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Freud dopo Freud: dal mito di Edipo alla rivoluzione sociale

29 Aprile 2025 - Autore: Ermanno Pavesi

Ermanno Pavesi, Cristianità n. 432 (2025)

Negli ultimi decenni la società nei Paesi occidentali ha subito grandi trasformazioni, che ne hanno messo in dubbio l’identità e indebolito le fondamenta. A volte si ammette una specie di determinismo storico, e sarebbe semplicemente il «progresso» la causa naturale di tali trasformazioni; ma, senza fare della dietrologia o del complottismo, si può riconoscere che questi sviluppi sono stati teorizzati e propugnati da alcune correnti culturali che, nonostante alcune differenze, possono essere ricondotte alla sintesi di teorie freudiane e marxiste in quello che si può definire «freudo-marxismo».

In una lettera al pastore luterano Oskar Pfister (1873-1956) il fondatore della psicoanalisi Sigmund Freud (1856-1939) ha dichiarato: «ho detto spesso che considero più importante il significato scientifico dell’a­nalisi che non il suo significato medico, e nella terapia considero più efficace il suo effetto di massa mediante la scoperta e la spiegazione degli errori che non la guarigione di singole persone» (1).

Effettivamente, Freud si è spesso dichiarato soddisfatto, grazie al­l’analisi dei suoi pazienti, soprattutto per aver elaborato complicate costruzioni per spiegare i meccanismi dei disturbi psichici dalle quali avrebbe dedotto una teoria dell’apparato psichico dell’uomo di valore universale; e ciò anche nei casi frammentari e senza miglioramento del paziente, anzi il peggioramento della sintomatologia avrebbe dimostrato che la sua analisi aveva colpito nel segno. Nel corso del tempo Freud ha ampliato i propri interessi dai conflitti delle singole persone ai grandi problemi e alle possibili cause del disagio della civiltà umana, non ultima la morale eteronoma della religione, alle quali la psicoanalisi avrebbe dovuto porre rimedio: in particolare, ha spiegato il disagio della civiltà con la sua teoria psicologica sull’origine delle nevrosi, stabilendo un nesso fra psicologia individuale e sociale.

Lo storico della psichiatria Henri Frédéric Ellenberger (1905-1993) ha confrontato alcune teorie psicoanalitiche con altre marxiste: per Karl Marx (1818-1883) l’uomo è alienato a causa delle contraddizioni sociali, mentre per Freud il nevrotico è alienato per un conflitto interiore. Le cause di queste alienazioni dipenderebbero da sovrastrutture culturali — l’ideo­logia per Marx e una morale eteronoma per Freud — costruite su una sottostruttura rispettivamente economica e pulsionale; ai fini della rivoluzione è necessaria un’analisi «storico-dialettica» che risvegli la coscienza di classe, mentre per la guarigione del paziente l’analisi delle dinamiche psichiche deve portare alla coscienza le pulsioni represse. I conflitti attuali avrebbero la loro origine nella famiglia patriarcale, caratterizzata nella visione marxista dalla proprietà privata e dalla divisione del lavoro, e per la psicoanalisi dal possesso delle donne da parte del padre nell’orda primordiale (2). Friedrich Engels (1820-1895) ha spiegato l’inizio della famiglia, della proprietà e della divisione del lavoro con il presunto passaggio da un’originaria organizzazione sociale di tipo matriarcale a quella patriarcale, precisamente «dalla caduta del diritto matriarcale, dall’in­tro­duzione del diritto patriarcale» (3); Freud ha sostenuto la stessa tesi: «accadde che all’ordinamento sociale del matriarcato subentrò quello del patriarcato, al che naturalmente andò congiunto il sovvertimento dei precedenti rapporti giuridici» (4).

