Il testo è disponibile presso la libreria per corrispondenza San Giorgio.
Capitolo I
LA LEGGE 40 SULLA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA
A chi piace la legge 40? – Le linee-guida applicative della legge 40 – Legge 40 e selezione degli embrioni: un nodo etico decisivo – Riflessioni a margine dei referendum sulla legge 40.
A chi piace la legge 40?
Sono all’incirca 30.000. Rappresentano un popolo di minuscoli esseri umani in attesa di destinazione, e il loro numero è alla luce del sole grazie alla legge 19 febbraio 2004 n. 40 Norme in materia di procreazione medicalmente assistita, in vigore in Italia dal 10 marzo 2004. La legge 40 stabilisce il monitoraggio continuo del numero degli embrioni prodotti in vitro a scopo di impianto e il controllo della percentuale di nati con tale metodica in Italia. Si cerca insomma di sottrarre all’insindacabilità del privato un evento così fondamentalmente sociale quale è una nuova nascita umana. È indubbiamente di un passo avanti rispetto alla situazione precedente, in cui una fitta giungla di cliniche, istituti, servizi si avvalevano delle tecnologie riproduttive ciascuno con il proprio regolamento, con la propria etica, con i propri dati.
Eppure non è nemmeno lecito cantare vittoria, come se le innovazioni introdotte dalla legge costituissero un reale progresso civile e culturale. Ora infatti, pur con tutte le limitazioni previste dalla legge, siamo un paese che ufficialmente ammette e sostiene, anche economicamente, la fecondazione artificiale nella forma omologa.
È una conquista? Un bambino prodotto in vitro, in realtà, per quanto desiderato e amato, è vittima di un misconoscimento radicale della sua dignità personale, poiché viene ad essere non più un dono da accogliere, ma appunto un prodotto, una cosa, da scegliere, selezionare, migliorare; o magari buttare. La pretesa di un figlio biologico da parte di coppie sterili o infertili – o la pretesa di un figlio sano da parte delle coppie in genere – prevale così sul valore della vita del nascituro. Ne è prova il fatto che in ogni pratica di fecondazione in vitro c’è una consistente e fisiologica perdita di embrioni, nonché una maggiore incidenza di alterazioni permanenti nei nati (in senso genetico, fisiologico, psicologico), di cui è responsabile non la natura delle cose ma l’operato diretto dell’uomo.
Eppure, le critiche al testo di legge sono volte principalmente a denunciarne l’eccessiva “severità”.
In primo luogo, si dice che la legge sia fatta “per” i cattolici. Al contrario, la fecondazione artificiale, omologa come eterologa, non è ammessa mai dal Magistero della Chiesa; non è ammessa – come non lo sono, ad esempio, crimini come il furto e l’omicidio – in quanto contraria alla legge morale naturale che vale per tutti gli uomini e non in quanto oggetto di fede. Sarebbe curioso se nell’aula di un tribunale si dichiarasse non punibile l’omicidio perché basato su logiche confessionali! I cattolici impegnati in politica che hanno sostenuto la legge, pertanto, lo hanno potuto fare lecitamente solo in quanto non sono stati i promotori di una legge ingiusta, ma hanno trasformato una proposta di legge ingiusta in una legge meno ingiusta, migliorandola per quanto era possibile. Non c’era alternativa: una legge doveva nascere, e poteva essere molto peggiore se cattolici e non cattolici di buona volontà non vi avessero impegnato le proprie energie.
In secondo luogo, si dice che la legge abbia frustrato i desideri e le speranze di persone che, già sofferenti per la loro condizione di sterilità o infertilità, si troverebbero doppiamente colpiti, costretti a rinunciare alle loro aspirazioni. Si sono in particolare levate le proteste di alcune donne che vedono nella legge la deprivazione del diritto fondamentale ad avere un bambino con tutti i mezzi che la scienza offre. Oltre a considerazioni d’obbligo sui rischi della fecondazione artificiale per le donne, sulla loro strumentalizzazione nel sottoporle a tecniche affatto sperimentali e sul basso grado di efficacia delle tecnologie riproduttive, è emblematico il fatto che tale atteggiamento venga confuso con l’apertura alla vita. In realtà, si cela una mentalità analoga in coloro che rifiutano la vita, ad esempio sostenendo il diritto all’aborto, e coloro che la esigono: è la mentalità efficientista e materialista per cui la vita del più debole fra i deboli, cioè del bimbo non nato, è sostanzialmente strumentale e subordinata non solo alla vita, ma al benessere del più forte. Proprio nella fondamentale e imprescindibile tutela del valore della vita umana in quanto tale – e non per le sue condizioni particolari – si esplica il principio della sacralità di contro a quello della qualità della vita, in cui la dignità umana sarebbe condizionata da una serie di caratteristiche, che renderebbero una vita più o meno “degna di essere vissuta”, e che solo il soggetto potrebbe stabilire. In questa prospettiva resta fra l’altro irrisolto il problema di chi debba stabilire il valore della vita di coloro che non possono decidere autonomamente, come gli embrioni e i bambini piccoli.
