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COP25, fallimento annunciato

18 Dicembre 2019 - Autore: Michelangelo Longo

di Michelangelo Longo

«Sembra che la Cop25 di Madrid stia fallendo. La scienza è chiara, ma la si sta ignorando. Qualunque cosa accada non ci arrenderemo mai. Abbiamo solo appena iniziato», scrive su Twitter l’attivista Greta Thunberg. La narrazione del mondo soffocato dalla CO2 emessa dai Paesi ricchi insomma continua. Sono loro che, antipatici ed egoisti, hanno fanno fallire anche il COP25 di Madrid.

Ma anzitutto che cosa è il COP25? È l’acronimo di Conferenza delle parti (cioè tutti i Paesi del mondo) che dal 1995 si riuniscono annualmente per concordare una strategia comune a fronte del riscaldamento globale di origine antropica. L’ultima edizione si è svolta a Madrid dal 2 al 13 dicembre 2019 (con due giorni in più per trovare un accordo che però non è stato trovato).

Greta dice che la scienza parla chiaro, vero. La scienza dice infatti che, senza dubbio, è in corso un aumento della temperatura media terrestre. Dice che il riscaldamento non è un fenomeno nuovo (ci sono stati almeno due periodi caldi che hanno interessato la storia umana, intorno all’anno zero e intorno all’anno mille). Dice che l’innalzamento della temperatura produce conseguenze, ma che non sempre sono conseguenza catastrofiche: più CO2 nell’atmosfera terrestre significa per esempio maggiore produzione di biomassa. La scienza dice anche che l’aumento della CO2 segue l’aumento della temperatura e non il contrario. Ciò detto, quel che segue sono solo ipotesi. Magari di lavoro, ma sempre e solo ipotesi. Là dove non raggiunge un accordo condiviso la scienza cerca sempre di desumere conclusioni dai dati che ha a disposizione, ma interpretare le ipotesi come fossero teorie dimostrate e persino come leggi fisiche è un’operazione squisitamente scorretta e dunque ideologica.

La narrazione di Greta oggi e dei catastrofisti ieri continua invece a mettere sotto accusa gli “occidentali ricchi” che non vorrebbero salvare il mondo.

Certo, l’economia mondiale corre su autostrade di petrolio, ma questa stessa economia è quella che nutre le persone. Nel 2013 a Liegi, in Belgio, è stata chiusa un’acciaieria di AcelorMittal: migliaia di persone sono rimaste senza lavoro, ma le emissioni di CO2 non si sono azzerate. Quale uomo politico si azzarderebbe a togliere il pane di bocca ai propri elettori? Del resto anche la cosiddetta green economy ha il proprio bel giro di affari: si stima che si aggiri attorno al miliardo di dollari al giorno. Questi denari vengono tutti investiti per la lotta alla CO2 prodotta dall’uomo, ma se invece fossero impiegati nella ricerca tecnologica con lo scopo di risolvere le criticità odierne?

Se è vero che il clima cambia indipendentemente dall’uomo (allo stato attuale non si ha notizia di impianti industriali emittenti CO2 inaugurati da un qualche feudatario del secolo X), le scelte più ragionevoli che si possano fare sono di altra natura. Se il clima cambia e le temperature si alzano e di conseguenza si innalzano i mari, forse sarebbe meglio studiare come costruire alternativamente le città di domani o investire in tecnologia efficiente a protezione di quelle attuali.

Il problema vero sembra però essere un altro. L’uomo è un predatore, il più efficiente e letale di tutti. L’unico ostacolo in grado di fermarlo è l’uomo stesso. Fino qui i “gretini” hanno ragione; ma, come spesso accade su questi grandi temi, è la risposta a una domanda vera quella che è sbagliata. Nell’evo moderno l’uomo ha intrapreso un percorso culturale che lo ha portato a identificare il centro del mondo con il proprio io; l’uomo non considera dunque più se stesso come parte di un tutto, bensì si concepisce come signore di un regno proprio. Dunque, per tenerlo a freno si dice occorra una forza altrettanto importante, esterna: per esempio lo Stato o una ideologia (magari pericolosamente fuse), previa una narrazione che tenga l’uomo sottomesso.

Riconoscere invece intelligentemente la realtà circostante per quella che è conduce ad altro: l’uomo non è il signore di un regno personale, si trova piuttosto immerso in un groviglio di relazioni ricche e fondanti. L’ipertrofia del proprio io ha impoverito l’uomo. Riscoprire le relazioni umane consentirebbe invece un approccio più fecondo con il creato. Non è il desiderio individuale dell’uomo che ne governa l’azione, ma la consapevolezza di essere parte di un mondo che non gli appartiene e che è chiamato soltanto a custodire, a renderlo bello. Questo approccio può condurre fuori dal loop della post-modernità (se la mancanza di un senso comune impedisce che l’uomo decida per sé, finisce che qualcuno o qualcosa di esterno costringa alla sottomissione), riconoscendo che il creato merita rispetto senza nessuno che mi violenti la coscienza da una barca a vela in mezzo all’Atlantico…

Mercoledì, 18 dicembre 2019

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