Con la nascita del PCI, cento anni fa comincia anche la storia della strenua e coraggiosa opposizione di molti uomini a questa tappa fondamentale del processo di disgregazione della civiltà italiana
di Oscar Sanguinetti
In questo inizio di 2021 si celebra — in termini largamente encomiastici — il centesimo anniversario della nascita del Partito Comunista Italiano, cioè di una forza politica la cui ideologia si riassumeva — ma il plateau di disvalori in cui essa si scomponeva era assai più ricco — nell’abolizione della proprietà privata. La creatura nata allora è vissuta, cresciuta, ingigantita e, poi, alla vigilia del Terzo Millennio, si è autoliquidata, dopo avere costituito costantemente una pesante ipoteca negativa sulla storia dell’Italia del Novecento.
Lasciando ad altre sedi la descrizione e l’analisi di questa ipoteca, possiamo chiederci quale sia stato, lungo tutta la sua parabola storica, l’atteggiamento di chi lo ha combattuto, ossia degli anti-comunisti.
Il comunismo moderno, come progetto globale di società, fa la sua comparsa negli anni della Rivoluzione francese e, più nitidamente, nei primi decenni dell’Ottocento.
Se i principali bersagli del comunismo — nobili, possidenti, borghesi, clero — paiono non accorgersi in questa epoca — troppo ingenti sono ancora i residui sociologici ed etici dell’“antico regime” in Europa — del pericolo che corrono, chi ne prende coscienza e ne formula la condanna per primo è il magistero dei Papi. Dopo il beato Pio IX (1846-1878), che lo mette a tema nel 1846, le condanne esplicite del socialismo “scientifico” fioccano ininterrotte fino a Pio XII (1939-1958): il documento magisteriale più ampio e profondo sul comunismo sarà l’enciclica Divini redemptoris di Papa Pio XI (1922-1939).
Le prime analisi “laiche” dell’ideologia socialista e comunista — per diverso tempo non si distinguerà fra i due termini — risalgono agli ambienti culturali conservatori. Se la “prima scolastica” contro-rivoluzionaria — Joseph de Maistre (1753-1821) e Louis de Bonald (1754-1840) — ne parlerà poco, già alla metà del XIX secolo, con Juan Donoso Cortés (1809-1853), abbiamo la prima critica compiuta del fenomeno socialista nella sua filiazione dal liberalismo allora trionfante.
Il Manifesto del partito comunista di Karl Marx (1818-1883) e di Friedrich Engels (1820-1895) apparso nel 1848, i moti parigini dello stesso anno e, soprattutto, la drammatica vicenda della Comune di Parigi nel 1871 riveleranno che il comunismo è divenuto tutt’altro che “uno spettro”. Ma solo la Rivoluzione “proletaria” di Ottobre (1917) e i moti rivoluzionari europei del Primo dopoguerra faranno tremare il mondo borghese e liberal-democratico, ossia l’establishment del tempo.
Il partito comunista marxista-leninista italiano, nato nel gennaio del 1921 sull’onda, non solo emotiva, del grande successo sovietico, si scontra subito con la reazione delle altre forze politiche. Il Partito socialista (PSI), pur proseguendo nel suo massimalismo, prende le distanze dalla nuova creatura. La monarchia e la classe dirigente, scioccate dalla serie di violenze rivoluzionarie — occupazioni di fabbriche, scioperi, cortei — del 1919-1921 e dall’ingresso dei primi deputati comunisti in Parlamento, scelgono l’arroccamento, favorendo la soluzione autoritaria di cui sarà protagonista il fascismo mussoliniano. Quando nel 1926 il fascismo diventa regime, il Partito comunista viene messo al bando, i suoi deputati e dirigenti arrestati, incarcerati e confinati, i quadri e la struttura organizzativa dispersa: il partito deve così passare alla clandestinità. Ma sarà una clandestinità operosa: la “rete” tessuta dai “rivoluzionari di professione” resiste e “lavora”, anche grazie alla poco oculata repressione — si pensi alla colonia penale di Ventotene trasformata, come altre, in “università per quadri”, e alle libertà non solo intellettuali concesse ad Antonio Gramsci (1891-1937) — attuata dal regime.
Il ruolo del Partito comunista nell’Italia post-bellica sarà da protagonista, sia nella “liquidazione” dei residui del fascismo, sia nel referendum sulla monarchia e nella Costituente repubblicana. Dopo la “svolta di Salerno” del 1944 il partito dismette i panni del sovversivismo, manda in soffitta la tattica della conquista violenta del potere e indossa il “doppiopetto” togliattiano. Mettendo in ombra il suo legame strutturale con il partito dell’Unione Sovietica e millantando un ruolo primaziale nella lotta di liberazione, si accrediterà— con successo — come forza “nazionale”, come grande partito democratico e sociale, come erede della tradizione risorgimentale. Il PCI parteciperà ai governi italiani fino al 1947, quando lo scoppio della Guerra Fredda imporrà all’Italia di estrometterlo. Assorbendo in larga misura l’elettorato socialista, conseguirà, tuttavia, notevoli successi politici, che ne faranno la seconda forza partitica del Paese.
