Nota del 13 giugno 2020.
Il 13 giugno 1799 il cardinale Fabrizio Ruffo di Baranello, alla testa dell’Armata della Santa Fede, entrava trionfalmente in Napoli, cacciandone i rivoluzionari francesi. Nella ricorrenza dell’evento riproponiamo la recensione di Francesco Pappalardo al libro di Domenico Petromasi Alla riconquista del Regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli, acquistabile on line presso la Libreria S. Giorgio.
Francesco Pappalardo, Cristianità, 250-251 (1996)
Domenico Petromasi, Alla riconquista del Regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli, con una Introduzione di Silvio Vitale, Editoriale il Giglio, Napoli 1994, pp. XXII+98, £ 18.000
La ricorrenza bicentenaria del Triennio Giacobino in Italia (1796-1799) offre l’occasione per meditare sull’origine delle insorgenze anti-rivoluzionarie e per rileggere con spirito critico quegli avvenimenti, che si pongono agli albori dell’unità italiana. Queste considerazioni valgono in modo particolare per l’insorgenza meridionale, per l’epopea della Santa Fede, che, rispetto ad altre simili vicende italiche, può essere assunta come modello per l’ampiezza del fenomeno, per la minore frammentarietà degli avvenimenti e per la presenza di un nucleo dirigente che, per quanto piccolo, sa coordinare la generosa reazione popolare. La lettura storica di quell’episodio è inquinata dalle interpretazioni di parte liberal-progressista e marxista, che ignorano la matrice religiosa delle insorgenze e riconducono il fallimento della Rivoluzione alla “immaturità” delle popolazioni. Per parte sua, la storiografia di ispirazione cattolica o legittimista ha avuto fortuna breve, anche e soprattutto in conseguenza della manipolazione del patrimonio culturale della nazione compiuta dai “vincitori”, cosicché sono stati relegati nell’oblio avvenimenti e personaggi particolarmente significativi.
La Storia della spedizione dell’Eminentissimo Cardinale D. Fabrizio Ruffo allora Vicario Generale per S. M. nel Regno di Napoli e degli avvenimenti e fatti d’armi accaduti nel riacquisto del medesimo compilata da D. Domenico Petromasi commissario di guerra e tenente colonnello de’ Reali Eserciti di S. M. Siciliana, la cui unica edizione risale al 1801, a Napoli, per i tipi di Vincenzo Manfredi, viene ripresentata con il titolo Alla riconquista del Regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli.
Il volume si apre con un’introduzione (pp. V-XVII) di Silvio Vitale, uomo politico napoletano nonché editore de L’Alfiere. Pubblicazione napoletana tradizionalista e animatore dell’Editoriale il Giglio. Silvio Vitale, dopo un breve riepilogo delle vicende della Repubblica Napoletana e dell’impresa vittoriosa del card. Fabrizio Ruffo, passa in rassegna la copiosa produzione storica ottocentesca sull’argomento e ricostruisce la polemica storiografica fra i due opposti schieramenti, individuando nell’infelice “autocensura” borbonica le radici della sconfitta culturale dei sostenitori del Trono e dell’Altare. Infatti è re Ferdinando IV a proibire, dopo la prima restaurazione, la pubblicazione di opere sul periodo repubblicano e sulla spedizione della Santa Fede, cioè “[…] su una vicenda che, seppur vittoriosa, considerava legata agli eccessi di una guerra fratricida e il cui ricordo, a suo avviso, non avrebbe fatto altro che rinfocolare rancori nefasti” (p. XIV). Dopo la spedizione dei Mille, invece, sono gli “unitari” a imporre il silenzio agli storici di parte borbonica, cosicché le vicende del 1799 sono ricordate tuttora secondo la vulgata rivoluzionaria.
Infine, Silvio Vitale traccia una breve biografia di Domenico Leopoldo Petromasi, sulla cui vita si sa poco. Nato ad Augusta, in Sicilia, da famiglia nobile, egli segue il card. Fabrizio Ruffo dall’inizio della sua impresa, ricoprendo la carica di commissario di guerra per le attività logistiche e ottenendo dal re, al termine del conflitto, il grado di tenente colonnello come riconoscimento per l’opera svolta.
Domenico Petromasi si colloca nella schiera dei cronisti di parte regia. La sua intenzione è quella di ampliare la narrazione del domenicano Antonino Cimbalo (La lunga marcia del cardinale Ruffo alla riconquista del regno di Napoli, Borzi, Roma 1967), di cui “[…] si fece spaccio di tutte le copie” (p. XIX), e di descrivere non soltanto la marcia dell’esercito della Santa Fede dalle Calabrie a Napoli, della quale era stato “testimonio di veduta” (ibidem), ma anche le operazioni militari che avevano portato alla liberazione del Regno e dello Stato Pontificio.
