ALFREDO MANTOVANO, Cristianità n. 256-257 (1996)
Delle centinaia di morti in disastri aerei si parla a lungo, come è giusto che sia. Delle migliaia di morti che insanguinano i conflitti civili in corso in varie zone del globo, a cominciare dal Burundi, nella lotta che contrappone Hutu e Tutsi, si dice molto meno: è una delle tante conferme che il principio di uguaglianza non vale per i mass media. Delle decine di migliaia di esecuzioni capitali e di eliminazioni fisiche di minori handicappati eseguite nella Repubblica Popolare Cinese ogni anno non si sa quasi nulla: qualche notiziola sulla stampa, e niente di più.
Le cifre del genocidio
Delle 138.379 condanne a morte eseguite in Italia nel 1995 non è di bon ton nemmeno fare cenno. Eppure tante sono state le vittime in un solo anno della legge peggiore mai approvata nel paese e applicata al popolo italiano: la n. 194 del 22 maggio 1978, che da circa vent’anni disciplina la pratica dell’aborto “legale”. Tale legge prevede, fra l’altro, che ogni dodici mesi il ministro della Sanità invii una relazione al Parlamento sull’attuazione delle sue norme: nella seconda metà del mese di luglio del 1996 l’on. Rosy Bindi ha provveduto all’adempimento, compilando l’elaborato, corredato da tabelle, grafici e valutazioni (1).
Il primo dato che emerge è quello appena sottolineato, pari al numero degli aborti eseguiti in Italia nel 1995 con il finanziamento e con l’assistenza delle strutture pubbliche; è un dato che il ministro della Sanità, che ha sempre presentato sé stessa come portabandiera del solidarismo cattolico nelle file della coalizione dell’Ulivo, liquida in modo asettico nelle prime righe della relazione, per passare ad altro: si limita a scrivere che vi sono state “138.379 IVG” (2). “IVG” — come tutti sanno — sono le iniziali di “interruzione volontaria della gravidanza”, che è una elegante circonlocuzione adoperata per non pronunciare il più impegnativo e traumatico termine “aborto”; il grado di asetticità è poi più elevato se si pronunciano le sole iniziali, che richiamano alla mente più i treni ad alta velocità francesi degli strumenti del ginecologo.
A quasi vent’anni di distanza dall’introduzione della legge n. 194, frutto maturo — insieme con la riforma sanitaria, la riforma della psichiatria, il nuovo regime dei suoli e il cosiddetto “equo canone”, introdotti tutti nel 1978 — del compromesso storico e della solidarietà nazionale, il punto nodale, sul quale i difensori a oltranza dell’aborto “legale” continuano a evitare imbarazzate risposte, riguarda l’identità del nascituro: se questi è un grumo di cellule, un’appendice della madre, una speranza di vita o un’aspettativa di esistenza, non vale la pena di parlarne. Ma allora è superfluo che il ministro della Sanità e le sue strutture sprechino tempo ed energie per presentare una relazione al Parlamento; non si producono relazioni per fare analisi comparative delle operazioni di appendicite o degli interventi di unghia incarnita.
Se invece — come la biologia e la medicina sostengono con argomenti inconfutabili (3) — fin dal momento del concepimento ci si trova davanti a un essere umano, dotato di patrimonio genetico completo, unico e irripetibile, nel quale è scritto se sarà uomo o donna e quale sarà il colore dei suoi capelli, la sua soppressione ha un solo nome: omicidio. E in Italia nel 1995 sono stati consumati 138.379 omicidi “legali”, dei quali lo Stato è il complice principale. Giova a poco confrontare questo dato con quello del 1994 — 142.657 aborti — e constatare che vi è stato un lieve decremento; sarebbe come se il responsabile di un Lager nazionalsocialista avesse fatto sfoggio di umanitarismo per aver eliminato in un anno qualche internato in meno rispetto ai dodici mesi precedenti. Forse impressiona di più il dato globale: dal 1978 a oggi le vittime dell’”IVG” in Italia sono state circa 3.500.000; è azzardato parlare di olocausto? È provocatorio far notare che si è oltrepassato il doppio della somma delle vittime italiane nelle due guerre mondiali? È assurdo sostenere che un così generalizzato disprezzo per la vita del più debole non può far meravigliare di nulla?
È iniziata, davanti alla Commissione Giustizia della Camera, la discussione su una proposta di legge mirante a punire lo sfruttamento sessuale dei minori, e cioè a impedire o a limitare pratiche fra le più turpi della “civiltà” nella quale siamo immersi; è lecito domandarsi se la violazione dell’integrità di tanti innocenti non rappresenti comunque un minus rispetto alla violazione della stessa esistenza in vita di tanti altri innocenti? Non è il caso di chiedersi se vi è connessione fra la banalizzazione dell’aborto — della quale è sintomo la sua riduzione a “IVG” e l’assenza di qualsiasi commento negativo da parte di un ministro che vanta la sua provenienza dalle file dell’associazionismo cattolico — e la banalizzazione del sesso e della violenza, anche a danno dei bambini?