Questa legge ha appunto il merito di non rispecchiare interamente la visione utilitaristica della vita, ma di lasciare emergere in qualche scorcio la sua fondamentale sacralità, ad esempio quando sostiene, all’art. 1, di tutelare i diritti di tutti i soggetti coinvolti “compreso il concepito”. È infatti la prima volta nella legislazione italiana che si considera esplicitamente il concepito un soggetto. Oppure quando stabilisce, all’art. 14, che gli embrioni prodotti in vitro (tre al massimo) devono essere obbligatoriamente impiantati nell’utero una volta dato il consenso scritto (art. 6), senza possibilità di revoca. Infine, quando vieta la conservazione di embrioni congelati, la sperimentazione sugli embrioni, la clonazione, nonché la fecondazione eterologa, quella post mortem o quella fra persone dello stesso sesso, al fine di creare condizioni migliori di accoglienza e di educazione dei piccoli “figli della provetta”.
Purtroppo, la solidità di tali punti positivi viene qua e là erosa da possibili scappatoie ed eccezioni che, se non eliminano le dichiarazioni di principio, ne possono minare la fedele applicazione. Ad esempio, l’art. 5 dichiara che la fecondazione artificiale può essere solo omologa, ma tale è considerata anche quando avviene all’interno di una qualsivoglia coppia convivente, anche in modo informale e transitorio, riaprendo così la porta ad abusi e finzioni. L’idea di famiglia che si intende veicolare a protezione del bambino, in altre parole, è estremamente debole, poiché svincolata dal contesto del matrimonio, che solo può offrire una base potenzialmente stabile di convivenza dei genitori, con relativa assunzione pubblica di responsabilità e impegno.
Ancora, la sperimentazione sugli embrioni è proibita, tranne il caso in cui tale ricerca risulti “terapeutica”, cioè atta a sviluppare e curare l’embrione stesso. Tuttavia, non è chiaro quali siano in questi casi le modalità e il grado di sperimentazione accettabili per tali eventuali terapie, mentre è ovvio che quando una terapia è sperimentale per definizione non dà risultati certi, e può darne di dannosi, e che nel caso dell’embrione il ricercatore poco scrupoloso potrebbe facilmente proseguire le sperimentazioni embrionali mascherandole da ricerche “terapeutiche”.
La stessa promettente dichiarazione di volere evitare la soppressione di embrioni e la riduzione embrionale, è intiepidita dalle clausole «fermo restando quanto previsto dalla legge 22 maggio 1978, n. 194» e «salvo i casi previsti dalla legge 22 maggio 1978, n. 194», con la conseguenza – peraltro attualmente inevitabile – che, dopo l’impianto obbligatorio, la donna può decidere di disfarsi dei concepiti.
Infine, sebbene la legge esorti a considerare la Fivet l’ultima possibilità, incoraggiando piuttosto le adozioni, è evidente che la possibilità legale di ricorrere alla procreazione assistita spinge di fatto nella direzione contraria. Non è infrequente, ad esempio, che ben prima dei tempi necessari a stabilire lo stato di infertilità o sterilità le coppie si sentano proporre la fecondazione artificiale, magari unicamente perché non più giovanissime, quando invece basterebbe il ricorso ai semplici ed economici metodi naturali di autodiagnosi della fertilità per trattare efficacemente molti casi di subfertilità o di ipofertilità.
Le linee-guida applicative della legge 40
Nel mese di agosto 2004 sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana due decreti ministeriali riguardanti la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Il primo, apparso sulla G.U. n. 191 del 16 agosto, è il Decreto 21 luglio 2004 recante Linee-guida in materia di procreazione assistita. Il secondo decreto, apparso sulla G.U. n. 200 del 26 agosto, è il Decreto 4 agosto 2004 che riguarda le norme per la criopreservazione degli embrioni.
Le linee-guida non costituiscono, secondo quanto stabilito dalla legge, una modifica sostanziale della normativa, ma forniscono alcune precisazioni e approfondimenti. Dopo alcune note relative alla diagnosi di infertilità e sterilità, il decreto approfondisce l’importanza e lo scopo della consulenza che deve precedere e accompagnare le coppie che si rivolgono ai centri di fecondazione assistita: esse vanno esortate a percorrere tutte le vie alternative possibili prima di ricorrere a procedute artificiali di fecondazione, tenendo presenti i rischi delle tecniche, le basse percentuali di successo, le implicazioni fisiche e psicologiche per la coppia e per i figli, gli oneri economici.
Segue la parte illustrativa delle tecniche di fecondazione, con indicazione delle fasi da seguire e delle procedure richieste al fine di evitare i possibili errori. In particolare, vengono stabiliti i criteri di reperimento e utilizzo degli ovociti: è consentito indurre ovulazioni multiple e prelevare un numero indefinito di ovociti, eventualmente congelarli e scongelarli, selezionarli prima della fecondazione. Dopo che i gameti vengono uniti, occorre verificare l’avvenuta fecondazione. Resta immutato il limite di tre embrioni realizzabili e trasferibili nelle vie genitali femminili.
