di Domenico Airoma
E’ il titolo di un racconto scritto da C.S. Lewis. Descrive la malattia della moglie e la sua sofferenza nel vederla lentamente spegnersi. Da qualche tempo mi sembra di versare nella stessa condizione.
Assisto all’agonia di colei che da più di trent’anni è parte integrante del mio orizzonte di vita: la Giustizia, seppur nel sembiante degli uomini di questo tempo e di questo nostro Paese.
E quel che più mi addolora non è solo e tanto lo spettacolo marcescente di un corpo sfigurato dall’ossessione del potere, dal mercimonio della toga, dal tradimento di un giuramento di fedeltà alla sacralità di una missione; quel che mi intristisce è l’accapigliarsi in pubblico, l’enunciazione sofistica di distinguo, il dito puntato verso gli altri.
Mi intristisce ma non mi meraviglia. Purtroppo.
Il tramonto delle famiglie ideologiche, infatti, ha segnato anche la magistratura. Non che fosse un bene la teorizzazione dell’uso della giurisdizione per nuovi ed alternativi assetti di potere. Non lo era; come non lo è nessuna forma di strumentalizzazione del giudicare per fini diversi da quello che deve restare la sola divisa del magistrato: dare a ciascuno il suo.
Il problema è che alle correnti come gruppi contrassegnati da un’appartenenza ideale o ideologica, sono subentrate lobbies sempre più trasversali, animate da un unico obiettivo: spartirsi incarichi e prebende, formare alleanze tra controllori e controllati.
Sia ben chiaro: non c’è alcuna intenzione ipocritamente moralistica in quel che dico. Nihil humanum a me alienum puto. Anche chi scrive ha la sua parte di responsabilità. Non foss’altro per non aver denunciato; forse faceva velo l’amore che spingeva a coprire le vergogne dell’amata. Ma non è una giustificazione.
Se il presente è causa di tristezza, gli scenari futuri non lasciano tranquilli. Ci saranno i processi; forse condanne. E con queste, l’illusione di riconquistare credibilità e autorevolezza. Ma non è così. La purificazione richiede una franca ammissione di responsabilità e un salutare bagno di umiltà.
Lo si dica, con chiarezza e senza ambiguità: “Abbiamo tradito la nostra missione: e di questo chiediamo scusa”. Non si cerchino attenuanti; non si guardi la pagliuzza nell’occhio altrui.
E soprattutto si incominci a riconoscere che il giudice non è un super uomo, che egli non è chiamato a creare la legge, ma ad applicarla; che non spetta a lui stabilire chi è adatto a governare e chi no. Perché l’alternativa morale ai magistrati carrieristi e inebriati del potere non è data dai giudici che si ergono ad élite sociale, pretendendo di stabilire, novelli tecnocrati, ciò che è bene e ciò che è male, quali desideri trasformare in diritti e quali diritti declassare a scomodi arredi del passato.
Si ponga, infine, in ogni aula di udienza, dinanzi al pretorio e non alle sue spalle, perché sia bene in vista a chi è chiamato a giudicare il prossimo, il seguente monito che un giudice, martire della giustizia ed indirettamente della fede, ha lasciato nei suoi pochi scritti: “per giudicare occorre la luce; e nessun uomo è luce a sé stesso”.
Prego Iddio perché illumini il mio cuore e quello di tutti i magistrati italiani. Per ritrovare la strada giusta. E per rispondere con dignità alla domanda di giustizia che troppe volte è rimasta delusa, disattesa, disprezzata.
Domenica, 24 maggio 2020