di Domenico Airoma
«Corona» (per la scienza «Covid-19») non è solo un virus che attacca le persone, ma è un male che ammorba l’aria, inaridisce i rapporti umani, desertifica le città. L’appellativo sembra denunciare l’ambizione a governare interi Paesi, oltre che a condizionare la salute dei singoli.
Non è la solita epidemia influenzale, e non solo perché si è dinanzi a un virus particolarmente insidioso e non ancora ben conosciuto. In realtà, per attecchire «Covid-19» approfitta non solo delle deficienze di organismi individuali già debilitati, ma pare che quasi si stia divertendo a mettere a nudo le debolezze strutturali del tessuto sociale del nostro mondo. E prima ancora l’ideologica pretesa di un regime, quale è quello comunista cinese, che pensava di arginare il contagio imponendo il silenzio ai medici e mettendo in gabbia il virus. Come a Chernobyl, in Unione Sovietica, nel 1986: altro regime, ma sempre comunista.
Nel nostro Paese, più che il numero dei colpiti da contagio, colpisce l’aria che si respira nelle nostre città.
A differenza di Wuhan, epicentro del morbo in Cina, non è stato necessario l’esercito per blindare le città. In Italia ci si è messi in quarantena da soli. Strade deserte, scuole chiuse, eventi annullati. Tutti segregati in casa per timore non di contagiare, ma di essere contagiati. Sguardi di sospetto, brevi incursioni nei supermercati, nessun contatto.
Cosa è cambiato rispetto ad altre epidemie influenzali, pure temibili, del passato recente? Siamo cambiati noi. Ci siamo arresi a «Covid-19» senza combattere. Il virus ha vinto prima ancora che attaccasse le persone. Ha messo a nudo l’inconsistenza di una società falsamente sicura di sé, le sue evanescenti certezze, evaporate al solo pericolo del contagio.
Cosa ci mette davanti agli occhi, realmente, «Covid-19»? Quello che siamo diventati, quello che è davvero il nostro mondo. Fatto di individualismo cieco, di egoismo edonistico, di conflittualità esasperata. E dove anche le chiese chiudono, prima ancora che vi sia, forse, una necessità reale di farlo. Quasi confessando di non poter fornire asilo a quel mondo che sta morendo, ma non per «Covid-19».
Grazie a Dio, però, ci sono ancora uomini e donne che non hanno paura del contagio del corpo; che antepongono il bene comune alla propria salute; che, con il proprio coraggio denunciano quanto sia ipocrita una società in cui, per un verso, si riconosce il diritto al suicidio e, per altro, si impedisce la libera circolazione delle persone e pure di convenire liberamente in una chiesa (dove è finita la tanto osannata autodeterminazione?).
E veniamo alla Chiesa. Ai pastori della Chiesa sia permesso chiedere che, accanto alla prudenza necessaria, non tralascino un compito che solo la Chiesa può svolgere: quello di ricordare che la paura non deve avere il sopravvento sulle relazioni, che la comunione e la solidarietà non sono parole da usare solo in determinate circostanze, che le chiese non possono rimanere chiuse perché il bisogno di Dio è ancora più forte nelle circostanze maggiormente difficili. Che Nostro Signore ci ha insegnato che «non di solo pane vivrà l’uomo» (cfr. Mt 4, 4) e che, se restano aperti i supermercati, ben lo possono essere le chiese con le relative celebrazioni.
Si respira un’aria da distopia, da sfida a una gabbia totalitaria che, però, nessun regime ha imposto, ma nella quale ci si è chiusi da soli. Distopia-19, allora, non è il titolo di un racconto uscito dalla penna di un Aldous Huxley (1894-1963): può essere il manifesto di chi si ribella al «Mondo Nuovo» di un’umanità che si è ridotta alla schiavitù. E non solo rispetto a un virus dall’aspetto beffardamente coronato.
Venerdì, 28 febbraio 2020