Nella descrizione della GIFT (Gamete Intra-Fallopian Transfer) compare l’ambigua distinzione terminologica fra zigoti ed embrioni: essa può essere invero sostenuta in senso puramente cronologico per differenziare due diverse fasi dello sviluppo umano, così come in riferimento al medesimo individuo si distingue fra embrione e feto, o fra feto e neonato, ma in questo caso tale distinzione può aprire la strada ad un fraintendimento radicale, ovvero all’idea che molte norme in difesa dell’embrione contenute nella legge 40 (soprattutto il divieto di soppressione e di crioconservazione ordinaria degli embrioni, di qualunque forma clonazione umana e di sperimentazione embrionale) non valgano per lo stadio di sviluppo umano unicellulare di zigote, il quale potrebbe di conseguenza essere manipolato, indagato, strumentalizzato o distrutto senza violare alcuna normativa (1).
Le disposizioni a tutela dell’embrione ribadiscono il divieto della diagnosi preimpianto a fini eugenetici, consentendo tuttavia l’analisi “osservazionale” (cioè al microscopio) degli embrioni prodotti. È inoltre considerata l’eventualità di rinuncia all’impianto da parte della donna nel caso di “gravi anomalie irreversibili” del concepito. Il trasferimento in utero, osserva infatti il decreto, è “non coercibile”. In definitiva, l’impianto degli embrioni fecondati in vitro può non avvenire, temporaneamente o in via definitiva, per alterazioni dello stato di salute della donna non prevedibili al momento della fecondazione (come già stabiliva la legge 40), per rinuncia della coppia o della donna dovuta a malformazioni morfologiche o comunque osservazionali dell’embrione, per la mutata volontà della donna all’impianto stesso, dal momento che l’impianto legislativo, pur volto all’obbligatorietà tendenziale di impianto di tutti gli embrioni “in grado di proseguire il loro sviluppo”, non prevede alcuna forma di sanzione per le pazienti che si oppongono al trasferimento in utero o che si rendono irreperibili, causando l’abbandono dei loro «figli allo stato embrionale», come li definisce Adriano Pessina in un articolo su “Il Foglio” dell’11 giugno 2004. D’altra parte, è ovvio che uno stato civile debba tutelare di principio la libertà di cura e il diritto al rifiuto di un trattamento sanitario. Diversamente, si introdurrebbe nell’ordinamento un pericolosissimo principio di coazione dei trattamenti sanitari, che teoricamente potrebbe giustificare anche pratiche violente e totalitarie come la sterilizzazione di massa, o l’eutanasia di stato, o l’aborto obbligatorio. Di conseguenza, l’ingiunzione a non rifiutare il trasferimento degli embrioni una volta esistenti è soprattutto teso a responsabilizzare le coppie mettendole di fronte al fatto decisivo che la fecondazione in vitro non è un gioco biochimico, ma una “scelta” già fatta e che coinvolge un terzo (il figlio), pertanto deve rivestire nella coscienza dei richiedenti lo stesso valore che avrebbe l’inizio di una gravidanza a lungo cercata.
Il destino degli embrioni prodotti ma non impiantati va in tre possibili direzioni: quelli malformati vanno tenuti in coltura fino alla loro morte (dunque non sono crioconservati), quelli destinati ad un impianto successivo vengono congelati e conservati presso il centro di fecondazione assistita che li ha prodotti, e che deve informare prontamente i genitori/proprietari degli embrioni in “scadenza” (si ritiene infatti che dopo cinque anni un embrione in vitro non sia più impiantabile), mentre quelli dichiarati in stato di “abbandono” vanno crioconservati in modo centralizzato.
Le linee-guida indicano infatti «due diverse tipologie di embrioni crioconservati: la prima, quella degli embrioni che sono in attesa di un futuro impianto, compresi tutti quelli crioconservati prima dell’entrata in vigore della legge n. 40/2004, e la seconda, quella degli embrioni per i quali sia stato accertato lo stato di “abbandono”. […] Per definire lo stato di abbandono di un embrione si deve verificare una delle seguenti condizioni:
a. il centro deve avere una rinuncia scritta al futuro impianto degli embrioni crioconservati da parte della coppia di genitori o della singola donna (nel caso di embrioni prodotti con seme di donatore e in assenza di partner maschile, prima della normativa attuale), oppure
b. il centro deve documentare i ripetuti tentativi eseguiti per almeno un anno di ricontattare la coppia o la donna in relazione agli embrioni crioconservati. Solo nel caso di reale, documentata impossibilità a rintracciare la coppia l’embrione potrà essere definito come abbandonato».
Di qui il decreto del 4 agosto 2004, che nomina Biobanca Nazionale per la criopreservazione degli embrioni “soli” l’Ospedale Maggiore di Milano, mentre all’Istituto Superiore di Sanità è affidato il compito di tenere il registro nazionale degli embrioni, nonché i contatti con i centri di riproduzione assistita e con la Biobanca. Non si può negare che tali possibilità di rifiuto, e quindi di abbandono, degli embrioni, così come descritto nelle linee-guida, configurino un ulteriore accrescimento della già nutrita popolazione di embrioni prodotti e congelati prima dell’entrata in vigore della legge.
Gli embrioni crioconservati e abbandonati debbono dunque essere radunati nella Biobanca di Milano per tutta la durata del tempo utile ad un eventuale impianto, nell’ipotesi che i legittimi “proprietari” si facciano vivi. Trascorso questo tempo, saranno scongelati e tenuti in coltura fino alla morte “naturale”. Il decreto non fa riferimento alla possibilità di adozione di tali embrioni.