Aborto, scelta “di cultura”
Non è tutto. La lettura della relazione dell’on. Rosy Bindi consente di riaffermare che la legge n. 194 è stata un fallimento anche quanto agli scopi sui quali i suoi promotori avevano insistito per ottenerne l’approvazione. L’on. Giovanni Berlinguer, che ne è stato uno dei relatori alla Camera prima della sua approvazione nel 1978, scriveva pochi giorni dopo la sua entrata in vigore, che “la legge si propone […]: di azzerare gli aborti terapeutici; di ridurre gli aborti spontanei; di assistere quelli clandestini. Si propone inoltre di favorire la procreazione cosciente, di aiutare la maternità, di tutelare la vita umana dal suo inizio” (4). Si può provare a fare il bilancio dell’effettivo conseguimento di tali scopi sulla base del documento del ministro della Sanità?
Gli “aborti terapeutici” sono quelli “legali” tout court, perché l’articolo 4 della legge n. 194 include le varie circostanze la cui semplice evocazione autorizza a ricorrere all’intervento interruttivo sotto un’unica e vaga indicazione di salute, considerata non come assenza di patologie rilevanti, ma come benessere fisiopsichico inteso in senso ampio. Che ancora oggi gli aborti detti “terapeutici” siano 138.379, che dal 1978 la media annua sia stata di circa 200. 000 unità, e che per ogni 4 nati vivi vi sia un aborto volontario conferma che la pratica abortiva è diffusa capillarmente e proprio per questo non è spiegabile in modo esclusivo, e nemmeno prevalente, da situazioni eccezionali o da difficoltà insuperabili. Essa è invece, nonostante le proclamazioni normative di segno opposto, uno strumento di controllo delle nascite; né può sostenersi che sarebbe meno ampia se la contraccezione artificiale fosse più conosciuta e praticata, perché è vero esattamente il contrario: scrive l’on. Rosy Bindi che, secondo “[…] indagini dell’Istituto Superiore di Sanità, di altri istituti di ricerca e di alcune regioni […] almeno nel 70-80% dei casi, il ricorso all’aborto volontario avrebbe la finalità di interrompere una gravidanza non desiderata intervenuta a seguito del fallimento o di un uso scorretto dei metodi per il controllo della fertilità” (5).
Il profilo medio della donna che abortisce è del tutto coerente con queste conclusioni: si tratta infatti di una gestante che nella gran parte dei casi è coniugata — 57.5%, con punte del 72.8% al Sud —, non separata né divorziata — soltanto il 5.1% —, in età compresa fra i 25 e i 34 anni, con sufficiente livello di istruzione — il 48.5% ha il diploma di scuola media inferiore, il 32.3% il diploma di scuola media superiore, e soltanto l’1.5% non ha alcun titolo di studio — e con non più di due figli: in particolare, il 37.9 % non ha alcun figlio, il 20.3 % ne ha uno, il 27.9% ne ha due. Pertanto è una donna che si trova in condizioni ottimali, per lo meno sotto questi profili, per accogliere il nascituro. Si legge nella relazione di “[…] un andamento inversamente proporzionale […] tra ricorso alla IVG e numero dei figli” (6), e che “[…] è decisamente più basso il tasso di abortività nelle donne che hanno già partorito tre figli e scende ulteriormente, in modo netto, in quelle che ne hanno 4 o più” (7): dunque, contro i luoghi comuni di vent’anni fa, che avevano costituito i cavalli di battaglia della campagna in favore dell’aborto, se una donna ha deciso di non aver figli lo fa a ogni costo, anche ricorrendo all’intervento abortivo, mentre se il suo atteggiamento è già stato di accoglienza della vita è più propensa a confermarlo all’arrivo di una nuova creatura.
Per concludere sul punto: se quelle riportate sono le caratteristiche della gestante che pratica con maggior frequenza l’aborto, quest’ultimo non è, nella gran parte dei casi, una “dolorosa necessità”, ma è un’opzione culturale, favorita, avallata e sostenuta finanziariamente dallo Stato. Oggi lo stesso Stato da un lato elimina progressivamente l’assistenza sanitaria e la gratuità dei farmaci anche a chi ne ha reale necessità, con “strette” finanziarie sempre più pesanti, dall’altro non rinuncia a stanziare i fondi per il genocidio sistematico in atto da due decenni.
