concretezza anche da parte di coloro per i quali, finora, la difesa del nascituro è coincisa con lo sforzo nella direzione di un’applicazione “coerente” della legge n. 194.
Infatti, come ha ricordato Papa Giovanni Paolo II ai partecipanti al convegno A servizio della vita umana, se gli sforzi in questa direzione devono essere fatti da tutti — singoli, famiglie, educatori, operatori sociali —, nel quadro della “urgente e indilazionabile “nuova evangelizzazione” che riservi un ampio spazio alla proclamazione del diritto alla vita”, un compito specifico riguarda i “legislatori perché, sia pure in situazioni politiche e sociali non facili, aiutino i cittadini a riconoscere il valore e della vita e a rispettarlo, mediante una legislazione coerente con le esigenze inviolabili della persona umana”, dal momento che “solo nella giustizia la legge civile può conservare la sua dignità e il suo compito di umanizzare la società” (44).
Alfredo Mantovano
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(1) Cfr. il mio Dieci anni di aborto in Italia, in Cristianità, anno XVI, n. 161, settembre 1988.
(2) Cfr. Corte Costituzionale, Sentenza 18-2-1975 n. 27, in L’aborto nelle sentenze delle Corti Costituzionali, Giuffrè, Milano 1976, pp. 327-329.
(3) Cfr. Roselina Salemi, Sulla pelle delle donne, Rizzoli, Milano 1989, p. 29; il volume costituisce una ricostruzione in ottica “femminista” del caso Mangiagalli. Il primo degli aborti di Seveso fu eseguito dal professor Giovanbattista Candiani, primario del reparto di ostetricia della clinica milanese; parlando al convegno La vita domani, svoltosi nell’autunno del 1988, lo stesso professor Candiani ricordava quella drammatica esperienza dicendo fra l’altro che, “di fronte agli eventi di Seveso, dopo una penosa e lunga meditazione, mi sono assunto la responsabilità di aderire alle richieste di interruzione della gravidanza per 33 donne condizionate all’epoca da pittoreschi personaggi che incitavano all’aborto con sinistri avvertimenti. E come è noto, alla verifica, nessun prodotto del concepimento volontariamente abortito risultò colpito dai presunti effetti teratogeni della diossina” (cit. ibid., p. 30).
(4) “Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto […] il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto” (art. 7, 3° co.).
(5) Cfr. Simonetta Fiorio, Mangiabambini, in Il Sabato, anno XII, n. 6, 11-2-1989, p. 20; sull’episodio cfr. anche R. Salemi, op. cit., p. 32.
(6) R. Salemi, op. cit., p. 32.
(7) Cfr. Avvenire, 28 e 30-12-1988. Sarebbe ingiusto qualificare la clinica Mangiagalli come un abortificio, se è vero che il 1° febbraio 1989 i medici che avevano sollevato obiezione di coscienza erano quarantasette su cinquantasette: due primari su due, ventinove aiuti su trentatrè e sedici assistenti su ventidue; va inoltre ricordato che dal 1984 opera all’interno della stessa clinica un Centro di Aiuto alla Vita, che da quell’anno ha consentito di salvare duecentocinquanta bambini (cfr. R. Salemi, op. cit., pp. 23 e 34).
(8) R. Salemi, op. cit., p. 51.
(9) Ibidem.
(10) Cfr. ibid., p. 74; e Avvenire, 4 e 5-2-1989.
(11) Cfr. Avvenire, 22-2-1989; e R. Salemi, op. cit., p. 82.
(12) Cfr. Avvenire, 23-2-1989.
(13) Cfr. ibid., 11-4-1989.
(14) Cfr. ibid., 16-7-1989.
(15) Cfr. ibid., 29-7-1989.