Vale anche la pena di sottolineare il tono che caratterizza tutto il testo delle linee-guida, e soprattutto la descrizione dei limiti posti alle tecniche di fecondazione, in supporto all’art. 14 della legge 40. È un tono asettico ed estremamente tecnico: l’embrione è sottoposto a continui e ripetuti controlli per assicurarne la “buona qualità”, con un rigore procedurale che ricorda molto i controlli di qualità cui va soggetta attualmente l’industria agro-alimentare. Né potrebbe essere diversamente, dal momento che l’embrione ottenuto in vitro viene di fatto ad essere un prodotto di un tecnica e non più solo e primariamente il frutto di un atto d’amore. Si pone in quest’ottica l’osservazione del bioeticista e filosofo del diritto Mario Palmaro, che nel corso del Convegno Nazionale su «La fecondazione assistita: profili medici, etici e giuridici» celebrato a Roma i 2 e 3 di luglio 2004, osservava che «[n]on c’è un modo pienamente umano e giuridicamente giusto di produrre esseri umani in provetta».
In questo contesto, per quanto legittimo e sincero possa essere il desiderio di un figlio – dunque inequivocabilmente di una persona – da parte delle coppie sterili, balza agli occhi quanto nelle tecnologie riproduttive risulti pressante la tentazione a considerare l’embrione, cioè proprio il figlio tanto sospirato, come una cosa, con tutti i possibili esiti aberranti che un simile atteggiamento può avere sulle relazioni famigliari, sull’identità personale e sull’equilibrio sociale. Tale tentazione è insita nella fecondazione artificiale in quanto tale, pertanto non viene eliminata nemmeno dall’importante art. 1 della legge 40 che riconosce nel concepito un soggetto di diritti, e lascia temere una lenta ma inesorabile erosione dei punti migliori della legge per scendere, magari compromissoriamente, verso quella logica “produttiva” e utilitarista che vuole abrogare interamente o parzialmente la normativa.
Resta comunque prezioso il fatto che tale riconoscimento sia stato compiuto e reso ufficiale da una legge, perché ciò rappresenta la premessa ineludibile affinché prima o poi sia accolta pienamente la verità sulla persona umana. Osserva il presidente del Movimento per la Vita Italiano Carlo Casini nel suo libro La legge sulla fecondazione artificiale. Un primo passo nella giusta direzione (Cantagalli, Siena 2004): «l’art. 1 della legge è importante perché finalmente l’ordinamento giuridico prende posizione sulla questione preliminare e fondamentale di tutta la bioetica» (p. 49). In effetti, da tale premessa sono potute scaturire le disposizioni legislative che difendono la vita del concepito in provetta, traducendosi di fatto in una diminuzione delle morti embrionali rispetto alla situazione ante legem.
Molto acutamente rileva Chiara Mantovani, medico e bioeticista: «Poiché, oggettivamente, vi è stata finora una realtà fattuale di ampia uccisione d’innocenti, qualsiasi restrizione è un bene parziale, rispetto al bene totale da perseguire, che è il divieto di ‘produrre’ persone umane. Non si tratta, in questo caso, di scegliere un male minore: questa sarebbe un’abdicazione al principio di non eligibilità di alcun male, neppure il minore. Si tratta, invece, di aver reso più piccolo un male, di aver ottenuto un bene minore: e, in quanto bene, legittimamente sceglibile» (2).
Legge 40 e selezione degli embrioni: un nodo etico decisivo
La legge 40 (art. 14) sancisce l’obbligo di impiantare in utero tutti gli embrioni prodotti in vitro (tre al massimo). Le linee-guida precisano invero alcuni casi in cui l’impianto potrebbe non verificarsi temporaneamente o permanentemente: oltre al caso di momentanea impossibilità di trasferimento in utero “per cause di forza maggiore relative allo stato di salute della donna non prevedibili al momento della fecondazione”, si contempla l’eventualità di rinuncia all’impianto – dichiarato “non coercibile” – per “gravi anomalie irreversibili” di tipo prevalentemente morfologico, con la giustificazione che in ogni caso il concepito è in condizioni così gravi da non poter comunque proseguire il suo sviluppo in utero. Non è invece ammessa la diagnosi genetica preimplantatoria.
Il divieto è stato fonte di interminabili polemiche, volte soprattutto a rivendicare il “diritto” delle coppie portatrici di malattie genetiche di avere “figli sani”, o comunque non affetti dalla stessa patologia dei genitori. È allora utile illustrare lo spirito che ha animato la legge nella questione spinosa della selezione embrionale. La preoccupazione del legislatore è rivolta ad evitare la perdita di embrioni, già fisiologica nei processi di fecondazione assistita per l’alto numero di fallimenti (mancanza di sviluppo dell’embrione in vitro, difficoltà di trasferimento in utero e di impianto, frequenza di aborti spontanei). È evidente che effettuare una diagnosi genetica preimplantatoria per decidere quali embrioni siano “degni” di proseguire il loro sviluppo e quali no rappresenta un atto sommamente violento, con cui vite umane innocenti vengono indebitamente soppresse. Non solo: è un atto che apre la strada all’eugenismo, cioè alla selezione degli individui in base a criteri di maggior efficienza e, in questo caso, di maggior rispondenza alle aspettative di chi li richiede.