Wilhelm Reich: «Il nocciolo della politica rivoluzionaria dovrà essere il problema sessuale»

Anche se Freud aveva salutato con soddisfazione l’applicazione della psicoanalisi alla pedagogia e aveva proposto l’introduzione dell’edu­cazione sessuale nei programmi scolastici, la pratica psicoanalitica era incentrata sulla terapia individuale di pazienti nevrotici. Un collaboratore di Freud, Wilhelm Reich (1897-1957), ha stabilito un nesso fra repressione sessuale e repressione sociale e ha ritenuto necessario integrare l’ap­proccio freudiano, che riduceva la repressione sociale unicamente a quella sessuale, con quello marxista, che, a sua volta, avrebbe potuto approfittare delle teorie psicoanalitiche.

Per Reich il rapporto organico fra struttura della famiglia e organizzazione dello Stato rappresenta la chiave per interpretare i movimenti di massa e gli Stati totalitari del secolo XX: nazionalismo e comunismo sovietico. Il loro successo non sarebbe dipeso tanto dal particolare carisma del «capo» o da una presunta manipolazione delle masse per mezzo della propaganda, quanto dal carattere particolare delle persone che vi aderivano: «Il fatto che questa organizzazione di massa sia riuscita va attribuito alle masse, non a Hitler» (5). Per Reich la propaganda nazionalsocialista ha potuto avere successo solo facendo presa su un particolare tipo di personalità che si era formata all’interno di una famiglia autoritaria: la struttura patriarcale della famiglia educherebbe i figli a sottomettersi supinamente al padre, rendendoli incapaci di autonomia e dipendenti da una figura simbolo dell’autorità. Sarebbe proprio questo tipo di dipendenza che predisporrebbe a sottomettersi docilmente a figure autoritarie: «La posizione autoritaria del padre riflette il suo ruolo politico e rivela il rapporto della famiglia nei confronti dello stato autoritario» (6). Reich è critico anche nei confronti del socialismo reale dell’Unione Sovietica: l’involu­zione autoritaria della rivoluzione bolscevica sarebbe dipesa dall’e­ducazione ricevuta dai rivoluzionari in famiglie autoritarie, con la predisposizione a instaurare rapporti autoritari anche in situazioni e in movimenti rivoluzionari. Il successo di una rivoluzione dipenderebbe dalla trasformazione del carattere delle persone e ciò sarebbe possibile solamente con il superamento della famiglia patriarcale e di un suo aspetto importante: la repressione sessuale. Perciò, un movimento rivoluzionario non potrebbe prescindere dalla rivoluzione sessuale: «Il nocciolo della politica culturale della reazione politica è il problema sessuale. Di conseguenza, anche il nocciolo della politica rivoluzionaria dovrà essere il problema sessuale» (7).

La sintesi fra le teorie di Freud e quelle di Marx, definita successivamente «freudo-marxismo», è stata osteggiata tanto da psicoanalisti quanto da marxisti, ma successivamente è stata ripresa da diversi filosofi e psicoanalisti.

La Scuola di Francoforte

Il filosofo tedesco Max Horkheimer (1895-1973) ha assunto nel 1930 la direzione dell’Istituto di Ricerca Sociale dell’Università di Francoforte sul Meno, che era stato fondato da alcuni intellettuali marxisti. Le contingenze storiche dell’epoca, in particolare la delusione per gli sviluppi della rivoluzione nell’Unione Sovietica, la preoccupazione per l’a­scesa di movimenti nazionalisti in Europa e l’avanzata della società tecnologica, hanno dato nuovo impulso alle riflessioni sulla situazione del tempo alle quali hanno partecipato, fra gli altri, intellettuali come Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969), Erich Fromm (1900-1980) e Herbert Marcuse (1898-1979), dando vita a quella che è stata chiamata la Scuola di Francoforte.

Questi autori hanno ripreso concetti dell’analisi storico-dia­lettica marxiana dei fenomeni sociali e della psicoanalisi di Freud e hanno elaborato quella che è stata chiamata «teoria critica». 

Le teorie della Scuola di Francoforte hanno influenzato profondamente la civiltà occidentale, per lo meno a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ma in questo articolo è possibile descriverne soltanto alcuni sviluppi.