(16) Cfr. ibid., 20 e 22-1-1989. I fatti verificatisi alla clinica Mangiagalli non sembrano essere i soli a provare la cattiva applicazione della legge n. 194 sotto il profilo delle tenui formalità da essa previste. Di episodi sui quali sono state o sono svolte indagini da parte degli organi inquirenti si è avuta notizia a Firenze, a proposito di un’ivg eseguita al quarto mese e mezzo di gravidanza ai danni di due gemelli, dei quali uno soltanto presentava malformazioni (cfr. Avvenire, 1-2-1989); a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, circa un’ivg oltre il termine dei novanta giorni (cfr. ibid., 18-3-1989); a Bologna, relativamente a quattordici ivg oltre lo stesso termine, in relazione alle quali vengono sequestrate le cartelle cliniche dai Carabinieri presso la clinica ostetrica della USL 27 (cfr. ibid., 16-4-1989; e R. Salemi, op. cit., pp. 94-98); a Perugia, su un’ivg su gestante alla ventitreesima settimana per presunte malformazioni del feto, poi riscontrate inesistenti, eseguita al Policlinico (cfr. Avvenire, 15-5-1989). Un nuovo gravissimo episodio, relativo alla stessa clinica Mangiagalli, viene segnalato da Avvenire del 3-9-1989: sulla base di una lettera indirizzata il 19 luglio da cinque ostetriche in servizio presso la clinica all’amministrazione e alla direzione sanitaria, pochi giorni prima, precisamente il 14 luglio, nel reparto Billi sarebbe stato eseguito un aborto “terapeutico” oltre la ventottesima settimana di gravidanza, con l’espulsione di un feto del peso di circa novecento grammi. Il citato articolo 7 della legge n. 194, che impone l’adozione di ogni misura idonea a salvare la vita del feto — il cui peso, peraltro, grazie alla moderna neonatologia, consentiva margini di sopravvivenza —, è ancora una volta ignorato: infatti, l’ivg è effettuata con impiego di prostaglandine, che di per sé soffocano e uccidono il nascituro. Qualche giorno dopo i sostituti procuratori della Repubblica di Milano, Daniela Borgonovo e Pietro Forno, chiedono al consiglio di amministrazione della clinica Mangiagalli le cartelle cliniche relative a tutti gli aborti terapeutici eseguiti negli ultimi cinque anni (cfr. Corriere della Sera, 6-9-1989).
(17) Cfr. Giuliano Amato, Un aborto di aborto, intervista a cura di Cristina Mariotti, in L’Espresso, anno XXXV, n. 28, 16-7-1989, p. 28. “Quale differenza c’è fra le culture che uccidevano i bambini malformati e quelle che decidono di sopprimerli quando ancora non sono usciti alla luce?”: queste e altre domande sono contenute in una lettera indirizzata dall’on. Franco Piro, vicecapogruppo del Partito Socialista Italiano alla Camera, alle colleghe on. Margherita Boniver e on. Alma Agata Cappiello, in difesa delle posizioni espresse dall’on. Giuliano Amato (cfr. Avvenire, 14-7-1989). “Per noi il diritto alla vita è un diritto inerente all’individuo stesso che nessuno Stato, nessuna maggioranza parlamentare o referendaria, nessun terzo, nemmeno sua madre, gli può togliere”: così si legge, fra l’altro, in un documento elaborato da Liberali per la Vita (cfr. ibid., 1-3-1989), un gruppo sorto all’interno del Partito Liberale Italiano, del quale fanno parte anche cinque consiglieri nazionali (cfr. ibid., 22-2-1989).
(18) la Repubblica, 22-1-1989.
