di Oscar Sanguinetti
Un guerrigliero italiano contro Napoleone
Il maggiore Branda de’ Lucioni e l’«Ordinata Massa Cristiana»
Branda de’ Lucioni nasce nel 1740 a Winterberg (oggi Vimperk), nella Boemia meridionale, dove il padre Giuseppe (?-prima del 1753), tenente dell’esercito imperiale, presta servizio di guarnigione. La famiglia Lucioni è originaria di Abbiate Guazzone, nei pressi di Tradate, in provincia di Varese. La madre, Francesca Uslenghi (?-1831), di Castiglione Olona, è figlia di un collega di Giuseppe. I due si sposano l’11 febbraio 1734 nella chiesa di San Protaso ad Monachos, nel centro di Milano. Un fratello di questi, Pietro (1699-?), intraprende la carriera ecclesiastica, divenendo parroco di Limido Comasco. Prete diventa anche un cugino, Giuseppe Antonio (1752-?). Ma non basta: anche il fratello maggiore di Branda, Francesco Maria Clemente, nato nel 1737, si farà sacerdote. E ancora: il fratello della madre, Paolo Antonio Uslenghi (1704-1781), di Tradate, risulta anch’egli prevosto a Dervio (Como).
Date queste premesse familiari, non stupisce che al piccolo venga imposto il nome di un cardinale, Branda da Castiglione (1350-1443), gloria dell’omonima cittadina. La tradizione della famiglia Lucioni di donare figli alla Chiesa continuerà: oltre allo zio e al cugino, anche un figlio di Branda, Francesco (1789-1855) — il tenente Lucioni ha sposato nel 1773 a Gallarate Maria Teresa Landriani di Trezzo (1753-1831), figlia del conte Pietro Paolo, patrizio milanese: per questo aveva premesso il «de’» al cognome —, diviene sacerdote nel 1810 e sarà poi parroco a Pessano, nelle vicinanze di Monza, dal 1831 al 1849. È nato «in oppido Tuchoviae», ossia nella fortezza di Tuchów, nei pressi di Tarnow, nella Galizia polacca allora austriaca, dove il reggimento del padre è di stanza.
I documenti relativi alla sua vita privata che ci restano testimoniano tutti il carattere collerico e un po’ rodomontesco dell’ufficiale. Dopo essersi imparentato con una delle più cospicue famiglie dell’aristocrazia milanese, De’ Lucioni decide di lasciare il servizio attivo. Tuttavia gli anni successivi al matrimonio non saranno sereni: l’ex ufficiale sarà afflitto da questioni di eredità che lo faranno entrare in contrasto con gli zii Giovan Battista e don Paolo Antonio. Nel 1774 sarà addirittura imprigionato nel carcere militare del presidio di Milano, al Castello, per avere percosso quest’ultimo durante un acceso alterco. Fra il 1774 e il 1776, poi, sarà colpito dalla morte in tenera età di tre figli.
Queste traversie nel 1779 lo indurranno a rientrare al suo antico reggimento e a ripartire per l’Europa centrale. La moglie Maria Teresa lo segue e nel 1786 e nel 1789 gli darà a Tuchów il quarto e a Winterberg il quinto figlio.
Lucioni ha iniziato la carriera militare a diciassette anni, probabilmente come alfiere; nel 1770 è sottotenente nei ranghi degli ussari imperiali, reparti di cavalleria leggera, armata solo di moschetto, pistola e sciabola. Nel 1773 è tenente e nel 1783 viene nominato «zweite Rittmeister», capitano in seconda, con il comando di uno squadrone, del reggimento di ussari «Déak», fondato il 20 febbraio 1696 dal colonnello Paul Déak von Mihály, già al servizio nella cavalleria del re di Francia, composto in maggioranza da ungheresi e di cui è «Inhaber», proprietario, come si usa allora, il conte alsaziano Dagobert Sigmund de Wurmser (1724-1797), anch’egli antico soldato di Luigi XV (1710-1774). Con la riforma generale degli eserciti imperiali nel 1798 il Wurmser diverrà il Reggimento degli Ussari Regolari «Tersztyánszky» n. 8 e sarà posto al comando del conte tedesco luogotenente-feldmaresciallo Friedrich August Joseph von Nauendorf (1749-1801), poi sotto il luogotenente-feldmaresciallo austriaco barone Michael von Kienmayer (1756-1828).
