Fu una pagina drammatica di storia della resistenza anticomunista europea. Una resistenza alla sovietizzazione che risale agli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale — quando i corpi franchi tedeschi e le armate della rinata Polonia libera bloccano la tremenda spinta rivoluzionaria proveniente dalla neonata URSS — e continua fra le due guerre con la grande guerra nazionale finlandese, per rinnovarsi quando l’Armata Rossa occupa l’Europa orientale, dopo aver sconfitto in una guerra apocalittica la Wehrmacht.
Negli anni dal 1944 al 1948 e anche oltre, fino agli anni 1950, nelle foreste dei Paesi dominati dai comunisti — nei Paesi baltici, in Polonia, in Ucraina — giovani uomini e donne, anziani, cattolici, liberali, contadini e studenti resistono alla macchia contro la terribile repressione dei governi asserviti alla “patria” sovietica.
Nel 1956 — ma ancora prima a Berlino Est nel 1953 — in Polonia e in Ungheria la resistenza di pochi diventa resistenza di un intero popolo. Il 23 ottobre 1956 gli studenti di Budapest scendono in piazza per rivendicare la libertà civile, la fine del regime comunista, l’indipendenza nazionale. Ben presto la protesta diventa insurrezione e agli studenti si uniscono gli operai e, poco dopo, anche frazioni dell’esercito ungherese. La rivolta divampa dalla capitale ai più grandi centri urbani del Paese. Mosca appare incredula che un popolo, un piccolo popolo, osi ribellarsi al suo fosco e ingiusto dominio. Ma l’Ungheria è sì un piccolo popolo — i suoi confini sono stati drasticamente rimpiccioliti a Versailles perché “rea” di aver combattuto a fianco degl’Imperi centrali —, ma ha un grande passato e il ricordo di esso non si è estinto fra le generazioni degli anni 1950. Una forte identità nazionale, la memoria della monarchia, l’antica cultura libertaria, il ricordo di un passato ordine, severo ma giusto e nobile, sono il fermento che rende la rivolta non una reazione effimera come a Berlino o a Poznań, ma una ribellione con un progetto: uno Stato libero, costituzionale, al di fuori del Patto di Varsavia, con un futuro autonomo e originale. Così potrà essere solo dopo la caduta del Moloch sovietico nel 1991. Allora la centrale del comunismo mondiale, che conosce il suo effimero apogeo, non può accettare che un Paese occupato del suo esercito si autodetermini e che il mito del socialismo s’incrini. E allora invia i suoi carri armati e quelli delle “democrazie popolari” “sorelle” di quella ungherese. Gl’insorti, traditi, ingannati, divisi vengono attaccati concentricamente dagli eserciti degli Stati confinanti ed è il massacro. Un massacro cui i sollevati resistono con le armi in pugno e con la forza della disperazione, ma che si conclude in un bagno di sangue, che si consuma fra il 4 e il 10 novembre 1956, quando Budapest è schiacciata dagli aerei e da centinaia di tank T-34 con la stella rossa, ma che, con i processi e le condanne “legali” a morte o al carcere, si protrae per anni.
Vana è la speranza degl’insorti che l’Occidente, che dall’inizio della Guerra Fredda nel 1947-1948 promette ai dominati dall’URSS la libertà, intervenga: il patto sovietico-americano-inglese di Yalta e quello successivo di Potsdam sanciscono che l’Ungheria è parte dell’“impero del male” e nessun soldato americano o europeo si schiera con i disperati che lottano con i fucili contro i cannoni nei viali alberati della capitale del regno, che ebbe come suo ultimo sovrano, Carlo IV, il beato imperatore Carlo d’Austria (1887-1922). Cade così l’illusione degli ungheresi verso il mondo “libero” e cade nel contempo l’idea che il comunismo conosca veramente un “disgelo” come tanti narrano accada con il regime post-staliniano di Krusciov. L’Ungheria viene così “normalizzata”, il regime comunista conosce delle mitigazioni, ma la sostanza della schiavitù di un popolo al “regime della menzogna” e della miseria rimane come scandalo imperituro.
Oscar Sanguinetti