(19) Avvenire, 25-2-1989. Il 15 maggio 1989, nella camera n. 723 dell’Hotel Windsor, a Milano, viene rinvenuto privo di vita il trentatreenne Umberto Santangelo; la perizia medico-legale disposta dalla magistratura fa risalire il decesso alla notte del 14 maggio e ne identifica la causa nell’iniezione di un potente barbiturico, il tiopenthal. L’inchiesta accerta altresì che Umberto Santangelo ha trascorso la sera precedente la morte in compagnia di Guido Tassinari, fondatore, fra l’altro, del Club dell’Eutanasia, e dell’amica di questi Antonia Malfatti; che Guido Tassinari e Antonia Malfatti hanno entrambi trascorso la notte del decesso nello stesso hotel; che accanto al corpo di Umberto Santangelo non sono stati rinvenuti gli strumenti per procurarsi la morte. Al momento, Guido Tassinari e Antonia Malfatti risultano imputati del reato di “omicidio di consenziente”, in ordine al quale sono già stati interrogati dal dottor Filippo Grisolia, sostituto procuratore della Repubblica di Milano (cfr. ibid., 28-9-1989), e dovranno essere giudicati dalla Corte di Assise del capoluogo lombardo (cfr. ibid., 13-10-1989). Guido Tassinari ha pronunciato le parole riportate nel testo in qualità di presidente dell’AIECS, l’Associazione Italiana Educazione Contraccettiva e Sessuale, al convegno L’obiezione di coscienza all’aborto volontario legale: analisi della situazione e proposte legislative, svoltosi a Milano alla fine di febbraio del 1989 su iniziativa di medici non obiettori. Della stessa assise va segnalato — oltre agli strali lanciati contro gli obiettori che, a detta della senatrice socialista Elena Marinucci, dovrebbero essere esclusi dal Servizio Sanitario Nazionale — l’intervento del giornalista Renzo Magosso, secondo il quale “in Italia ogni anno vengono spesi 3mila miliardi per assistere bambini handicappati, la cui agonia è cominciata nel feto. Probabilmente i genitori, se lo avessero saputo, avrebbero scelto di non averli, ma non hanno scelto così perché non hanno potuto fare la diagnosi prenatale. Bene, quei 3mila miliardi servono solo a prolungare questa agonia. Se questa è una battaglia in difesa della vita…” (ibid., 26-2-1989). Si tratta di un’ulteriore conferma dello stretto legame esistente fra contraccezione, aborto, eutanasia e selezione eugenetica: perciò non si può dar torto al ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin il quale, in occasione della Festa Nazionale dell’Amicizia del 1989, ha dichiarato che “la 194 è una legge che ha caratteri nazisti” (il Giornale, 9-9-1989).
(20) Carlo Casini, Come la madre vera di fronte a Salomone, in Marco Giudici (a cura di), La difesa della vita in Parlamento, con una Presentazione di Mino Martinazzoli, Cinque Lune, Roma 1988, p. 159; il volume contiene anche gli altri interventi pronunciati nel corso del dibattito.
(21) Idem, E il non nato è un povero, in Avvenire, 27-4-1989. Una nota pubblicata alla vigilia della Giornata per la Vita del 1989 dal Consiglio Nazionale dell’Azione Cattolica Italiana contiene, fra l’altro, l’esortazione a “valorizzare e mettere in pratica tutte le indicazioni legislative intese a tutelare la vita, in ogni sua fase […]. Come si sa, viene troppo spesso disattesa anche quella parte della stessa legge 194 che si propone di tutelare la vita umana fin dal suo concepimento” (ibid., 31-1-1989). In attesa di conoscere in quale articolo della legge n. 194 sia enunciato il proposito di “tutelare la vita umana fin dal suo concepimento”, mi limito a constatare come, talvolta, la difesa dei presunti “aspetti positivi” della legge del 1978 porti a far dire a quest’ultima quanto in essa è ben lungi dall’essere contenuto. In proposito si deve condividere, sulla scorta dei lavori preparatori e della relazione di maggioranza alla proposta di legge poi divenuta legge n. 194, quanto sostiene l’on. Alma Agata Cappiello che, in polemica con taluni colleghi di partito, assicura “la ferma ed esclusiva difesa della L. 194, ricordando peraltro a Giuliano Amato, quando parla di “bambino”, che proprio questa legge non considera tale il feto” (Aborto, la legge non si tocca. Parola di donne socialiste, in Avanti!, 29-4-1989).
