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Alleanza Nazionale, la Repubblica Sociale Italiana e i conti con la storia

28 Febbraio 1998 - Autore: Giovanni Cantoni

Giovanni Cantoni, Cristianità n. 273-274 (1998)

 

Articolo anticipato, senza note e con il titolo redazionale I conti con la Storia, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLVI, n. 295, 16-12-1997, p. 7.

 

Alleanza Nazionale, la Repubblica Sociale Italiana e i conti con la storia

 

Fra i temi dell’attualità politica, dalla serata di giovedì 11 dicembre 1997, s’è inserito di prepotenza quanto detto dall’on. Gianfranco Fini, relativamente alla Repubblica Sociale Italiana, nel corso della trasmissione televisiva Moby Dick, condotta da Michele Santoro sull’emittente Mediaset Italia 1. Dopo l’episodio non sono mancate reazioni a caldo di diverso tono, da quelle di coloro ai quali nessuna dichiarazione dell’avversario — politico e non — sembra mai sufficiente e il cui orizzonte, implicito ma non troppo, consiste semplicemente nel chiedere il suicidio di tale avversario, a quelle di coloro che hanno esternato indignazione a fronte della commissione di un ipotetico tradimento; quindi prese di posizione meditate e articolate, come quelle comparse il 14 dicembre a firma di Alfredo Mantovano (1) e di Marzio Tremaglia (2).

Accanto a queste reazioni ve n’è stata almeno una che si pone su un piano diverso e, per questo, meritevole di segnalazione e d’attenzione. Mi riferisco all’editoriale di Paolo Franchi I conti con Salò non si fanno così, pubblicato venerdì 12 dicembre sul Corriere della Sera (3).

Quello che indico come differenza qualitativa sta nella considerazione secondo cui «[…] si comincia ad avvertire un crescente fastidio per la via scelta da tanta parte della politica (sia chiaro: non solo Fini), dell’informazione, della cultura, per tirare le somme del secolo grande e terribile che stiamo per lasciarci alle spalle, il secolo di Auschwitz e del Gulag, delle brigate nere e delle foibe. Non abbiamo diritto, a quanto pare, né a un Furet né, sull’opposto versante, a un Hobsbawm. Soprattutto non abbiamo diritto a guardar dentro il passato delle nostre illusioni, delle nostre speranze e dei nostri orrori animati dal senso del tragico, dal pudore, e insieme dalla volontà feroce di scrivere tutte le pagine rimaste colpevolmente bianche. Altro che rivoluzione delle coscienze. Il passato prende le sembianze di un gigantesco supermarket cui attingere liberamente, a piene mani, per rafforzare questo o quello sdoganamento. Via la falce e il martello? Via la falce e il martello, non ci eravamo poi così affezionati, non a caso da anni calziamo le Timberland. Via Salò? Via Salò, in fondo i balilla che scelsero di bruciarvi la propria giovinezza contano quel che contano. E se in tv o sui giornali ci fanno la domanda “forte”, possiamo sempre rispondere che mai e poi mai i nostri genitori comunisti, in cuor loro, sperarono nel trionfo di Giuseppe Stalin; che mai e poi mai, in cuor loro, i nostri papà repubblichini sperarono che vincesse Adolfo Hitler, magari con l’arma segreta».

Poiché condivido la denuncia per cinismo o per malizia degli operatori della riduzione della storia a un supermarket cui attingere per procedere a questo o a quello sdoganamento partitico, vengo a considerazioni collegate a tale denuncia.

In primo luogo ritengo si debba doverosamente distinguere fra chi formula le domande e chi a esse risponde perché non le può eludere: per esempio, quale immagine avrebbe dato, di sé stesso e della forza politica che guida, l’on. Gianfranco Fini se, eventualmente preavvertito circa le tematiche che sarebbero state sollevate nel corso della trasmissione cui era stato graziosamente invitato, avesse rifiutato di partecipare alla trasmissione stessa oppure, partecipandovi, avesse rifiutato di rispondere alle domande come sono nate o sono state provocate nel corso di essa?

