Con un’attesa decisione, n. 135 depositata il 18 luglio 2024, la Corte Costituzionale ha rigettato integralmente le questioni di legittimità sollevate dal GIP di Firenze, che miravano a estendere le ipotesi di legalizzazione del suicidio assistito.
di Francesco Farri, dal sito del Centro studi Livatino
1. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 135/2024, impone un chiaro stop alle istanze di estensione dei casi di non punibilità dell’aiuto al suicidio.
La Corte, in particolare, ha ritenuto ragionevole e conforme a Costituzione la delimitazione, da essa stessa precedentemente stabilita con sentenza n. 242/2019, della non punibilità dell’aiuto al suicidio ai soli casi in cui il paziente sia sottoposto a “trattamenti di sostegno vitale”.
A fronte dei dubbi del GIP di Firenze, che riteneva tale delimitazione discriminatoria nei confronti di chi a tali trattamenti non fosse sottoposto, i giudici della Consulta hanno definitivamente chiarito (par. 7.1. della sentenza) che “il requisito della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale svolge, in assenza di un intervento legislativo, un ruolo cardine nella logica della soluzione adottata con l’ordinanza n. 207 del 2018, poi ripresa nella sentenza n. 242 del 2019”. Infatti, la Corte “non ha riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile, ma ha soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Una simile ratio, all’evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti dal punto di vista della ratio adottata nelle due decisioni menzionate; sicché viene meno il presupposto stesso della censura di irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, formulata con riferimento all’art. 3 Cost.”.
Va ricordato, infatti, che il principio di uguaglianza impone di trattare in modo diverso situazioni oggettivamente diverse e, con riferimento alla problematica di cui si discute, la sottoposizione o meno a trattamenti di sostegno vitale risulta una condizione obiettivamente diversa, tale da giustificare e, anzi, da richiedere un trattamento giuridico diversificato.
2. Nell’affrontare e rigettare le altre questioni di costituzionalità sollevate dal GIP di Firenze, la Corte ha avuto modo di ribadire i limiti intrinseci dell’ammissibilità dell’aiuto al suicidio secondo il nostro ordinamento.
In particolare, la Corte ha messo in guardia da una lettura puramente soggettivistica del diritto alla vita e all’autodeterminazione individuale (par. 7.2.): “se è vero che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino, essa crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost. I rischi in questione non riguardano solo la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona che compia la scelta di porre termine alla propria esistenza, ma riguardano anche – come si è osservato (Corte suprema del Regno Unito, Nicklinson e altri, paragrafo 228) – la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una ‘pressione sociale indiretta’ su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte”.
Appare di assoluto rilievo che la Corte abbia evidenziato, con tanta chiarezza, il rischio della “pressione sociale indiretta” che una legislazione sul suicidio assistito si presta a generare, rischio già più volte posto in evidenza dal Centro Studi Livatino.
Sotto altro profilo la Corte, nel ribadire che non esiste un “diritto a morire”, ha richiamato (par. 7.3.) l’attenzione sul fatto che, “dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga. Sicché, come sottolineato anche da vari amici curiae [fra cui il Centro Studi Livatino], certamente non potrebbe affermarsi che il divieto penalmente sanzionato di cui all’art. 580 cod. pen. costringa il paziente a vivere una vita, oggettivamente, “non degna” di essere vissuta”.
3. La sentenza si pone, dunque, in continuità con la giurisprudenza precedente, nulla concedendo alle istanze di (ulteriori) balzi perorate dall’ordinanza di rimessione e, anzi, per alcuni profili mostrando sviluppi argomentativi di particolare pregio.
Ciò non significa, naturalmente, che la stessa giurisprudenza precedente, cui la Corte si conforma, andasse esente da critiche.
Come ricordato anche di recente dalla CEDU, infatti, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non impone di escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio neppure nei casi in cui la Corte Costituzionale Italiana aveva ritenuto, invece, nel 2019, che la punizione dell’aiuto al suicidio fosse da considerarsi contraria a Costituzione.