Quanto all’uso disinvolto del termine “integralista”, giova richiamare la puntuale precisazione del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, in occasione della stessa Giornata per la Vita: “Un altro esempio di menzogna che si sta diffondendo — ha detto il porporato — è quello di chiamare cattolici “integralisti” coloro che coraggiosamente si pongono al servizio della verità e in tutti i modi si adoperano per la difesa della vita proponendo iniziative che prevengano o distolgano dall’”abominevole delitto” dell’aborto […]. A loro dico: non preoccupatevi! In questo contesto essere chiamati integralisti equivale a essere chiamati cristiani” (Avvenire, 5-2-1989).
(22) Cfr. il mio Dieci anni d’aborto in Italia, cit.
(23) Cfr., per tutti, l’on. Mino Martinazzoli, il quale, pur riconoscendo che “la D.C. italiana sa bene che su questi temi essa gioca la sua stessa identità di forza politica” (Un’eco più vasta alle nostre ragioni, in Il Parlamento europeo per uno statuto giuridico dell’embrione umano, con una Presentazione dello stesso M. Martinazzoli e un’Introduzione di C. Casini, Cinque Lune, Roma 1989, p. 10), non ha avuto difficoltà, in occasione del dibattito svoltosi alla Camera nel 1988, a dichiarare che “noi non dubitiamo che in questo paese ci sia, per diritto positivo, un diritto all’aborto: non siamo dei sovversivi [sic]. Allo stesso modo non abbiamo assolutamente immaginato di pretendere una presenza del volontariato […] all’interno delle strutture pubbliche dei consultori” (Inquietudini comuni, in M. Giudici [a cura di], La difesa della vita in Parlamento, cit., p. 280).
(24) Il primo comma dell’articolo in questione recita: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”.
(25) Può essere interessante ricordare che, in uno studio per molti aspetti apprezzabile pubblicato pochi mesi dopo l’approvazione della legge n. 194, Carlo Casini, all’epoca ancora magistrato, dopo aver sottolineato lo scopo “apologetico” delle enunciazioni del primo articolo della legge stessa, scriveva: “L’art. 1 pare infatti voler attestare, a chi potrebbe aver dei dubbi, le buone intenzioni del legislatore. La norma sembra voler fare una scelta di campo, non a favore del “diritto d’aborto” ma a favore dei valori della maternità, della vita, della procreazione responsabile. Senonché il fatto stesso che sia stata avvertita l’esigenza di dire queste cose, fa dubitare — di per sé — che dalla seguente disciplina esse sarebbero state sufficientemente chiare” (Carlo Casini e Francesco Cieri, La nuova disciplina dell’aborto, CEDAM, Padova 1978, p. 42).
(26) Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Convegno Al servizio della vita umana promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana, del 16-4-1989, n. 6, in L’Osservatore Romano, 17/18-4-1989.
(27) C. Casini, Come la madre vera di fronte a Salomone, cit., p. 160.
(28) M. Martinazzoli, Un velo sulle inquietudini, intervista a cura di Pierluigi Fornari, in Avvenire, 7-7-1988.
(29) Idem, L’intuizione della solidarietà, in M. Giudici (a cura di), La difesa della vita in Parlamento, cit., p. 10.
(30) Cfr. Avvenire, 29-12-1988.
(31) In Francia, per esempio, “nel 1985 è stato concesso un salario sostitutivo a uno dei genitori che smette di lavorare dopo la nascita del terzo figlio. Il salario è garantito per tre anni a condizione che il genitore abbia lavorato almeno due anni negli ultimi dieci. Quindi non è necessario che la sospensione dell’attività lavorativa sia immediatamente collegata alla nascita del figlio. L’ammontare è di 2500 franchi al mese (circa 550 mila lire). Poi vi sono dei contributi concessi per ogni figlio all’inizio di ogni anno scolastico, poco meno di 1000 franchi all’anno (circa 220 mila lire). Infine vi è la possibilità di dedurre le spese sostenute per pagare l’asilo nido o la baby sitter, entro certi limiti” (Gérard Calot, direttore del francese INED, l’Istituto Nazionale di Studi Demografici, Salario alle madri. Così la Francia ha frenato la crisi, intervista a cura di P. Fornari, in Avvenire, 17-11-1988).