Dando prova della cosiddetta «beata ingenuità» qualcuno potrebbe rispondere al mio quesito in questi termini: «Non gliene sarebbe derivato nessun danno, come non è derivato danno di sorta al dottor Antonio Di Pietro per il fatto di non aver accettato pubblico dibattito con il suo principale concorrente al seggio senatoriale del Mugello». Risposta sbagliata — dico io — perché l’audience di una trasmissione televisiva non è l’elettorato di un collegio senatoriale, tanto meno — felicemente — quello di un collegio controllato voto per voto dalle strutture dei partiti nati dal parto gemellare del vecchio Partito Comunista Italiano. Quindi, se vi sono uomini politici che desiderano vengano fatte domande «forti» e che non si dispiacciono di essere destinatari di tali domande, vanno distinti con cura da quanti — sempre uomini politici — sono semplicemente oppure, addirittura, obbligatoriamente destinatari di tali domande, per non dire — con formula più realistica — che ne sono i naturali bersagli. I primi evidentemente, trattano la storia come «politica al passato» (4), strumento per operazioni politiche di respiro maggiore o minore, strategiche o tattiche, ma sempre operazioni politiche cui la storia diventa funzionale: in altri termini, come la politica volontaristica non rispetta il reale in genere, così non rispetta il reale storico, ma lo piega al proprio interesse dell’ora. Inoltre, i bersagli vanno distinti con la maggior precisione dai tiratori, senza lasciarsi fuorviare dalla considerazione puramente descrittiva secondo cui tiratore e bersaglio fanno parte del sistema «tiro a segno», all’interno del quale già descrittivamente dovrebbe apparire con chiarezza che non hanno la stessa funzione perché non sono fungibili.

Conviene in secondo luogo distinguere le domande in domande aperte e domande chiuse: le prime tollerano risposte articolate, le seconde semplicemente un sì o un no, oppure l’equivalente di un’affermazione o di una negazione, dal momento che tutte le premesse sono date per certe e perciò il quesito è assolutamente anelastico. La «grossolanità» della risposta è quindi precostituita dalla «grossolanità» della domanda; e all’interrogato che non si può sottrarre alla domanda non si può attribuire responsabilità di sorta per relazione alla «grossolanità» della risposta. Perciò, posta la formulazione del quesito, la formulazione della risposta data dall’on. Fini era l’unica che trasmettesse la lettera della tesi che da sempre lo stesso uomo politico viene enunciando, cioè la condanna del totalitarismo.

Quindi — ancora — non si può classificare fra i responsabili del degrado della politica a spettacolo chi non si può considerare neppure oggettivamente tale: infatti, lieto per certo — con altri — della «fine delle ideologie», il presidente di Alleanza Nazionale era ed è nell’impossibilità d’imporre il passaggio dal dibattito ideologico alla ricognizione accurata dei fatti e al confronto sereno delle idee; perciò si trova nella necessità d’accettare, almeno come premessa obbligata, il passaggio non dal dibattito al dialogo, ma piuttosto il degrado dello stesso dibattito ideologico al chiacchiericcio umorale deltalk show.

Vengo ora alla «materia» del contendere, anche se la «forma» è tutt’altro che indifferente e insignificante; e per materia non intendo la Repubblica Sociale Italiana ma, prima ancora, il genere cui l’oggetto appartiene. Cioè la materia è un «fatto» storico, neppure un semplice «avvenimento» storico, quindi la realtà più complessa da descrivere e, perciò, più difficile da giudicare; quella in cui gli elementi condizionati e condizionanti hanno il maggior rilievo e gli elementi causali sono meno facilmente identificabili. E a proposito di un fatto storico non si chiede neppure un giudizio del tipo: che cosa Tizio pensi del pensiero politico a tale fatto soggiacente o di suoi tratti istituzionali e così via, ma si pretende, con la violenza e l’arroganza derivanti dall’impugnare «il coltello dalla parte del manico», cioè dal controllo del microfono, che ci si schieri come una tifoseria sportiva. Così viene formulata la domanda chiusa e diabolica: se si preferisca, nel 1997, la vittoria o la sconfitta della RSI, soprattutto in considerazione dell’alleanza con il Terzo Reich. Se è vero, come qualche interprete del fenomeno fascista sostiene, che a renderne possibile la realizzazione fu — fra l’altro — il timore suscitato nella pubblica opinione italiana dal gran numero di agitazioni anche violente, di scioperi, di occupazioni di terre e di fabbriche prodottosi negli anni 1919 e 1920 — quasi proseguimento e incremento della Settimana Rossa del 1914 e delle agitazioni nel Parmense del 1908 — (5), perché non perseguire qualche protagonista di tali moti, o chi se ne fa vessillo, per la sua colpa storica? Infatti, se i rossi non avessero spaventato gli italiani, questi non sarebbero diventati neri! Semplice, no? E su questa via si può proseguire fino alla RSI e oltre, ben oltre. Fino all’affermazione di Lucia Annunziata, durante la trasmissione in esame, secondo cui l’on. Fini non deve tentare il dialogo con la comunità ebraica, così — con buona pace del multiculturalismo e dei suoi in altre occasioni vantati benefici sociali — semplicemente teorizzando l’apartheid.