Theodor Wiesengrund Adorno e la «perso-nalità autoritaria»

Nel 1950 Adornoha pubblicato i risultati di una ricerca condotta con alcuni collaboratori, che identificava il pericolo di un successo politico dell’ideologia «fascista» negli Stati Uniti d’America non in un leader carismatico o in un partito organizzato ma in una particolare struttura psichica della gente (8): «Per valutare la possibilità di una vittoria del fascismo negli Stati Uniti si deve evidentemente tener conto del potenziale presente nel carattere della gente» (9).

Il termine fascismo, come è stato utilizzato in questa ricerca, non si riferisce a un fenomeno ben definito, legato a un preciso periodo storico dell’Italia, ma indica una categoria astratta, strettamente collegata a una particolare struttura psichica, la «personalità autoritaria». I questionari utilizzati nella ricerca e i colloqui con le persone non indagavano le loro convinzioni politiche, ma cercavano di scoprire la «personalità potenzialmente fascista» sulla base di tratti come «conformismo, soggezione all’au­torità, aggressività, tendenza alle proiezioni e manipolazioni» (10). Questa ricerca con la quantificazione del grado di certi tratti della personalità, una specie di «fascistometro», si presentava come scientifica. Questo approccio correggeva, se non superava, l’idea del ruolo attribuito alla lotta di classe per spiegare l’appartenenza a movimenti reazionari o rivoluzionari: non sarebbe la condizione socio-economica di un individuo a renderlo vulnerabile a una ideologia autoritaria, ma la struttura psichica che dipende dall’«appartenenza alla nostra cultura» (11), formatasi a causa di un’educazione che impone adattamento passivo alle condizioni esistenti, sviluppa un comportamento conformista e considera ubbidienza e rispetto nei confronti dell’autorità come le massime virtù (12). Per Adorno la scienza dovrebbe «trovare armi contro la minaccia potenziale della mentalità fascista» (13).

Erich Fromm: la disobbedienza diventa un valore in sé

Un tema centrale del pensiero del filosofo e psicoanalista Erich Fromm è la critica dell’autoritarismo e della sottomissione dell’individuo al padre all’interno della famiglia, all’autorità civile e al potere economico nella società e a una concezione autoritaria di Dio nella religione. Famiglia, Stato e religione sarebbero alleati per tenere gli individui sottomessi alla stessa ideologia e a una cultura che considera l’obbedienza come massima virtù: «[…] il sentimento della disobbedienza come peccato doveva essere promosso. Sia lo stato sia la chiesa lo coltivavano, ed entrambi collaboravano a tal fine, l’uno e l’altra dovendo proteggere le proprie gerarchie. Lo stato aveva bisogno della religione per poter disporre di un’ideologia in cui disobbedienza e peccato si fondessero; la chiesa aveva bisogno di credenti che lo stato avesse addestrato alla virtù dell’ob­bedienza. Entrambi si servivano dell’istituzione della famiglia, la cui funzione era di educare il bambino all’obbedienza, fin dal primo istante in cui mostrasse di avere una volontà sua propria» (14).L’influenza delle istituzioni sullo sviluppo individuale sarebbe solamente negativa: «Tutti i dati di cui disponiamo stanno a indicare che l’interferenza eteronoma con il processo di crescita del bambino e dell’adolescente costituisce la radice più profonda della psicopatologia e soprattutto della distruttività» (15).Come altri autori, Fromm interpreta la distruttività non come una pulsione innata, cioè la «pulsione di morte» di Freud, ma come una reazione alle costrizioni delle istituzioni. 