Nelle elezioni del 18 aprile del 1948 il PCI, alleato con le sinistre, contro ogni pronostico, grazie alla grandiosa mobilitazione del mondo cattolico, patisce una sconfitta epocale, che si tradurrà in una decisa impasse nell’ascesa del partito. Ma il peso dell’insuccesso sarà attenuato dal richiamo alla solidarietà anti-fascista degli anni della Resistenza, ancora forte tra le forze politiche: i vincitori, i democristiani, invece di approfittare dell’inatteso plebiscito anti-comunista, di cui sono i beneficiari unici, continueranno nella loro collaborazione con le forze “laiche”, in attesa del momento propizio per reinserire i comunisti — magari meno ideologizzati — nell’area del governo. La storia dell’“apertura a sinistra” — cioè l’ingresso dei socialisti nel governo — del 1963 sarà la prima tappa di questa strategia e i governi di “solidarietà nazionale” della fine degli anni 1970, esito ultimo della politica comunista di “compromesso storico” avviata dal PCI nel 1973, il coronamento.
L’opposizione “forte” al comunismo italiano sarà svolta quindi non dal partito di maggioranza, bensì dagli ambienti liberali “benpensanti”, dai superstiti monarchici, dai cattolici obbedienti al Magistero, da “nicchie” nell’amministrazione dello Stato, da circoli innervati dalle centrali propagandistiche atlantiche. Il fulcro di tale opposizione sarà la galassia di gruppi di svariato orientamento che ruota intorno al Movimento Sociale Italiano, all’erede, cioè, di quella “sinistra nazionale” sconfitta nella guerra civile del 1943-1945.
Tuttavia, il fatto che l’avversario nominale del PCI — per dottrina e per posizionamento internazionale — non svolga una politica coerentemente e adeguatamente anti-comunista, ma, anzi, “lavori” per riportare il PCI ai vertici del Paese, fa sì che l’opposizione delle forze che ho nominato scalfisca appena la potente “macchina da guerra” allestita da Palmiro Togliatti (1893-1964) e finanziata da Mosca. Dopo il 1960 l’egemonia — cioè il potere di condizionamento — del PCI dilagherà, così, in ambito sindacale, nelle piazze, nella cultura nazionale, nella scuola, nell’editoria, nei giornali, nel cinema. Coniugandosi con il dirigismo statalista di forti correnti democristiane, la Repubblica assumerà di conseguenza una configurazione sempre più vicina a quella di una repubblica socialista — quindi, marcata da sprechi, corruzione, inefficienze —: un abito che dopo il 1989 sarà assai difficile dismettere, nonostante le conclamate “privatizzazioni”.
Altro ostacolo a una efficace azione limitativa di tale egemonia sarà il fatto che l’anti-comunismo italiano sarà di tipo “istintuale”— i missini — o “democratico” — gli altri. Con ben poche eccezioni, l’anti-comunismo italiano si limiterà a vedere nel comunismo solo il nemico delle libertà costituzionali e non, invece, il necroforo della famiglia, della proprietà, dell’impresa. Sarà, in altri termini, un anti-comunismo “democratico”, privo di adeguati agganci dottrinali, che, a misura dell’imporsi dei paradigmi della modernità e del progressismo, sarà afflitto da una lunga serie di “complessi” che ne paralizzeranno o neutralizzeranno l’azione. Solo da ambienti intellettuali cattolici attenti alle numerose indicazioni del Magistero pontificio verranno analisi in grado di svelare il vero volto del comunismo e la malizia ìnsita nella sua politica, specialmente quella “della mano tesa” e del “dialogo” verso i cattolici.
Il PCI dopo il 1989 “implode” grazie alla mutata situazione internazionale e al venir meno del fascino dell’ideologia marxista. Le “cose” che nascono dopo il PCI perderanno sempre più terreno fra le masse e s’“imborghesiranno” gradualmente, cambiando — confermando la natura metamorfica della Rivoluzione — più volte denominazione e alleanze. Esse cercheranno d’inserirsi nel sistema, facendo dimenticare il loro passato “bolscevico”, sottolineando ancora una volta il loro ruolo anti-fascista — largamente “inventato” — e “nazionale”, nonché cercando di “annegarsi” nella sinistra democratica. Ma il “post-comunismo” italiano subirà una grave sconfitta nelle elezioni del 1994, quando, pur essendo la forza trainante di un ampio fronte, che comprendeva “verdi” e democristiani di sinistra, vedrà prevalere inaspettatamente il centro-destra e nascere la “seconda Repubblica” a sistema bipolare.
Tuttavia, nemmeno in questa situazione inattesa e favorevole, proprio per le carenze dottrinali-pratiche cui ho fatto cenno, le forze anti-comuniste saranno capaci di sfruttare appieno la ferita inferta all’antico partito bolscevico e accetteranno come normale dialettica politica che tanti paradigmi del vecchio PCI inquinino ancora la politica italiana, al punto che si vedrà uno dei più genuini ed emblematici uomini di apparato del “vecchio” PCI, Massimo D’Alema, segretario del Partito Democratico della Sinistra, assurgere nel 1998 al rango di capo del Governo italiano, ancorché per solo due anni.
Oggi il PCI si è “metamorfizzato” in altre forze politiche e “diluito” in altre agende ideologiche, ma restano intatti nei suoi “post-” ed “ex-” il disegno di un mondo umano auto-referenziale, senza Dio e totalmente ugualitaristico, e la sua mentalità opportunistica, ed è vivo quanto mai il suo “metodo” dialettizzante. Oggi, come non mai, è una corretta lettura dei “segni dei tempi” combatterlo nelle sue “nuove” maschere.
Domenica, 24 gennaio 2021