Dunque, ben dice conclusivamente Paolo Franchi che «i conti con la storia» non si fanno così, anche se — aggiunge — «non si può aprioristicamente escludere che per questa via, sdoganamenti a parte, vengano riscoperti o reinventati i valori comuni della nostra memoria storica, onde consegnarli ai figli e ai nipoti». Anch’io non lo voglio escludere aprioristicamente perché l’eterogenesi dei fini rivela la magnifica, conturbante presenza della Provvidenza nella storia; ma escludo che chi opera promuovendo un approccio «da tifoseria» ai fatti storici e a esso costringe con la pratica della domanda chiusa persegua tale riscoperta o rinvenimento. Infatti, per tale riscoperta e per tale rinvenimento servono, quanto alla storia, fatica appunto storica, scavo d’archivio.

E a questo punto non mi risparmio di notare che questo lavoro storico a tutt’oggi non ha potuto contare su significativi contributi da parte di chi dice di amare un certo passato e i suoi protagonisti, e di volerne conservare e redimere la memoria. È vero che si ama il nonno, accusato di malefatte, se non si lavora per ricostruirne un’immagine verosimile e credibile, e ci si limita a gridarne il nome e a stracciarsi le vesti quando viene offeso? O si copre con pannicelli sentimentali la propria pigrizia, quando non il proprio timore — frutto per certo comprensibile anche di preponderanti condizionamenti ambientali — che la prova dei fatti sia sfavorevole, come fa sospettare la vistosa latitanza storiografica di una certa parte politica? Perché, piuttosto che raccogliere i frutti della serietà scientifica o degli scrupoli di avversari ideologici, non verificare di persona, quindi «senza pregiudizi», la fondatezza delle proprie certezze, dette inutilmente incrollabili?

Ma i valori comuni non sono solo storici; anzi, ve ne sono di importantissimi che non traggono particolare beneficio dall’esposizione della loro storia. Perciò, se qualcuno mi dicesse che argomento come argomento perché temo le domande chiuse, quelle «dirette», quelle «alle quali non ci si può sottrarre», lo prego di precedermi, per invitarmi a imitarlo, per esempio, rispondendo ad alta voce, in pubblico, al quesito preventivo a ogni discorso serio sulla convivenza civile fra gli uomini: «È favorevole o contrario all’aborto?», cioè alla soppressione di un essere umano innocente. E resto in attesa della risposta.

Giovanni Cantoni

 

Note:

(1) Cfr. ALFREDO MANTOVANO, La storia, la memoria, la politica, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, 14-12-1997.

(2) Cfr. MARZIO TREMAGLIA, A chi serve abiurare Salò, in il Giornale, 14-12-1997.

(3) Cfr. PAOLO FRANCHI , I conti con Salò non si fanno così, in Corriere della Sera, 12-12- 1997. Tutte le citazioni senza rimando sono tratte da questo articolo.

(4) Cfr. MIHAIL GELLER e ALEKSANDR NECRIC’, Storia dell’URSS dal 1917 a Eltsin, trad. it., Bompiani, Milano 1997, p. 5: «[…] il primo storico marxista russo, M. N. [Mihail Nicolaevic] Pokrovskij, sosteneva che la storia è politica rivolta al passato».

(5) Cfr. RENZO DE FELICE, Fascismo, in Enciclopedia del Novecento, vol. II, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1977, pp. 911-920.

 

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