Nel 1789 Lucioni è nominato «primo Rittmeister» e poco dopo scoppia la guerra contro Napoleone. Nella campagna del 1796-1797 gli ussari di Wurmser combattono a Brescia, a Desenzano, a Peschiera, a Salò, all’assedio di Mantova e a Caldiero contro i francesi guidati da Napoleone Bonaparte (1769-1821). E continueranno a combattere sotto von Nauendorf anche nel 1799, nel 1809 e nel 1813-1815.
Secondo un suo acerrimo antipatizzante, il «giacobino» piemontese, nonché futuro storico della Rivoluzione italiana, Carlo Botta (1766-1837), «l’imposteur» Branda Lucioni sarebbe stato un capo dell’insorgenza pavese del 23-25 maggio 1796, ma la circostanza, ripresa da numerosi storici, ancorché plausibile, non è finora confermata dai documenti.
Nel 1799 Aleksandr Vasil’evič Suvorov (1729-1800), anziano generale ucraino al servizio dello zar, autentico genio di guerra, è posto a capo dell’esercito della seconda coalizione anti-francese, composta da Impero austriaco, Russia, Inghilterra e Turchia, che dovrà operare contro l’Italia settentrionale satellizzata dalla Repubblica Francese.
A pochi giorni dall’apertura delle ostilità, fra il 26 e il 28 aprile, sul confine con la Repubblica Cisalpina, a Cassano d’Adda, le divisioni agli ordini del generale austriaco conte Paul Kray von Krayow (1735-1804) infliggono ai francesi una sconfitta decisiva. In pochi giorni la Repubblica crolla, a Milano vengono restaurate le antiche autorità dello Stato e della Città, la Lombardia torna a far parte della Corona asburgica, mentre i cisalpini più accesi fuggono verso il Piemonte e la Francia. La riconquista alleata del Piemonte, come già in Lombardia, è preceduta e accompagnata da una vasta e spontanea insorgenza delle popolazioni rurali, sollecitata, ma non determinata, dai proclami imperiali.
L’epopea contro-rivoluzionaria del maggiore Lucioni si colloca — salvo l’eventuale precedente pavese — nell’esiguo spazio di tempo che intercorre fra l’aprile e l’autunno del 1799. L’esordio è un ardito raid che una pattuglia di ussari al suo comando compie entro le mura di Milano nella mattina del 28 aprile 1799, quando in città sono ancora numerosi i reparti francesi in ritirata. Riferisce un cronista milanese: «alle ore 9 circa entrò da Porta orientale il Maggiore Luccioni nostro milanese con 6 reparti austriaci. Egli con quattro reparti si fermò sul corso di Porta Orientale e due di galoppo con pistola montata arrivarono sino alla piazza del Duomo e lì ristettero innanzi il Caffè detto del Mazza». Pietro Custodi (1771-1842), repubblicano novarese, dal canto suo, annota che «[…] alle 9 ½ del 9 Fiorile anno VII fecero il loro ingresso in Milano due ussari tedeschi che scorsero la città sollevando l’entusiasmo popolare […] e tosto furono abbattuti dal basso po.[polo] e specialmente dai facchini gli alberi di libertà, la statua di Bruto fu atterrata». Secondo entrambe le fonti Lucioni si fa ricevere dall’arcivescovo e dai patrizi della deposta municipalità. Ma la sosta milanese di Lucioni è di breve durata.
Nel primo pomeriggio del 29 aprile il drappello di ussari da lui comandato fa la sua comparsa a Boffalora, fra Magenta e Novara, sulla sponda sinistra del Ticino: sono già con lui contadini armati. L’astuzia del capo insorgente traspare fin da questo momento. Dallo stesso cronista apprendiamo infatti che «il comandante Branda Lucioni del luogo di Abbiateguazzone […] ordinò di accendere fuochi per tutta la riva del Ticino e stare là in guardia gruppi di 12 paesani, dandosi la muta. Il mercoledì mattina, 1° maggio, essendosi notati tentativi di passare il fiume da parte dei francesi per venire a depredare i nostri paesi, il Lucioni ordinò di suonare campane a martello, incominciando da Cuggiono e poi negli altri paesi. Portatisi tutti colle armi lungo il Ticino, costretti furono i circa dieci mila francesi a partire e precipitare la loro fuga verso Vercelli».