È estremamente interessante considerare a questo proposito la posizione del biologo della riproduzione Jacques Testart, che è stato nel 1982 il “padre” scientifico della prima bimba francese concepita in provetta, e che per primo ha messo a punto tecniche divenute poi di uso generale: il congelamento degli embrioni e l’ICSI (l’iniezione di spermatozoi direttamente nel citoplasma dell’ovulo). In un’intervista rilasciata al quotidiano «Il Foglio» l’11 giugno 2004, si dichiara contrario alle «tecniche identitarie che consentono di prevedere cosa diventerà ogni ovulo se lo si trasforma in bambino».
Tale atteggiamento deformato nei riguardi della procreazione riceverà una drammatica spinta, afferma lo scienziato, con le nuove tecniche di produzione massiccia di ovuli, che costituirà, secondo Testart, «la prossima rivoluzione» in questo campo. Infatti, oggi la selezione embrionale rappresenta ancora una pratica limitata per l’esiguo numero di embrioni a disposizione, dovuto principalmente allo scarso numero di ovuli prelevati attraverso le attuali modalità di stimolazione ovarica. «Ma proviamo a immaginare», continua lo studioso, «che si abbiano a disposizione cinquanta o sessanta embrioni di una coppia, una vera e propria popolazione. Allora sì, che la selezione del “migliore” avrà una validità. Credo purtroppo che il compito futuro della procreazione medicalmente assistita non sarà quello di dare bambini a coppie sterili, ma dare bambini “normali” a chiunque, visto che chiunque rischia, potenzialmente, di avere un figlio con patologie genetiche».
In uno scenario non troppo lontano, osserva Testart, potremmo essere bombardati da spot televisivi studiati appositamente «per colpevolizzare i genitori che vogliono fare il “bambino del caso”», facendoli sentire dei selvaggi, responsabili di aver trascurato le tecniche consentite dalla ricerca per avere bimbi sani e felici. I genitori “normali”, insomma, diventerebbero un po’ come quei cattivi pazienti che non prendono le medicine prescritte e per questo stanno male.
In tale prospettiva è del tutto assente il riconoscimento della vita come dono da accogliere, come mistero da accettare, e come realtà che trascende il dato puramente biologico. Il bambino (quasi) perfetto, in quanto “prodotto”, non sarebbe più l’ospite “che viene da lontano”, come lo chiama Giuseppe Angelini nel libro Il figlio. Una benedizine, un compito Una da ricevere e servire con umile e appassionata dedizione. La visione eugenetico-selettiva, in definitiva, sradica totalmente dalla pratica biomedica il principio di tutela della vita fisica dell’uomo e il principio di giustizia, sui quali si regge gran parte dell’etica medica, per lasciare il posto ad un atteggiamento aggressivo e discriminatorio nei confronti di soggetti inequivocabilmente deboli.
Il coro di chi vorrebbe giustificare la diagnosi genetica preimplantatoria va amplificandosi in modo inquietante. Eppure, ogni motivazione legata ai disagi psicologici della donna che rischia di mettere al mondo bambini deformi o “infelici”, alle difficoltà che incontrerà nella vita un bambino disabile, alle paure che assalgono tutta la società di fronte alla realtà della sofferenza, non vale a confronto con il fondamentale diritto alla vita di questi minuscoli figli.
Se l’obbligo di impianto di tutti gli embrioni concepiti in vitro appare come un’imposizione per la donna, è perché il punto di partenza è distorto: il figlio germogliato dalla fecondazione artificiale si rivela una volta di più come “atto di volontà” della coppia, che può essere posto ma anche successivamente revocato o modificato. L’embrione faticosamente ottenuto dai suoi “proprietari” deve ripagarli degli oneri che ha causato, cioè non deve deludere. Altrimenti, con un atto di volontà simile a quello che lo ha preteso, i suoi genitori lo potranno rifiutare.
Resta così in ombra il fatto che, nel fenomeno della generazione umana, l’atto di volontà fondamentale è quello con cui l’uomo e la donna si rendono disponibili alla procreazione. Dopo l’atto procreativo (naturale o assistito), invece, si è già genitori.
Riflessioni a margine dei referendum sulla procreazione assistita
La Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi sui quesiti referendari di cancellazione totale o parziale della legge 40, ha emesso il suo verdetto il 13 gennaio 2005: bocciato il quesito che voleva la totale abrogazione della legge 40, promossi gli altri quattro. I quattro quesiti di abrogazione parziale della legge riguardano: il limite alla ricerca sperimentale sugli embrioni; le norme sulle finalità, sui diritti dei soggetti coinvolti e sui limiti all’accesso (in particolare per la cancellazione totale dell’art. 1 della legge sui diritti del concepito); le norme sui limiti all’accesso alla procreazione medicalmente assistita; il divieto di fecondazione eterologa.
