ALFREDO MANTOVANO, Cristianità n. 249 (1996)
Il 30 novembre 1995 il Senato ha approvato la proposta di legge n. 3509, contenente Norme per la manifestazione di volontà per il prelievo di organi, tessuti e cellule per il trapianto terapeutico, e la proposta è stata trasmessa il giorno successivo alla Camera dei Deputati. Una delle disposizioni del testo che ha sollevato le maggiori preoccupazioni è quella del 4° comma dell’articolo 2, che prevede il silenzio-assenso. Il meccanismo che lo regola è il seguente: nei tre mesi dall’entrata in vigore della legge le unità sanitarie locali — così si legge nell’articolato, anche se le USL con tale denominazione non esistono più — notificano agli assistiti l’invito a manifestare la volontà di donare gli organi; i destinatari sono tenuti a rispondere nei successivi tre mesi recandosi nei locali dell’ente, e la loro risposta viene annotata sulla tessera sanitaria: la mancata annotazione equivale a consentire l’espianto.
Il primo problema che porrebbe la norma, se fosse approvata in via definitiva, è di ordine pratico, e attiene all’individuazione delle modalità per garantire che in novanta giorni si realizzino cinquanta e più milioni di valide notifiche, posto che gli ufficiali giudiziari e i messi sono già insufficienti per provvedere alle notifiche che riguardano atti giudiziari e amministrativi, e che la dizione “nelle forme di legge”, adoperata dalla proposta per qualificare il sistema delle notifiche stesse, non specifica se le forme siano quelle del codice di procedura penale, del codice di procedura civile oppure delle leggi amministrative, e che cosa accade se il domicilio è inesatto, incompleto o sconosciuto; non si tratta di questioni superficiali, perché, se è vero — per esempio — che il processo penale assicura, con un sistema molto articolato, che l’imputato sia messo a conoscenza dell’esistenza di un processo a suo carico, sì che all’emissione di un decreto d’irreperibilità si perviene soltanto dopo vane ricerche da parte degli organi allo scopo incaricati, non si comprende per quale ragione non debba valere un rigore simile, se non superiore, nell’ipotesi in cui siano in gioco beni ancora più importanti della libertà personale.
Invece, il tutto si traduce nella concreta assenza di garanzie per scongiurare il rischio di una presunzione di consenso conseguente alla completa ignoranza dell’interessato, che magari ha avuto il solo torto di cambiare residenza senza informare l’azienda sanitaria locale di appartenenza. Per tacere che l’annotazione del dissenso sul libretto sanitario non tutela dall’espianto coatto; infatti, il 2° comma dell’articolo 8 stabilisce che, nell’impossibilità di “prendere visione della tessera sanitaria” o “di accedere ai dati” relativi al consenso o al dissenso manifestati, tali consenso o dissenso possono essere sostituiti all’occorrenza dalla testimonianza del coniuge, dei figli o dei genitori, sì che a chi dissente conviene circolare con il libretto sanitario bene in evidenza, per impedire che altri decidano per lui.
Perplessità, per dire il meno, attengono anche alla fissazione a sedici anni dell’età minima per la valida manifestazione di volontà, quando la capacità di agire si acquista al diciottesimo anno di età; alla mancanza di garanzie di riservatezza in ordine all’espressione del consenso e del dissenso — il che lascia spazio, per esempio, alla possibile strumentalizzazione della notizia in occasione del conferimento di incarichi pubblici a chi abbia a suo tempo esplicitato il dissenso — e all’autorizzazione a che genitori e tutori consentano la donazione al posto dei figli minori di sedici anni o degli interdetti, quasi che gli organi di costoro siano res familiae. Perplessità, ancora, riguardano l’obbligo, che l’articolo 4 del testo, al 3° comma, pone a carico dei “medici di medicina generale”, d’informare i pazienti “sulle misure adottate con la presente legge e su tutta la tematica dei trapianti”. Il grado d’insidiosità della norma dipende dal tipo di risposta all’interrogativo sul taglio dell’informazione che la proposta sollecita; infatti, l’indipendenza professionale verrebbe compromessa se si considerasse il medico vincolato all’elencazione pura e semplice delle procedure e a un acritico stimolo alla donazione, con la preclusione dell’esposizione contestuale delle eventuali riserve nutrite in materia. La previsione, contenuta nella stessa norma, della vigilanza dell’ordine professionale sull’adempimento di quell’obbligo apre la prospettiva a un procedimento disciplinare nell’ipotesi in cui ragioni di coscienza prevalgano sulle esortazioni rivolte ai pazienti a dichiararsi donatori.
