Il c.d decreto Salvini è pienamente in linea con le disposizioni europee. L’anomalia era quella in vigore prima perché la richiesta di protezione internazionale – con ciò che ne seguiva – era lo strumento per una sanatoria di fatto e permanente. Le recenti disposizioni non eliminano la protezione umanitaria, ma la razionalizzano e la collegano a indici obiettivi.
Sorprende quindi la protesta di alcuni sindaci sull’applicazione della norma, tanto più che in precedenza molti primi cittadini, e con essi la stessa ANCI, avevano chiesto di snellire e razionalizzare la disciplina italiana.
Sorprende anche la presa di posizione di alcuni ambiti ecclesiali che evocano in materia l’obiezione di coscienza. Un atteggiamento non avuto in altri casi, come per la legge Cirinnà o per quella sulle dat.
Sorprende la protesta di alcuni sindaci contro il c.d. decreto Salvini – il decreto legge n. 113/2018, convertito con modificazione nella legge n. 132/2018 – quando con i precedenti governi una parte significativa di primi cittadini, e con essi la stessa ANCI, avevano chiesto di snellire e razionalizzare la disciplina italiana sulla protezione internazionale, che denunciavano come troppo estesa e onerosa.
Al di là delle pur importanti questioni di forma, la sostanza della contesa riguarda l’articolo 13 del decreto, in base al quale il richiedente asilo non può ottenere l’iscrizione anagrafica finché è in corso l’istruttoria da parte delle Commissioni asilo del Viminale, o l’eventuale successivo ricorso giurisdizionale. Ciò vuol dire che quello straniero può godere della prima accoglienza, dal mantenimento all’assistenza sanitaria – sono scorrette le descrizioni di masse di sbandati abbandonati a sé stessi -, ma non le misure di integrazione che spettano a chi sia entrato in Italia in modo regolare, ovvero a chi abbia già ottenuto la protezione internazionale. Ciò perché il decreto accelera le pratiche di asilo, sia davanti alle Commissioni, il cui personale è stato moltiplicato, sia nella fase del ricorso al giudice: logico quindi che esso non permetta il radicamento a una persona che nella gran parte dei casi ha proposto una domanda infondata ed è destinato a essere espulso.
Il nuovo sistema è in linea con le disposizioni europee, mentre l’anomalia era quella in vigore prima: negli ultimi anni la richiesta di protezione internazionale, e ciò che ne seguiva, era diventato lo strumento per una sanatoria di fatto e permanente. Col vecchio regime il migrante arrivato in modo non regolare puntava quanto meno alla protezione umanitaria, ma i tempi erano lunghissimi, tra esami, ricorsi e giudizi. Così, dopo 4 o 5 anni o il richiedente asilo, non avendo alcun titolo alla protezione, restava sul territorio nazionale incrementando l’area della irregolarità; oppure in sede giudiziaria per concedere la protezione umanitaria si badava non già alle condizioni dello Stato di origine, ma all’iniziale inserimento del migrante nel contesto italiano. Era questa – non quella attuale, come lamentano i sindaci di Palermo e di Napoli – la vera violazione della legge, poiché la tutela internazionale non è lo strumento per disciplinare l’ingresso regolare nell’Unione europea.
Le nuove disposizioni non eliminano la protezione umanitaria, ma la razionalizzano e la collegano a indici obiettivi: una epidemia in corso nel paese di provenienza, o una grave malattia del richiedente, o l’essere vittima di tratta o di sfruttamento, o aver compiuto atti di elevato valore civile. In tutti questi casi, ulteriori rispetto allo status di rifugiato o alla protezione sussidiaria, il richiedente ottiene permessi di soggiorno temporanei: al posto di una voce unica, generica e passibile di arbitrii applicativi, oggi viene specificata la tipologia delle ragioni che legittimano la protezione.
Altrettanto sorprendente è che da ambiti ecclesiali si evochi l’obiezione di coscienza del sindaco davanti alle nuove norme. Posto che il richiamo alla coscienza è qualcosa di diverso dal dissenso politico, la lettura delle nuove disposizioni, inserite nel quadro d’insieme dell’ordinamento, anche europeo, non fa cogliere alcun contrasto con quel quadro essenziale di principi etici, antropologicamente fondati, che è alla base del diritto di obiezione. Avremmo voluto ascoltare richiami analoghi quando è entrata in vigore la legge Cirinnà, che chiama il sindaco a registrare unioni civili prossimi ai matrimoni gay, o la legge sulle dat, che spinge il medico a trattamenti eutanasici (entrambe le leggi non prevedono l’obiezione di coscienza).
Alleanza cattolica, associazione ecclesiale, auspica che l’approccio a materie complesse come quella delle migrazioni, sia libero da condizionamenti ideologici che rischiano, pur con le migliori intenzioni, letture distorte di una realtà difficile.