Brevi riflessioni a margine delle ennesime bocciature inflitte al Consiglio Superiore della Magistratura, in crisi nonostante l’espulsione di Palamara.
di Domenico Airoma
Le recenti decisioni del Consiglio di Stato che hanno bocciato le nomine fatte dal Consiglio Superiore della Magistratura dei più alti vertici della Corte di Cassazione non possono essere liquidate come questioni interne alla magistratura né meri incidenti di percorso; e per più ragioni.
La prima chiama in causa la vicenda Palamara. Si era detto che la crisi della magistratura era da individuare soprattutto nelle cosiddette correnti, in quei gruppi, cioè, che orientavano, in modo più o meno occulto, le decisioni del CSM; sicché, una volta espulso Palamara, che di quel sistema era il principale protagonista, si era oramai sulla strada giusta.
I fatti stanno dimostrando che le cose non stanno così. E non solo per il numero delle bocciature che il giudice amministrativo sta infliggendo all’organo di autogoverno della magistratura; ma anche per le motivazioni degli annullamenti. Il giudice amministrativo, in buona sostanza, imputa al CSM di fare uso in maniera contradittoria dei parametri che esso stesso si è dato per stabilire quale magistrato sia più meritevole di un altro: il dubbio, insomma, è che la motivazione sia cucita addosso al magistrato che si ritiene di promuovere. Tutto ciò non è solo oggetto delle censure dei giudici amministrativi. Quel che è più grave è che sono gli stessi magistrati a ritenere che le decisioni del CSM siano poco trasparenti ed ispirate a logiche ondivaghe e di difficile decifrazione, se è vero che sono in costante aumento i ricorsi dei magistrati che si sentono trattati ingiustamente dall’organo di autogoverno.
Un tempo il principale problema dei magistrati era la difesa dell’indipendenza esterna, cioè l’autonomia dei magistrati dall’indebita invadenza degli altri poteri dello Stato; oggi, il problema sembra essere soprattutto la tutela dell’indipendenza interna, la difesa del magistrato dall’esercizio di un potere, quello del CSM, avvertito sempre più come ostile.
La questione non è di poco conto e rischia di incidere sull’intero assetto istituzionale ed avere ricadute ben al di là del perimetro della magistratura. E’ evidente, infatti, che un magistrato che non riconosce più autorevolezza al proprio organo di governo, dopo aver già abbandonato di fatto quella che un tempo era l’associazione di categoria più rappresentativa, è un magistrato-monade, che fatalmente può essere portato a cercarsi un’altra casa, a subire influenze poco confacenti al modello di giudice che ciascun consociato si attende, ad orientare i propri giudizi, e quindi la giurisdizione, secondo parametri personalistici, se non ideologici.
Quel che è in crisi, in definitiva, è la fiducia nell’istituzione da parte di coloro stessi che quella istituzione incarnano e la cosa non può essere liquidata come populismo di pochi tecnocrati privilegiati.
La fiducia, diceva una vecchia reclame, è una cosa seria che va alle cose serie. La magistratura -e non solo il CSM- deve sapersela meritare; certamente. Urgono riforme, indubbiamente. Ma anche uomini che sappiano incarnare quel modello di uomo delle istituzioni, prima ancora che di magistrato, che Rosario Livatino ha indicato, con la propria vita, con la propria testimonianza, con umile serietà.
Giovedì, 20 gennaio 2022