Aborti clandestini e degli extracomunitari
E gli altri obiettivi enunciati a suo tempo dall’on. Giovanni Berlinguer? La legge 194 ha fallito pure sul versante della lotta alla clandestinità, se è vero, come scrive il ministro della Sanità, che l’aborto clandestino avrebbe raggiunto nel 1994 le 45.000 unità: l’uso del condizionale è d’obbligo per l’impossibilità di disporre di dati precisi. Qual’è poi la maggiore coscienza della procreazione, che la legge n. 194 doveva favorire, se, come si osserva nella relazione, “oltre un quarto delle donne che ricorrono alla IVG vi hanno già fatto ricorso una o più volte in occasioni precedenti” (8)? L’area della recidività riguarda, per l’esattezza, il 26.3% delle gestanti che hanno abortito nel 1994, con punte allarmanti del 41.7% in Puglia e del 35.3% in Sicilia. Infine, con riferimento agli intenti dell’on. Giovanni Berlinguer, è inutile spendere altre parole sull’aiuto alla maternità e alla tutela della vita umana, perché la legge n. 194 ha conferito il “diritto” di sopprimere ciò che fa diventare madre, e quindi di violare irreparabilmente la vita umana.
Ma non basta. Un profilo preoccupante della banalizzazione del ricorso all’aborto è l’assenza della fase della dissuasione, che pure la legge prevede: secondo quest’ultima, quando la gestante si rivolge al consultorio, o a una struttura sociosanitaria, o al proprio medico di fiducia, costoro dovrebbero indurla a riflettere, prospettando le possibili alternative all’aborto. Per verificare se ciò accade realmente è sufficiente constatare che nel 1994 il 75% degli aborti sono avvenuti dietro semplice certificazione del medico di fiducia o del servizio ostetrico-ginecologico: il che vuol dire che la “dissuasione” è coincisa con il rilascio dell’attestazione di gravidanza, necessaria per sottoporsi all’intervento. Solo il 23.4% delle donne è passata dai consultori: non che, di regola, i dipendenti di tali strutture facciano qualcosa di più rispetto al medico; il fatto è che andare dal proprio medico è più comodo. Manca poi qualsiasi statistica, che pure potrebbe e dovrebbe essere compilata, con tutte le garanzie di anonimato per le interessate, relativamente al numero delle gestanti che hanno rinunciato ad abortire perché “dissuase”: ma è facile immaginarne i risultati, qualora fosse eseguita.
Il non funzionamento delle strutture pubbliche, che dovrebbero aiutare e sostenere le situazioni di effettiva difficoltà, è rivelato ulteriormente da un dato che può apparire marginale, e che invece deve far riflettere: “[…] le IVG effettuate da donna residente all’estero — si legge nella relazione — sono passate, secondo un trend di incremento costante, da 461 casi nel 1980 a 1718 casi nel 1994″ (9). Chi parla di solidarietà e di cultura dell’accoglienza verso gli immigrati provenienti da zone sottosviluppate non è poi in grado di offrire alle gravidanze delle extracomunitarie “aiuto” diverso dall’aborto; la mano tesa dell’Italia a chi viene dall’estero con un carico di problemi superiore al nostro è il lettino dell’”IVG”!
Prospettive
La relazione del ministro della Sanità si chiude con l’enunciazione di alcune buone intenzioni; eccone un saggio significativo: “[…] una considerazione anche più ampia delle strategie di prevenzione dell’aborto volontario, nel quadro di una più complessiva politica di tutela e di promozione della vita e della sua autentica e piena dignità, a cominciare dall’età infantile e dall’età evolutiva, è auspicabile venga fatta propria dalle stesse forze politiche e dalle rappresentanze parlamentari cui non mancherà il sostegno e la sollecitazione attenta del Governo” (10).
Nulla di più e di preciso in tema di prospettive di aiuto alla maternità in genere, e a quella difficile in particolare; nulla quanto a sostegni alle famiglie; nulla a proposito di una seria educazione alla vita; nulla in favore delle associazioni di volontariato impegnate nell’accoglienza della vita. Chissà se i cattolici, e in particolare i vertici dell’associazionismo cattolico, che il 21 aprile 1996 hanno dichiarato apertis verbis di preferire l’Ulivo, sono entusiasti di impegni così vaghi. Chi dell’Ulivo è avversario nel Parlamento e nella realtà nazionale non può non raccogliere l’auspicio del ministro e promuovere “una più complessiva politica di tutela e di promozione della vita” (11), partendo dal presupposto — ovvio, ma oggi negato di diritto e di fatto — che la vita non può essere promossa quando la si sopprime.
Alfredo Mantovano
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(1) Cfr. Relazione del ministro della Sanità sulla attuazione della legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza (Legge 194/78). Dati preliminari 1995. Dati definitivi 1994.
(2) Ibid., p. 1.
(3) Cfr., fra gli altri, Elio Sgreccia, Manuale di bioetica, I. Fondamenti ed etica biomedica, nuova ed. aggiornata e ampliata, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 361-385.
(4) Giovanni Berlinguer, La legge sull’aborto, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 168.
(5) Relazione cit., p. 2.
(6) Relazione, cit., p. 3.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Ibid., p. 4.
(10) Ibid., pp. 4-5.
(11) Ibidem.