Alla base di questa interpretazione si trova una visione dell’uomo, che Fromm definisce «umanistica», secondo la quale il potenziale di sviluppo e di autorealizzazione presente in ogni uomo sarebbe represso dalle varie istituzioni «autoritarie» e da leggi che non sarebbero fondate su un ordine morale oggettivo e sul diritto naturale, ma risponderebbero unicamente a una logica di dominazione e agli interessi di chi, nelle diverse istituzioni, detiene il potere. I valori trasmessi non avrebbero un fondamento razionale e sarebbero all’origine della falsa coscienza, cioè di una identità che non corrisponde alla natura dell’individuo, ma è imposta dalle istituzioni: «Le nostre motivazioni, idee e credenze consce sono un miscuglio di false informazioni, preconcetti, impulsi irrazionali, razionalizzazioni, pregiudizi, sul quale galleggiano brandelli di verità dando la sicurezza, per quanto illusoria, che l’intera mistura sia reale e vera. L’atti­vità pensante tenta di organizzare questa cloaca di illusioni secondo le leggi della logica e della plausibilità, e si suppone che tale livello di consapevolezza rifletta la realtà; è questa la mappa di cui ci serviamo per dirigere la nostra vita» (16).

La psicologia «umanistica» pretende che ciascun individuo possa sviluppare il suo potenziale indipendentemente da consuetudini e leggi, e lo vuole aiutare a prendere le distanze da norme e valori, a superare la paura di trasgredire divieti e a seguire invece i propri sentimenti, incominciando nell’infanzia con un’educazione antiautoritaria. In questo quadro la disubbidienza diventa un valore in sé: «Si deve ricordare che, secondo i miti ebraici e greci, la storia umana iniziò con un atto di disubbidienza. Quando Adamo ed Eva vivevano nel giardino dell’Eden, facevano ancora parte della natura, come il feto nel grembo della madre. […] Il loro atto di disubbidienza spezzò il legame originario con la natura e li rese individui. La disubbidienza fu il primo atto di libertà, l’inizio della storia umana. Prometeo, rubando il fuoco agli dèi, è un altro dissidente che disubbidisce. […] L’uomo ha continuato a progredire con atti di disubbidienza non solo nel senso che la sua evoluzione spirituale fu resa possibile da individui che osarono dire “no” alle forze che volevano sostituirsi alla loro coscienza o alla loro fede. La sua evoluzione intellettuale dipese anche dalla capacità di disubbidire» (17). L’obbedienza viene considerata come un grave pericolo per il destino dell’umanità: «Se la capacità di disubbidire diede l’avvio alla storia umana, l’ubbidienza potrebbe esserne la fine» (18).

Fromm pone le sue speranze per il successo della rivoluzione nel superamento della famiglia patriarcale da parte delle donne (rivoluzione femminista) e dei figli (contestazione giovanile, movimenti degli studenti) e nella eliminazione della repressione sessuale (rivoluzione sessuale): «Mentre la grande rivoluzione politica del XX secolo, quella russa, si è conclusa con uno scacco (è ancora troppo presto per formulare un giudizio sui risultati della rivoluzione cinese [il testo è stato scritto nel 1976], le rivoluzioni del nostro secolo destinate davvero alla vittoria, benché siano solo alle prime fasi, sembrano quelle delle donne e dei figli, oltre alla rivoluzione sessuale. I loro principi sono già stati accettati dalla coscienza di moltissimi individui, e ogni giorno le vecchie ideologie appaiono più risibili» (19). Il concetto di lotta di classe viene superato da quello di «categoria»: non sono più singole donne che rivendicano un altro ruolo all’interno della famiglia, o singoli figli che rifiutano l’autorità dei genitori, ma, dopo il risveglio della consapevolezza della propria condizione, donne e figli dovrebbero unirsi nella rivolta contro l’autoritarismo nella famiglia e nella società. 

Herbert Marcuse: eros e civiltà

Il titolo dell’opera più nota di Marcuse, Eros e civiltà, riprende alcuni temi fondamentali della teoria di Freud, cioè il rapporto fra la sessualità e il processo di civilizzazione, giungendo però a conclusioni differenti (20).

