Dopo la salita al potere dei talebani lo scorso agosto, la situazione politica, sociale e economica è diventata insostenibile.
di Silvia Scaranari
«Non abbiamo da mangiare. Ho dovuto vendere mia figlia per trentamila afgani (250 euro)». Le urla di una giovane madre emergono da un gruppo di donne accalcate e strette dalla polizia che cerca di disperderle. Sono donne afghane, che urlano la loro disperazione. Dopo la presa del potere da parte dei talebani, lo scorso agosto, la situazione del Paese è diventata drammatica per la maggior parte dei 35 milioni di persone che vivono su un immenso territorio di 652.000 kmq, più del doppio dell’Italia. Non solo l’economia è allo stremo – per cause interne (allontanamento delle donne da molti posti di lavoro, requisizione forzata di proprietà dei “nemici”), per cause esterne (l’embargo dell’Occidente), ma anche per aspetti politici ed umanitari.
La situazione è talmente grave da aver obbligato i Paesi occidentali – che non riconoscono il governo dei talebani – a sedersi a fine gennaio ad un tavolo di trattative a Oslo per affrontare l’emergenza. «L’incontro – ha prontamente precisato la ministra degli esteri norvegese Anniken Huitfeldt – non costituisce una legittimazione né un riconoscimento. Ma dobbiamo parlare con le autorità che governano di fatto il Paese» perché la situazione si è fatta insostenibile.
Oltre alla fame, che attanaglia milioni di persone e ha già fatto vittime, soprattutto bambini, sono i diritti umani ad essere cancellati dalla vita del Paese. I talebani, nei giorni della vittoria e dell’esultanza per il ritiro delle forze amaricane, avevano garantito che non ci sarebbero state repressioni e vendette verso i collaboratori del passato regime, anzi, avevano annunciato un’amnistia generale. Ad oggi, invece, continuano ad essere registrati arresti, incarcerazioni e condanne a morte. La missione Onu in Afghanistan ha continuato a ricevere denunce credibili di omicidi, sparizioni forzate e altri reati contro chi non è riuscito a fuggire con gli ultimi aerei occidentali.
I diritti basilari delle donne sono stati conculcati da una lettura e interpretazione del Corano e della Sunna tra le più restrittive possibili. Allontanate da molti lavori, è loro vietato fare sport e circolare da sole, oltre ovviamente all’obbligo rigoroso della copertura integrale del corpo. Anche se si sono riaperte alcune scuole, almeno di istruzione primaria, sono stati divisi rigorosamente i percorsi di studio fra maschi e femmine. Pochi giorni fa gli studenti hanno potuto rientrare nelle università diLaghman, Kandahar, Nimroz, Nangarhar, Helmand e Farah, ma in settori rigorosamente separati.
In questo contesto un diritto umano fortemente violato è quello della libertà religiosa. Subito si è temuto che i non musulmani potessero entrare nel vortice della discriminazione, e a quasi sei mesi le paure sono diventate certezze.
Secondo la World Watch List 2022 (Wwl), la nuova lista dei primi 50 Paesi dove più si perseguitano i cristiani al mondo, presentata a metà gennaio a Roma, nella sala stampa della Camera dei deputati, da Porte Aperte/Open Doors (organizzazione internazionale da oltre 60 anni impegnata a sostenere i cristiani perseguitati nel mondo), il primo posto spetta all’Afghanistan, che ha in questo settore superato la Corea del Nord. Occorre ricordare che la libertà religiosa non esisteva neanche prima del governo talebano, ma si viveva in un regime di sostanziale tolleranza. Oggi, invece, la “caccia al cristiano” è ripresa in modo sistematico: «gli uomini cristiani vanno quasi certamente incontro alla morte, se la loro fede viene scoperta; le donne e ragazze possono evitare la morte, ma per essere date in moglie come ‘bottino di guerra’ a giovani combattenti talebani», precisa il rapporto.
La situazione del Paese ha reso più instabili le relazioni con il vicino Pakistan, nonostante si sia tenuto a Islamabad un tavolo di lavoro per trovare una pacifica convivenza. Il governo talebano non riconosce la linea Durand, i confini con il Pakistan sanciti da un accordo del 1893, ratificato dal trattato di Rawalpindi del 1919, perché firmato tra i britannici e l’allora emirato afghano. Il Pakistan, invece, già dal 2017 ha avviato la costruzione di un muro per delimitare il confine e rendere più difficile il passaggio di jihadisti e contrabbandieri tra i due Paesi.
Il 2 gennaio un portavoce del ministero talebano della Difesa ha criticato il progetto di recinzione, dicendo che il Pakistan non ha «alcun diritto di erigere filo spinato lungo la linea Durand e separare le tribù che vivono su entrambi i lati della linea». La linea Durand e l’erigendo muro dividono la regione del Korasan pakistano da quello afghano, la zona spesso controllata dal ISKP, lo Stato Islamico del Korasan, nelle cui fila militano molti giovani afghani istruiti e appartenenti alla classe media, ai quali si aggiungono gruppi di jihadisti esperti provenienti da al-Qaeda. Pur non alleati dei talebani, anzi da questi combattuti, guardano al successo islamico in Afghanistan come un modello per rianimare l’agonizzante prospettiva dell’Isis.
La presenza di gruppi terroristici dovrebbe essere combattuta di comune accordo fra i due Paesi. Ai talebani i miliziani dello Stato Islamico danno fastidio perché contraddicono il loro programma di sicurezza, fine degli attentati ed ordine. Al Pakistan creano problemi perché minano gli accordi con l’Occidente, a cui ha promesso di combattere in ogni modo il jihadismo internazionale sul suo territorio. Ma non sempre le ragioni ragionate sono quelle che vincono, e in questi giorni truppe afghane hanno provveduto a distruggere tratti del muro pakistano, con conseguenti proteste che non si sono limitate a parole, ma sono state accompagnate da lanci di mortaio.
“Zona calda”, ma parafrasando le misure anti-Covid potremmo dire “arancione”, con forte rischio di diventare rossa, soprattutto mentre l’Occidente guarda ad un confine già infiammato come quello ucraino.
Martedì, 15 febbraio 2022