L’inammissibilità dell’abrogazione totale della legge è un dato globalmente positivo, che prende atto di come un ritorno alla situazione ante legem equivalga ad una inevitabile ricaduta nella “procreazione selvaggia”, di cui abbiamo oggi sotto gli occhi tutte le drammatiche conseguenze: 30.000 embrioni crioconservati il cui futuro è sospeso nel vuoto, centinaia di donne devastate da pratiche di fecondazione invasive e pericolose, coppie esaurite psicofisicamente ed economicamente da centri di riproduzione assistita fatiscenti, situazioni aberranti e paradossali di moltiplicazione delle figure genitoriali (madre genetica, madre gestazionale o surrogata o sostitutiva, madri e padri legali o sociali, padre biologico, madri-nonne e padri postumi), e poi scioccanti annunci di clonazione umana, e ancora perdita di embrioni a milioni.
Questi pericoli non sono però scongiurati. Se i quattro residui quesiti referendari dovessero passare, infatti, si avrebbe di fatto una “procreazione selvaggia” legalizzata e garantita a norma di legge, perché, con limitazioni unicamente procedurali, consentirebbe pressoché qualunque “fantasia procreativa”. I promotori del referendum totalmente abrogativo lo sanno, come mostra la dichiarazione di Andrea Maori, membro del Comitato nazionale dei Radicali Italiani e segretario del Centro di iniziativa radicale di Perugia (14 gennaio 2005): «Combatteremo fino in fondo la battaglia referendaria sui quesiti di abrogazione parziale, […] che, se vincessero 4 “SI”, comunque produrrebbero lo svuotamento di una legge violenta e proibizionista».
La campagna elettorale referendaria dunque è entrata nel vivo, con ogni evidenza. Il confronto è reso complicato dal fatto che non si raggiungono facilmente tutti i cittadini con una corretta informazione, e molti rischiano di arrivare alle soglie della consultazione referendaria avendo in mente unicamente qualche slogan, applicato con superficialità o con malizia all’ambito della procreazione artificiale umana: «perché non avere un figlio sano?», «milioni di malati guariranno con le staminali», «la legge 40 è contro le donne», «bisogna dare a tutti la possibilità di avere un figlio», e così via.
La stessa formulazione dei quesiti può trarre in inganno, perché tecnicamente “propone” solo di eliminare qualche parola dagli articoli di legge, dando forse l’idea che la sostanza rimanga invariata, anche perché, estrapolate dal contesto, queste “parole” non dicono molto. Pochi, ad esempio, crederebbero che una domanda come la seguente possa stravolgere una legge: «Volete voi che sia abrogata la legge 19 febbraio 2004, n. 40, avente ad oggetto “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, limitatamente alle seguenti parti: […] Articolo 14, comma 1, limitatamente alle parole: “la crioconservazione e”?».
Si tratta invece di una parte importante di un quesito referendario, volto ad eliminare i limiti imposti dalla normativa alla sperimentazione con gli embrioni umani, e a consentire per converso la conservazione di embrioni congelati a scopo di ricerca, la clonazione cosiddetta terapeutica e in generale la ricerca scientifica effettuata su cavie umane allo stadio embrionale (3). L’equiparazione degli embrioni a “materiale” da laboratorio è molto grave. Dal momento che la biologia ha provato da tempo che dal concepimento il nuovo organismo è a tutti gli effetti un essere umano, e che la riflessione filosofica conduce ad individuare in ogni essere umano una persona, tale utilizzo degli embrioni rappresenta una violazione imperdonabile dell’universale diritto umano alla vita e alle migliori cure disponibili.
Erroneamente chi difende questo quesito paragona la vita di “milioni di malati” a quella dell’embrione, scegliendo i primi e non il secondo. Infatti, nel caso in cui si debba necessariamente decidere chi salvare fra due persone (poniamo un embrione e un malato di Alzheimer), è lecito decidere per una qualsiasi delle due, poiché nessuna è “più degna” di continuare a vivere. Così, se affermassimo che un embrione è “più degno” del malato perché ha tutta la vita davanti, mentre un malato di Alzheimer, magari già in età avanzata, non ha più molte prospettive, compiremmo un ragionamento ingiustamente discriminatorio nei confronti dei malati. Ma vale anche il contrario: non si può pensare che la vita dei malati di Alzheimer o di talassemia valga la vita di milioni di embrioni (o anche di un solo embrione).
Per di più, qui non si tratta in alcun modo di scegliere chi salvare e chi lasciar morire, ma di sperimentare nuove terapie (finora inesistenti) in favore di alcuni malati per mezzo dell’uccisione di altri esseri umani, cioè degli embrioni. È un principio di una violenza inaudita, e stupisce persino doverne spiegare le ragioni.
È poi un dato di fatto incontrovertibile che i successi terapeutici legati all’uso di cellule staminali riguardano le staminali “adulte”, cioè quelle provenienti da organismi formati (ad esempio anche dalla placenta o dal cordone ombelicale del feto), che non solo possono essere reperite in modo eticamente lecito, ma sono più docili e governabili, e dunque effettivamente in grado di sconfiggere in futuro un numero crescente di malattie.