(32) Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al convegno di studi su Il diritto alla vita e l’Europa, del 18-12-1987, nn. 1 e 3, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. X, 3, pp. 1445 e 1447.
(33) Cfr. Avvenire, 18-4-1989.
(34) Ibid., 26-1-1989.
(35) Cfr. Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Poli Bortone e altri, presentata il 9-2-1989, Provvedimenti in favore della maternità, in Atti Parlamentari, X legislatura, Camera dei Deputati, n. 3632,
(36) La proposta menzionata non è la prima in assoluto a essere stata presentata contro la legge n. 194, infatti il 30 dicembre 1987 l’on. Carlo Tassi, del MSI-DN, ha depositato una proposta di legge dal titolo Abrogazione della legge 22 maggio 1978 n. 194, sul cosiddetto aborto “libero e gratuito”, contenente un solo articolo, che disponeva la detta abrogazione, senza ulteriori specificazioni (cfr. Atti Parlamentari, Xllelegislatura, Camera dei Deputati, n. 2127).
(37) Cfr. il mio Dieci anni d’aborto in Italia, cit.
(38) “Dagli artt. 2, 30, 31, 32, 37 della Costituzione derivano per il legislatore ordinario due obblighi: a) stabilire in via generale il divieto di aborto; b) predisporre provvidenze di ogni genere a tutela della maternità […]. Ma il divieto esige la sanzione? La risposta deve essere affermativa, sol che si consideri il carattere del tutto anomalo delle leggi contenenti precetti non sanzionati, ed il valore del bene protetto. Una sanzione, in via generale, è quindi costituzionalmente richiesta. Non si comprende cosa resterebbe dei diritti inviolabili se questi potessero essere impunemente violati”: così in C. Casini e F. Cieri, op. cit., pp. 270-271; “Certamente è finito il ruolo dello strumento penale come indicazione di valore. Ne dobbiamo cercare altri, che devono essere misurati sempre, in ogni caso, sull’amore”: così lo stesso Carlo Casini, divenuto deputato, dieci anni dopo, nel dibattito alla Camera dell’estate del 1988 (Come la madre vera di fronte a Salomone, cit., pp. 167-168).
(39) Sull’orientamento della Corte Costituzionale italiana in tema di aborto, cfr. il mio Aborto, difesa della vita e Costituzione, in Cristianità, anno XV, n. 151, novembre 1987, aggiornato fino a quella data.
(40) Cfr. Corte Costituzionale, Sentenza 18-2-1975 n. 27, cit.
(41) Cfr. Avvenire, 9-2-1989.
(42) Pier Giorgio Liverani, La paura della verità, in Avvenire, 4-7-1989. La proposta di legge Norme per la tutela dell’embrione umano, cui ci si riferisce, è stata presentata alla Camera del Deputati con il n. 3486 il 22 dicembre 1988, d’iniziativa dell’on. Mino Martinazzoli e di altri parlamentari; cfr. il documento anche nel volume Il Parlamento europeo per uno statuto giuridico dell’embrione umano, cit., pp. 179-192.
(43) C. Casini e F. Cieri, op. cit., p. 118; “Il sistema, in realtà — si legge nello stesso testo a p. 19 —, non prevede soltanto una rinuncia alla sanzione penale. La semplice depenalizzazione comporta, in genere, la sostituzione delle pene criminali con sanzioni extrapenali, che nel caso dell’aborto non esistono. Neppure viene instaurato un regime di mera liceità, cioè di indifferenza dell’ordinamento. Infatti l’altra faccia della medaglia è costituita dall’obbligo posto a carico delle strutture pubbliche di eseguire l’interruzione della gravidanza […] e dall’obbligo posto a carico di soggetti anche estranei agli enti pubblici di contribuire a formare i presupposti formali. Il documento di cui all’art. 5, 4° comma, è titolo — recita l’art. 8 ultimo comma — per ottenere l’intervento, costituisce cioè la consacrazione formale del diritto di aborto”.
(44) Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Convegno Al servizio della vita umana promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana, cit.