Attenzione particolare è da lui dedicata agli aspetti logistici dell’impresa — dalla confezione delle uniformi all’improvvisazione dell’armamento, dall’organizzazione della tesoreria all’approntamento degli ospedali da campo e della tipografia, fino alla costituzione di una banda musicale —, che danno il senso delle difficoltà affrontate dall’Armata Cristiana e Reale. Rifulgono in quei frangenti la forza d’animo e le capacità organizzative del card. Fabrizio Ruffo, la sua familiarità con i soldati, l’intensa opera di animazione e di direzione, tutti elementi determinanti ai fini della riuscita vittoriosa dell’impresa. Uomo di molte capacità, amministratore sagace, “di rari talenti dotato dalla natura, e di straordinario coraggio fornito dal Cielo” (p. 1), il cardinale possedeva le qualità del condottiero: era risoluto, ponderato e aveva un innato senso del limite e del momento opportuno. Fin dall’inizio la sua azione è molto energica e presto la sua mano organizzatrice si fa sentire. Durante l’avanzata concede alleggerimenti fiscali ai contadini e mostra un volto austero di giustizia, confiscando i terreni di quei nobili, fra i quali suo fratello Vincenzo, che avevano abbandonato il loro posto; d’altro canto, è inflessibile nel reprimere gli attacchi alla legittima proprietà, fino a ordinare la fucilazione dei predatori e dei violenti. Attento alle esigenze della popolazione, si presta volentieri a ricevere “con pubblica giornaliera udienza” tutti coloro che avevano problemi e controversie da risolvere, “[…] ed ognuno pago rimane di quella giustizia […]. Un tal sistema non lasciò di praticarsi per l’intero corso della Campagna, onde le popolazioni tutte del Regno fossero servite nel miglior modo che si dovea, e poteano permetterlo le circostanze del tempo” (p. 9). Al termine del conflitto, egli si adopera invano affinché la pacificazione auspicata da tutti non sia il frutto di un compromesso con i rivoluzionari, ma miri a ricostituire concretamente il tessuto sociale lacerato e, soprattutto, possa far leva sulla preparazione dottrinale della classe dirigente e sulla messa in guardia della popolazione contro la penetrazione settaria. Ma re Ferdinando IV, che voleva accentuare il dispotismo dell’”assolutismo illuminato”, perde l’occasione di una restaurazione integrale e il cardinale viene emarginato appena possibile. E purtroppo le calunnie hanno degradato fin da allora la nobile figura del card. Fabrizio Ruffo, presentato come generale predone, capo di orde di briganti e di galeotti; la storiografia ufficiale ha tramandato soltanto gli eccessi dei suoi uomini, ingigantiti dal tempo, cosicché lui e la Santa Fede hanno finito con il soffrire da parte dei posteri più ingiusti giudizi che dai loro contemporanei.
La ricostruzione di Domenico Petromasi rende giustizia a quei valorosi e restituisce alla loro impresa il carattere di un’autentica epopea nazionale; inoltre ricorda che i volontari napoletani, per iniziativa del card. Fabrizio Ruffo, sono i primi a entrare, da liberatori, nella città di Roma — anch’essa occupata l’anno precedente dai rivoluzionari francesi —, ponendo il regno di Napoli in una condizione di parità morale nei confronti dei più potenti alleati inglesi, russi e austriaci. Tuttavia il cronista non si addentra nei risvolti politici e culturali dello scontro militare in atto, che rappresentava non più l’ennesima lotta fra case regnanti ma un conflitto fra due irriducibili concezioni del mondo e il primo attacco rivoluzionario al principio della legittimità monarchica. Invece il carattere di radicale novità del conflitto sarà colto, sul versante rivoluzionario, soprattutto da Vincenzo Cuoco, che pubblica, nel 1800, il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli — nel quale individuava le ragioni del fallimento della Repubblica Napoletana proprio nella frattura operata nei confronti della storia e delle tradizioni del regno — e, nel campo legittimista, da Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, che nel 1834 raccoglie le sue riflessioni nella Epistola ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del generale Pietro Colletta (ora ristampata integralmente in Silvio Vitale, Il Principe di Canosa e l’Epistola contro Pietro Colletta, Berisio, Napoli 1969).
Ma la diligente ricostruzione di Domenico Petromasi conserva il valore della testimonianza diretta di un suddito leale che, di fronte all’indubbia radicalità del conflitto, sceglie con naturalezza il suo posto di combattimento e vuole tramandare ai posteri la “storica narrazione” di quegli avvenimenti affinché possano “inferirsi delle utili riflessioni in vantaggio della gente tutta” (p. 76).
Francesco Pappalardo