Un altro quesito referendario riguarda essenzialmente i “rischi per le donne” (che secondo i promotori del referendum verrebbero accresciuti dalla legge 40), e chiede una revisione sui limiti dell’accesso alla procreazione, in funzione di un maggior “successo” in termini assoluti di “bambini in braccio” (4). In altre parole, si chiede di poter produrre più embrioni di quelli necessari o auspicati per un unico impianto, e quindi di crioconservare i soprannumerari, al fine di ridurre il numero dei cicli di fecondazione a cui la donna dovrebbe sottoporsi per perseguire il “risultato”. A parte i problemi più volte richiamati relativi alla crioconservazione degli embrioni (rischio di abbandono, “scadenza”, alterazioni e morti embrionarie), vi sono due importanti obiezioni a tale prospettiva.
In primo luogo gli studi dimostrano che il numero assoluto di “bambini in braccio” non cambia sensibilmente aumentando la produzione di embrioni per ciclo, mentre è certo che aumenta la perdita di embrioni, con le conseguenze già viste di violazione della dignità umana. In secondo luogo, sembra che proprio l’applicazione rigorosa della legge possa meglio tutelare le donne, che in assenza di “limiti” sarebbero maggiormente a rischio di gravidanze multiple (nel caso vengano trasferiti più di tre embrioni) o di sedute di “embryo transfer” (potendo contare su embrioni di “riserva” si moltiplicherebbe inevitabilmente il numero dei trasferimenti) o ancora di bombardamento ormonale, dal momento che, per produrre più ovuli, occorrerebbero stimolazioni ormonali più pesanti.
Il quesito chiede inoltre di allargare l’accesso della fecondazione artificiale ai portatori di malattie genetiche, consentendo di eseguire la selezione genetica preimplantatoria per scegliere i sani ed eliminare i malati, o i probabili malati, o magari quelli che potrebbero ammalarsi in futuro, come è accaduto in Gran Bretagna, dove è stata consentita la selezione per gli embrioni portatori di un gene frequentemente associato ad una malattia ad insorgenza tardiva. È chiaro: la selezione, anche quando mossa dal legittimo desiderio di avere un figlio sano, si risolve in una discriminazione fra persone che hanno uguale diritto di continuare la loro esistenza, dunque in una mentalità apertamente eugenetica.
Il quesito riguardante “le norme sulle finalità, sui diritti dei soggetti coinvolti e sui limiti all’accesso” ricalca il quesito precedente, chiedendo anche l’eliminazione per intero dell’articolo 1, in cui i concepito è menzionato fra “i soggetti coinvolti” nel processo di fecondazione e portatori di diritti (5).
L’articolo 1 in realtà prende atto di un’ovvietà: come potrebbe l’embrione, che è lo scopo e il principale interessato delle pratiche di fecondazione, non essere “coinvolto”? si potrebbe forse pensare che non sia “soggetto”, cioè che vada equiparato ad una “cosa” senza diritti. Quale sarebbe dunque il valore dell’embrione? Un valore economico, un valore finanziario (d’investimento), un valore affettivo, un valore politico? O un valore ideologico? In una logica non radicalmente utilitaristica, il valore di un figlio ha, per i suoi genitori come per l’intera società, primariamente un valore ontologico, cioè un valore (una dignità) che scaturisce direttamente dal suo essere, l’essere di una persona affidata (donata) ad una famiglia come grande e preziosa responsabilità.
I figli si amano, per definizione, e tale amore nasce spesso ancor prima del concepimento, nel desiderio dei genitori, e inizia a crescere ben prima della nascita, nel tempo dell’attesa. Sfogliando libri con le immagini dello sviluppo fetale, la donna incinta pensa al misterioso ospite rannicchiato nel suo pancione come a una persona che esiste e che vive dentro di lei, con cui ha una comunicazione così intensa da farle percepire nel dopo-parto una strana “solitudine”, un silenzio anomalo, qualche volta un po’ di nostalgia. Non è immediato, dopo tanti mesi, abituarsi alla pancia “vuota”. E di fronte alle immagini della fecondazione le neomamme (o le “future” mamme) si fermano un attimo, perché sanno che l’avventura è iniziata proprio lì. L’embrione concepito in vitro è un figlio certamente desiderato, tenacemente voluto, di cui ci si deve occupare, anche nella legge, come di “colui che si attende”, con relativa tutela dei suoi diritti individuali.
Infine, l’eterologa (6). Un quesito referendario vuole reintrodurre il ricorso a donatori e donatrici di gameti, pur rimanendo preclusa la fecondazione alle coppie omosessuali e ai single. Ma, ancora una volta, le rivendicazioni si fermano alla superficie del problema. Andando più in profondità, si comprende che la fecondazione artificiale eterologa presenta difficoltà irrisolvibili: intanto il conflitto fra diritto all’anonimato del donatore/donatrice di gameti e il diritto dei figli a conoscere i loro genitori biologici, nonché a non contrarre eventualmente matrimonio con consanguinei (dunque a conoscere anche i fratellastri biologici); poi la difficile “neutralità” della madre surrogata nel caso di affitto d’utero, soprattutto nei casi in cui questa fosse anche la donatrice di gameti (nel qual caso si configurerebbe una sorta di “adozione a contratto”); ancora l’ambiguità dello stesso termine “donazione” per i fornitori di gameti estranei alla coppia; da ultimo lo squilibrio famigliare causato dall’eterologa.