A mano a mano che attraversa le varie municipalità piemontesi Lucioni lancia proclami all’insorgenza in nome dell’imperatore Francesco II (1768-1835) e del re di Sardegna Carlo Emanuele IV (1751-1819), esortando a creare reparti di volontari, secondo lo schema consueto della «leva a massa» tipico delle tattiche di guerra dell’Antico Regime. Le comunità rispondono generosamente, inviando ed equipaggiando i giovani che hanno esperienza d’armi. Nasce così un esercito semi-regolare, la Ordinata Massa Cristiana, inquadrata e addestrata da Lucioni e dai suoi ussari. La Massa dilaga in gran parte del Piemonte, ingrossando sempre di più le sue fila, arrivando in poco tempo a contare — nonostante la ferma temporanea e la disciplina relativa — dai sei ai diecimila uomini.
Non appena varcato il Ticino, Lucioni solleva i contadini del Novarese e del Vercellese e «realizza» Novara, Vercelli e Santhià. Poi si spinge in direzione del Biellese e di lì a nord verso Ivrea e nel Canavese, mentre preme nel contempo su Trino, Pontestura e Chivasso. A Ivrea Lucioni e la Massa Cristiana vengono accolti con tutti gli onori — cui Lucioni è particolarmente sensibile — dal vescovo mons. Giuseppe Ottavio Ercole Pochettini di Serravalle (1769-1803). A metà maggio la Massa è già alle porte della capitale del soppresso regno sabaudo: fin dal 5 maggio Lucioni ha posto il suo quartier generale a Chivasso, intimando la resa a Torino ed emanando bandi di reclutamento verso Gàssino, Verrua e Settimo. Da Ivrea, ben presto l’insorgenza si propaga al Canavese, dove i contadini sono tradizionalmente collegati con i montanari aostani, e quindi anche alla Valle d’Aosta. Capeggiata da tale Castiniati, che si presenta come luogotenente di Lucioni, la Massa il 13 maggio da Chivasso occupa Montanaro nel Canavese, dove recluta uomini e ottiene razioni di pane e vino. Ciriè, San Maurizio, Caselle Torinese e Leinì, municipi restii a insorgere e dove si sono rifugiati gli ultimi repubblicani canavesani, circondate dalla Massa e davanti alla minaccia dell’assalto e dell’incendio, si sottomettono.
Affiancano Lucioni alcuni ex funzionari della monarchia sabauda, come il conte di Chieri, Carlo Oddone Luigi Ignazio Arnaud di San Salvatore (1778-dopo 1818), il cavaliere Ferdinando Radicati di Primeglio, ex capitano dei granatieri reali, e il «cavalier de Rossi», ovvero Michele Angelo Giovanni De Rossi (?-1800), conte di Pomerolo, colonnello a riposo anch’egli dei granatieri reali, già aiutante di campo del re e padre del più celebre Santorre Annibale, conte di Santarosa (1783-1825), che lo ha seguito come alfiere a soli tredici anni nella Guerra delle Alpi del 1792-1796. Gli storici nominano fra i capi-massa anche alcuni frati cappuccini armati di grosse pistole, ma la loro esistenza non è sufficientemente suffragata dalle fonti.
I «brandalucioni» — «le turbe informi di Branda-Lucioni», le definisce Botta — danno vita a una guerriglia fatta di rapidi spostamenti, d’imboscate, di colpi di mano, di sabotaggi. Nonostante la valanga di infamie rovesciata contro la Massa Cristiana dagli avversari — cioè dalla storiografia tout court —, i documenti non rivelano episodi di violenza, rappresaglie o crudeltà direttamente a essa imputabili. Ciò non significa che il comportamento dei «branda» sia stato sempre tenero o adamantino. Come in tutti i casi di guerra civile gli odi sono intensi e molti sono coloro che aderiscono alla lotta per opportunismo oppure perché autentici banditi. Lucioni anzi imprime sempre un forte carattere religioso — talora un po’ «magico» e folkloristico — alle sue imprese e tiene moltissimo a presentarsi come legittimo luogotenente dei sovrani. Se vi sono massacri nell’insorgenza piemontese, essi — come ad Acqui, a Strevi, a Carmagnola, ad Asti, a Piscina — vanno imputati alle truppe del misterioso generale Jacques Louis Delabrosse detto «Flavigny» (1759-1805), già comandante di «colonne infernali» repubblicane in Vandea, e del collega Philibert Fressinet (1767-1821).