Più in generale, è discutibile la stessa ammissibilità dell’istituto del silenzio-assenso in una materia di tale delicatezza. Infatti, finora il silenzio-assenso è stato utilizzato esclusivamente nei rapporti fra privato e pubblica amministrazione, in casi limitati e circoscritti, caratterizzati dalla semplicità del procedimento e del contenuto del provvedimento. La legge lo ha configurato come una sorta di fictio juris: l’inerzia dell’ente pubblico diventa un semplice fatto sul cui presupposto si basa la previsione legislativa per esigenze di rapidità e per dare espansione alle posizioni soggettive dei privati, garantite costituzionalmente, che chiedono un provvedimento alla pubblica amministrazione. Così avviene per gli interventi edilizi di manutenzione straordinaria, per l’iscrizione di cooperative nel registro prefettizio, per l’esecuzione di nuove opere in prossimità del demanio marittimo, e così via: il decorso di un termine variante, a seconda dei casi, fra i novanta e i centoventi giorni dalla presentazione dell’istanza è idoneo a far ritenere formato il provvedimento; così non avviene, al contrario, per procedimenti amministrativi più articolati, come quelli di programmazione urbanistica, che esigono l’esercizio del potere discrezionale della pubblica amministrazione.
Chiunque è in grado di apprezzare quanto un istituto del genere, che conosce tali limiti e cautele, si presti a valere su un terreno così coinvolgente sul piano personale come quello dei trapianti, nel quale si valuta non già una condotta inerte dell’ente pubblico, ma la mancata scelta di un essere umano che può ignorare del tutto i termini della questione, e comunque può nutrire ragioni d’incertezza o di perplessità, non risolvibili in termini tassativi, sulla sorte di sé stesso e del proprio corpo. La valutazione va eseguita peraltro alla stregua della tendenza — affermatasi negli ultimi decenni — di valorizzazione del consenso informato del paziente al trattamento del medico, e in particolare a interventi rischiosi, pur se a scopi terapeutici: una tendenza con la quale la proposta passata al Senato confligge radicalmente perché per gli espianti prescinde addirittura dal consenso, e anzi lo presume.
S’impone una rilettura dell’articolato alla Camera. Né si obietti che in questo modo si umilia l’esortazione alla solidarietà di fronte alle possibilità di salvare vite umane con il trapianto di organi vitali. È vita anche quella di colui che viene di volta in volta individuato come donatore: il quale in ogni caso, quand’anche non vi fossero dubbi sulla definitività della sua morte — ma non mancano dubbi relativi all’accertamento basato sul doppio elettroencefalogramma eseguito con l’intervallo delle sei ore, secondo le norme contenute nella legge n. 578 del 29 dicembre 1993 e nel decreto di attuazione del ministro della Sanità n. 582 del 22 agosto 1994 —, non può essere espropriato forzatamente di parti del corpo. A meno che non si scambi la solidarietà per quel collettivismo di stampo scandinavo che include la disponibilità della vita delle persone, e in particolare di quelle più deboli, perché incapaci di opporsi.
Ma questa è la medesima solidarietà da carnefice in base alla quale, come sta avvenendo in alcuni paesi dell’Europa Settentrionale, agli ammalati anziani e difficili vengono sospese assistenza e cure mediche per ragioni economiche e per far posto alle terapie verso i più giovani e i meno infermi.
Alfredo Mantovano