di Francesco Farri dal Centro Studi “Rosario Livatino” del 14/10/2020
1. L’ultimo dPCM in materia di emergenza sanitaria, recante la data del 13 ottobre 2020, ha chiarito un aspetto importante: con riferimento alle feste e ai ricevimenti in abitazioni private, esso specifica alla lett. n) dell’art. 1 che è “fortemente raccomandato” evitarli; non impone divieti la cui violazione sia oggetto di sanzioni, né tanto meno auspica delazioni da parte dei vicini, come incautamente prospettato da qualche ministro nei giorni scorsi.
Questa nuova disposizione suscita alcune positive riflessioni. Anzitutto testimonia che la gerarchia delle fonti e il cosiddetto “Stato di diritto” (rule of law) continuano a vivere, pur nella fase emergenziale. L’art. 14 della Costituzione vieta l’introduzione della forza pubblica nel domicilio privato, tranne casi eccezionali. Essa consente bensì ragionevoli deroghe nei casi di ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica, ma richiede a tal fine una speciale disciplina di rango legislativo, che nel caso di specie non è stata dettata. E, naturalmente, non potrebbe essere un dPCM a supplire in tal senso. Poiché le norme in tema di distanziamento sociale sono tutte di natura amministrativa, la violazione di esse non avrebbe permesso alla polizia di entrare in casa su segnalazione dei vicini neppure se il dPCM lo avesse previsto, mancando una idonea autorizzazione legislativa emanata in conformità ai principi costituzionali. Se le anticipazioni di alcuni giorni fa fossero state effettivamente recepite nel decreto, a fronte della delazione dei vicini sarebbe stato ben legittimato chi, ricevendo la visita a casa della polizia, avesse cortesemente chiuso la porta chiedendo di ripassare più tardi, dotati di un mandato di perquisizione che, ovviamente, nessun magistrato avrebbe mai potuto rilasciare.
2. Correlativamente, la disposizione del dPCM 13 ottobre 2020 testimonia che, nonostante tutto, la ragionevolezza può albergare ancora nelle pieghe dell’ordinamento giuridico. Per entrare nelle case degli italiani, si è utilizzata una “raccomandazione”, un tipico strumento di soft law: e gli italiani non mancheranno di seguirla, laddove corrisponde a un giusto principio di prudenza e precauzione. Un popolo civicamente maturo, come – al di là delle auto-querimonie e degli stereotipi – è quello italiano, dove il diritto fino a prova contraria ha trovato la propria auge da millenni, non ha bisogno della minaccia dell’intervento della polizia per rispettare regole ragionevoli a tutela della salute propria e degli altri.
Come esattamente osservato dal prof. Mauro Ronco durante il lockdown di primavera, è bene mantenere perquisizioni e manette alla doverosa repressione della delinquenza, e non utilizzarle come strumento per convincere la popolazione ad autolimitare alcune proprie libertà personali in un momento sanitario critico per il Paese. E’ giusto sanzionare chi in luogo pubblico o aperto al pubblico non indossa correttamente i dispositivi di protezione; ma il domicilio degli Italiani è e deve rimanere un’altra cosa. Il recepimento in una fonte del diritto di una “raccomandazione” a tenere comportamenti prudenti, peraltro, se non consente in caso di violazione l’irrogazione di sanzioni, potrebbe consentire agli eventuali danneggiati – non concorrenti nella violazione – di provare con maggior semplicità la sussistenza dell’elemento psicologico e, quindi, di ottenere un risarcimento dei danni patiti a seguito di tale imprudenza, laddove sia dimostrato un nesso causale con il comportamento contrario alla “raccomandazione”.
3. Quanto sopra osservato fa riflettere sul fatto che, già in generale, ma specialmente in una fase delicata come la presente e a maggior ragione quando si parli di diritti fondamentali dei cittadini, le dichiarazioni pubbliche delle autorità devono essere appropriate e prudenti. La corsa all’ironia, in cui gli italiani hanno sentito il bisogno di rifugiarsi – soprattutto sul web – a fronte di alcune ipotesi prospettate nei giorni scorsi su delazioni e controlli domiciliari, non fa altro che testimoniare il bisogno di sdrammatizzare una realtà che si presentava come angosciante e ingiusta. Inoltre, dichiarazioni avventate potrebbero dare la stura anche a comportamenti troppo “zelanti” degli incaricati del rispetto delle regole, con conseguente amplificazione del rischio che le libertà fondamentali dei cittadini siano fatte oggetto di restrizioni sproporzionate, se non di vere e proprie violazioni. Si pensi ai casi, che pur si sono davvero registrati in questo periodo di pandemia, di controlli della forza di pubblica sicurezza all’interno delle chiese.
A quest’ultimo riguardo, valgono in verità considerazioni analoghe a quelle sopra esposte per i controlli domiciliari. L’art. 9 del Concordato prevede che “la forza pubblica non può entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso all’autorità ecclesiastica”, salvo “i casi di urgente necessità”. Poiché le attività di controllo a campione non sono, per definizione, casi di urgente necessità, bensì operazioni di routine, i controlli che la polizia svolgesse nelle chiese circa il corretto uso dei dispositivi di protezione individuale, senza aver prima avvertito il Vescovo in base a ragionevoli motivi, devono in generale ritenersi illegali. E’ responsabilità del legale rappresentante dell’ente (in generale, il parroco) assicurare l’osservanza del protocollo d’intesa tra lo Stato e la Chiesa Cattolica circa le misure di sicurezza igienica per l’accesso ai luoghi sacri e per la partecipazione alle celebrazioni liturgiche: così come per le case, anche per le chiese i controlli della polizia devono fermarsi alla porta.
Al loro interno, gli italiani utilizzeranno ugualmente le migliori precauzioni per evitare rischi per la salute propria e degli altri.
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