Nella sentenza Karsai c. Ungheria, del 13 giugno 2024, infatti, la CEDU ha chiarito che non è necessario secondo la Convenzione prevedere eccezioni al divieto di suicidio assistito (parr. 159-163) e che sanzionarlo penalmente è “senza dubbio” una misura intrinsecamente legittima, in quanto persegue gli obiettivi pienamente legittimi di proteggere la vita delle persone vulnerabili a rischio di abuso, di mantenere la piena integrità etica della professione medica e anche di tutelare la morale della società nel suo insieme per quanto riguarda il significato e il valore della vita umana (par. 137). Si rinvia, al riguardo, a https://www.centrostudilivatino.it/corte-di-strasburgo-non-esiste-un-diritto-alla-morte-sanitariamente-assistita/
Allo stesso modo, appare eccessiva la qualificazione che la sentenza conferisce della legge sulle d.a.t. come “attuativa delle norme costituzionali” (par. 6.2.).
4. Soprattutto, appare eccessivamente ampia l’interpretazione, che la sentenza fornisce, del concetto di “trattamenti di sostegno vitale” (par. 8 della decisione).
A quest’ultimo riguardo, vanno peraltro osservati due profili.
Sul piano sostanziale, pur nell’ambito di tale interpretazione teleologica, la Corte precisa la necessità di una valutazione “unitaria” del requisito rispetto agli altri previsti dalla giurisprudenza come condizioni per scriminare l’aiuto al suicidio. Segnatamente, la Corte ribadisce la necessaria esistenza di tre requisiti, che devono sussistere congiuntamente al fine di ritenere scriminata una condotta di aiuto al suicidio (par. 8, ultimo capoverso):
(i) una correlazione tra la tipologia di trattamento di sostegno vitale, cui il soggetto è sottoposto, e una “patologia incurabile” che il trattamento stesso miri a fronteggiare e tale per cui l’interruzione del trattamento “determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo“. Ciò con la conseguenza che, per riprendere un esempio operato dalla sentenza, la circostanza che il paziente necessiti di manovre per l’evacuazione manuale dell’intestino non potrà giustificare l’aiuto al suicidio laddove il soggetto non soffra di una “patologia incurabile” relativa alle funzioni intestinali. Né la presenza di un catetere urinario, per riprendere un altro esempio della sentenza, potrebbe giustificare l’aiuto al suicidio laddove il catetere serva semplicemente a favorire la funzione senza tuttavia che la sua rimozione possa prevedibilmente causare la morte in tempo breve, laddove alla luce della materia di cui si tratta la brevità del lasso di tempo non può certo ragionevolmente valutarsi in termini di giorni, quanto necessariamente di unità di misura del tempo inferiori;
(ii) la presenza di una sofferenza intollerabile da commisurarsi, non già in senso puramente soggettivo, ma in relazione alla oggettiva “controllabili[tà] attraverso appropriate terapie palliative”: val quanto dire che soltanto in caso di oggettiva impossibilità di palliazione (esclusa secondo la Corte la forma della sedazione continua profonda, riservata ai pazienti in condizione immediatamente terminale) sarà integrato uno dei presupposti per legittimare la richiesta di aiuto al suicidio;
(iii) la “permanenza di condizioni di piena capacità del paziente, evidentemente incompatibili con una sua eventuale patologia psichiatrica” o, è il caso di aggiungere, neurodegenerativa in stadio tale da compromettere la piena capacità d’agire del paziente.
La nozione astrattamente ampia di “trattamento di sostegno vitale” che la Corte assume, dunque, risulta assai temperata dalla confermata necessità di coordinamento con gli altri requisiti previsti dalla sentenza n. 242/2019,
Sul piano formale, poi, trattandosi di una sentenza di rigetto puro e semplice, e non di sentenza interpretativa di rigetto, l’interpretazione del concetto di “trattamenti di sostegno vitale” che la Corte espone non si presenta come costituzionalmente necessaria e, in ogni caso, non produce effetti vincolanti né nei confronti dei giudici comuni, né tanto meno nei confronti degli operatori sanitari e dei CET che, per tale ragione, saranno legittimati ad adottare, nell’ambito delle proprie competenze, una nozione di trattamenti di sostegno vitale anche meno ampia di quella incidentalmente prospettata dalla Corte.
Venerdì, 19 luglio 2024