Nelle due settimane centrali di maggio, Lucioni avanza fin nei pressi della Stura. Il maggiore e i suoi contadini, spostandosi di continuo, agendo con audacia e attuando stratagemmi, riescono così a tenere in scacco da soli, in attesa delle armate alleate che avanzano da est, le agguerrite truppe del generale Pascal Antoine Fiorella (1752-1818). La morsa stretta dalle milizie contadine di Lucioni intorno a Torino sembra — a ragione o in apparenza — impenetrabile e, quando tentano delle sortite, le truppe francesi fanno ritorno battute e con sensibili perdite, ma soprattutto sconcertate e demoralizzate.
Gl’imperiali, giunti a Torino fra il 24 e il 25 maggio, iniziano l’assedio vero e proprio, che si conclude, come sembra, per «intelligenza col nemico» da parte della municipalità e della guardia nazionale.
Presa Torino, la Massa si sposta verso sud-ovest, in direzione di Alba, Cuneo e della Liguria, reclutando ancora a Carrù, Magliano Alpi, Murazzano, Dogliani. Le ultime tracce del suo passaggio si trovano nei pressi di Roccacigliè, Roccavignale e Murialdo, verso Savona. Non si sa però se si tratta di Lucioni: la Massa inizia infatti a sfaldarsi in bande autonome e il nome «branda» è diventato nel frattempo sinonimo di insorgente e di «realista». Mentre Lucioni compie le sue ultime gesta in queste zone, le autorità alleate fanno confluire il grosso della Massa Cristiana, che staziona intorno alla capitale, su Pecetto Torinese, dove i reparti vengono smobilitati.
Ma le gesta del maggiore Branda non terminano qui. Contrariamente alle ipotesi romanzesche formulate dagli storici e dai letterati, Lucioni segue l’armata di Suvorov, che, dopo le vittorie sul fiume Trebbia, nel giugno, e a Novi, in agosto, invece che proseguire la sua avanzata verso il territorio francese attraversando le Alpi Occidentali e penetrando lungo la costa ligure dalla parte di Nizza, viene dirottato verso la Svizzera centrale per bloccare l’avanzata del generale André Massena (1758-1817) verso il Reno e, probabilmente, anche verso la Lombardia. L’11 settembre, appena conquistata Tortona (Alessandria), ricevuto nei giorni precedenti l’ordine di spostamento, il generale russo si mette in marcia con circa 27mila uomini verso Varese e Bellinzona e attraversa le Alpi al passo del San Gottardo, tentando di congiungersi con l’armata guidata sulla Limmat dal generale Aleksandr Michajlovič Rimskij-Korsakov (1753-1840) che avanza dalla Galizia per rinforzare l’esercito austro-russo, nettamente inferiore numericamente rispetto a quello di Massena.
Durante la lunga marcia verso nord Lucioni con i suoi ussari è ancora all’avanguardia e partecipa a tutte le fasi della difficile campagna, fra cui le battaglie di Chänis e Nafels nel cantone di Glarona (25 settembre e 1-2 ottobre 1799). Dopo la sconfitta di Rimskij-Korsakov a Zurigo il 27 settembre e la sconfitta e la morte del generale svizzero-austriaco Friedrich von Hotze (1739-1799) sulla Linth — di cui viene a conoscenza solo diversi giorni dopo —, Suvorov, incalzato dai francesi da ovest, con le truppe duramente provate, dopo alcuni disperati tentativi di rompere il fronte, deve ripiegare e, compiendo una lunga diversione verso sud-est, attraversare nuovamente le Alpi per puntare in direzione del territorio austriaco e, di lì, verso la madrepatria.
In una lettera del 5 gennaio 1800 al conte Luigi Cocastelli (1745-1824), plenipotenziario imperiale per la Lombardia, Lucioni riassume le sue imprese di guerra, sottolineando i meriti da lui avuti nella liberazione di Milano e del Piemonte — definita «un miracolo» — e rivelando una lucida comprensione del quadro strategico. Dopo la Svizzera di lui si sa poco: la voce a lui dedicata nel 2006 dal Dizionario biografico degli italiani ci fa sapere — da una lettera della moglie il 12 gennaio 1801 che ne lamenta l’assenza da oltre otto mesi — che, fra il maggio e il giugno del 1800, subito dopo Marengo e il ritorno di Napoleone in Italia, passa dalla Lombardia al Veneto. Nella primavera del 1801, è segnalato a Verona, da dove nel giugno, grazie alla pace stipulata nel febbraio precedente a Lunéville, nei pressi di Nancy, fra Impero e Repubblica Francese, può fare un breve ritorno a Milano, dove verosimilmente sono sepolti i figli scomparsi e dove conserva numerosi parenti e amici.