Dicono Di Pietro e Sgreccia nel volume Procreazione assistita e fecondazione artificiale tra scienza, bioetica e diritto (La Scuola, Brescia 1999) che «la famiglia artificiale è una famiglia potenzialmente a rischio di patologie relazionali» (p. 173). Il senso di “estraneità” che nel tempo può venirsi a creare nel genitore non biologico ha portato ad esempio negli Stati Uniti, dove l’eterologa è ammessa, al divieto di disconoscimento di paternità, in conseguenza dell’alto numero di richieste di questo tipo nei padri unicamente “sociali”. Né vale il confronto con l’adozione: in questo caso la coppia parte da un dato di fatto, ovvero l’esistenza di un bambino abbandonato che ha bisogno di una famiglia, e per questo si assume con generosità tutti rischi dell’adozione stessa, attraverso una lunga e spesso estenuante fase di indagine sulle proprie condizioni di “stabilità” e di preparazione psicologica. Nell’eterologa il bambino (e la coppia) viene posto premeditatamente in simili condizioni di maggior debolezza, salvo poi sostenere che si tratta di un atto di amore.
Amore per chi? Per il bambino desiderato o per il proprio desiderio del bambino?
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(1) Si consideri in particolare la dibattuta questione dell’ootide, che rappresenterebbe per alcuni un momento successivo alla fecondazione ma antecedente alla formazione della nuova entità umana, una sorta di “limbo” in cui verrebbe a trovarsi il nuovo organismo in attesa di “diventare” umano.
(2) C. Mantovani, La Procreazione Medicalmente Assistita: alcune considerazioni dopo l’approvazione della legge n. 40 del 19 febbraio 2004, «Cristianità», 323, maggio-giugno 2004, p. 12.
(3) Quesito referendario parzialmente abrogativo “Per consentire nuove cure per malattie come l’Alzheimer, il Parkinson, le sclerosi, il diabete, le cardiopatie, i tumori” (proposto da Ds con l’appoggio di gruppi parlamentari di Margherita, Nuovo Psi e Pri): « “Volete voi che sia abrogata la legge 19 febbraio 2004, n. 40, avente ad oggetto “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, limitatamente alle seguenti parti: Articolo 12, comma 7, limitatamente alle parole: “discendente da un’unica cellula di partenza, eventualmente”; Articolo 13, comma 2, limitatamente alle parole: “ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative”; Articolo 13, comma 3, lettera c), limitatamente alle parole: “di clonazione mediante trasferimento di nucleo o”; Articolo 14, comma 1, limitatamente alle parole: “la crioconservazione e”?».
(4) Quesito referendario parzialmente abrogativo “Per la tutela della salute della donna” (proposto da Ds con l’appoggio di gruppi parlamentari di Margherita, Nuovo Psi e Pri): « “Volete voi che sia abrogata la legge 19 febbraio 2004, n. 40, avente ad oggetto “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, limitatamente alle seguenti parti: Articolo 1, comma 1: “Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana”; Articolo 1, comma 2: “Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità”; Articolo 4, comma 1: “Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico”; Articolo 4, comma 2, lettera a), limitatamente alle parole: “gradualità, al fine di evitare il ricorso ad interventi aventi un grado di invasività tecnico e psicologico più gravoso per i destinatari, ispirandosi al principio della”; Articolo 5, comma 1, limitatamente alle parole: “Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1”; Articolo 6, comma 3, limitatamente alle parole: “Fino al momento della fecondazione dell’ovulo”; Articolo 13, comma 3, lettera b), limitatamente alle parole: “e terapeutiche, di cui al comma 2 del presente articolo”; Articolo 14, comma 2, limitatamente alle parole: “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre”; Articolo 14, comma 3 limitatamente alle parole: “per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione” ; nonché alle parole: “fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile”?».
(5) Quesito referendario parzialmente abrogativo “Per l’autodeterminazione e la tutela della salute della donna” (proposto dalle donne Cgil e da un gruppo di parlamentari Ds): « “Volete voi che sia abrogata la legge 19 febbraio 2004, n. 40, avente ad oggetto “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, limitatamente alle seguenti parti: Articolo 1, comma 1: “Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”; [ …]», segue come il quesito precedente (cfr. nota 44).
(6) Quesito referendario parzialmente abrogativo “Per la fecondazione eterologa” (proposto da Ds con l’appoggio di gruppi parlamentari di Margherita, Nuovo Psi e Pri): «”Volete voi che sia abrogata la legge 19 febbraio 2004, n. 40, avente ad oggetto “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, limitatamente alle seguenti parti: Articolo 4, comma 3: “E’ vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo”; Articolo 9, comma 1, limitatamente alle parole: “in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3”; Articolo 9, comma 3, limitatamente alle parole: “in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3”; Articolo 12, comma 1: “Chiunque a qualsiasi titolo utilizza ai fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente, in violazione di quanto previsto dall’articolo 4, comma 3, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 300.000 a 600.000 euro”; Articolo 12, comma 8, limitatamente alla parola: “1”?».