A Verona Lucioni entra in contatto con santa Maddalena Gabriella di Canossa (1774-1835), futura fondatrice delle Figlie della Carità, che il 16 giugno lo incaricherà di portare a Milano, capitale della neonata Repubblica Italiana, una sua lettera all’amica contessa Carolina Trotti Bentivoglio Durini (1762-1833), esponente di rilievo dell’Amicizia Cattolica.
Abbandonato — per la seconda e ultima volta — il servizio militare attivo, nel marzo del 1802 si trova a Vicenza, dove si spegne il 22 agosto 1803: non si conosce il luogo della sua sepoltura.
Uno dei due figli superstiti, Giovan Battista, che ha frequentato come il fratello il seminario minore ambrosiano, in quegli anni situato a Castello sopra Lecco, diverrà maestro di scuola e si sposerà nel 1829; l’altro, sacerdote, ospiterà la madre in Brianza fino alla di lei morte, poi, nel 1849 si trasferirà a Milano, dove, come detto, morirà nel 1855.
Formatosi in un ambiente familiare profondamente religioso, epigono di una pregevole tradizione italiana di servizio all’Impero, Lucioni — a differenza di molti leader naturali dell’Insorgenza italiana — si rivela un intelligente e implacabile avversario della Rivoluzione, incarnata da coloro che chiama i «perfidi francesi» e dai giacobini. Uomo di azione che sa comprendere acutamente i «problemi dell’ora presente» e intuisce l’essenza non solo materiale della lotta contro la Rivoluzione, Branda de’ Lucioni è un soldato, che non esita, a cinquantanove anni di età, a sporcarsi le mani in prima persona in una guerra civile, per la quale avrà senz’altro provato la naturale ripugnanza propria del militare di carriera. Credente forse sui generis — ma che prima di partire per la campagna del 1799 non esita, «[…] in Verona restando in quel freddo 4 ore e più in chiesa», a chiedere a Dio la grazia di mantenere l’impegno di liberare i milanesi dalla Rivoluzione —, Lucioni dimostra uno zelo fuori del comune nel restaurare i diritti di Dio e l’ordine tradizionale, che per lui, legittimista, coincide tout court con il ritorno dell’aquila bicipite. Buon conoscitore del popolo, l’ardito e alquanto pittoresco maggiore «a riposo» Branda de’ Lucioni ha creato un’autentica leggenda — quella degl’invincibili «branda» —, sedimentata a lungo nella memoria e nell’immaginario popolare dei piemontesi. La sua audacia, il suo impegno, il suo amor di patria e la sua devozione ai sovrani legittimi, gli meritano senz’altro un posto non secondario nell’ideale galleria delle glorie militari e civili degl’italiani.
Oscar Sanguinetti
Per approfondire: vedi Marco Albera e Oscar Sanguinetti, Il maggiore Branda de’ Lucioni e la «Massa cristiana». Aspetti e figure dell’insorgenza anti-giacobina e della liberazione del Piemonte nel 1799, con una prefazione di Mauro Ronco, Libreria Piemontese Editrice, Torino 1999; Andrea Merlotti, voce Lucioni, Branda de, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LXVI, 2006 (online nel sito web <http://www.treccani.it/enciclopedia/branda-de-lucioni_(Dizionario-Biografico)/>);
Gustavo Buratti (1932-2009), Contin e Brandaluccione. Due figure leggendarie delle insorgenze piemontesi, in Corrado Mornese e Idem (a cura di), Banditi e ribelli. Storie di irriducibili al futuro che viene, Centro Studi Dolciniani-Lampi di Stampa, Milano 2006, pp. 221-234; édouard Gachot (1862-1945), Souvarow en Italie. Les campagnes de 1799, Perrin, Parigi 1903 (consultabile in formato PDF nel sito web <https://archive.org/details/lescampagnesdes00gachgoog/page/n3>); e Marco Galandra e Marco Baratto, 1799. Le Baionette Sagge. La campagna di Suvorov in Italia e la «Prima Restaurazione» in Lombardia, con una prefazione di Mino Milani, Iuculano, Pavia 1999.