Combinando concetti marxisti e psicoanalitici, Marcuse caratterizza l’inizio della civiltà con la nascita della struttura familiare patriarcale, caratterizzata dal «complesso di Edipo», dalla repressione sessuale e dalla costrizione al lavoro. Nel corso della storia la repressione dell’istinto sessuale avrebbe progressivamente desessualizzato il corpo, riducendo la sessualità all’attività genitale e questa alla riproduzione, e limitando l’at­ti­vità riproduttiva a relazioni monogamiche: un processo definito come un «lungo e crudele processo di addomesticamento» (21). Questo processo avrebbe messo a disposizione dell’attività lavorativa sempre più energia e trasformato l’organismo umano in uno strumento di lavoro. 

La crescente complessità della società ha progressivamente accentuato la divisione del lavoro e allontanato gli individui dai loro bisogni reali: «Gli uomini non vivono la loro vita, ma eseguiscono funzioni prestabilite; mentre lavorano, non soddisfano propri bisogni e proprie facoltà, ma lavorano in uno stato di alienazione. […] l’individuo lavora per se stesso soltanto in quanto lavora per l’apparato, impegnato in attività che in massima parte non coincidono con le sue facoltà e i suoi desideri» (22). Questo sviluppo avverrebbe con il subordinamento del principio del piacere al principio della realtà, con l’accettazione dei limiti alla possibilità di soddisfare tutti i propri bisogni e, quindi, con la necessità di reprimere le proprie pulsioni e di rinunciare al loro soddisfacimento. 

Su questo punto Marcuse è critico nei confronti della tesi di Freud, e di quelli che definisce «revisionisti neofreudiani» come Fromm, che considerava insanabile il contrasto fra eros e civiltà: «il convincimento che una civiltà non repressiva sia impossibile, è una pietra angolare della costruzione teorica freudiana» (23) e, in definitiva, la terapia psicoanalitica avrebbe favorito l’adattamento alle condizioni esistenti, eventualmente allentando la repressione delle pulsioni sessuali grazie a un Super-io più tollerante: «In contrasto con la distruttività dell’Eros liberato, una morale sessuale meno rigida […] finisce col servire essa stessa al sistema», (24), mentre la riduzione dell’orario di lavoro e la rinuncia a bisogni non indispensabili, anche a prezzo di un abbassamento del tenore di vita (25), rappresenterebbero un’opportunità per invertire lo sviluppo della civiltà, trasformando l’organismo umano da strumento di lavoro in corpo sessualizzato. Per raggiungere questo scopo, cioè la risessualizzazione di tutto il corpo, sarebbe necessaria una rivoluzione che mettesse in discussione la stabilità delle relazioni, la limitazione dell’attività sessuale alle relazioni monogamiche, il legame fra attività sessuale e procreazione e il primato genitale sulla sessualità.

La sessualità sarebbe «per sua natura “perversa e polimorfa”»(26), e proprio alle perversioni sessuali è attribuito un importante ruolo rivoluzionario: «Freud rilevò il carattere “esclusivo” delle deviazioni dalla normalità, il loro rifiuto dell’atto sessuale procreativo. Le perversioni esprimono dunque la ribellione contro il soggiogamento della sessualità da parte dell’ordine della procreazione e contro le istituzioni che salvaguardano quest’ordine. La teoria psicoanalitica vede nelle pratiche che escludono o prevengono la procreazione, un rifiuto all’ordine di continuare la catena della riproduzione e quindi del dominio paterno. […] Reclamando la libertà degli istinti in un mondo di repressione, le perversioni sono spesso caratterizzate dal fatto di respingere violentemente quel senso di colpa che accompagna la repressione sessuale» (27).

Marcuse vede nella rivoluzione sessuale il mezzo più efficace per abbattere le istituzioni: «la liberazione dell’Eros dovrebbe necessariamente estrinsecarsi come una forza distruttiva e fatale — come negazione totale del principio che governa la realtà repressiva» (28) e «questo cambiamento del valore e della portata delle relazioni libidiche porterebbe a una disintegrazione delle istituzioni nelle quali vennero organizzati i rapporti interpersonali privati, e particolarmente la famiglia monogamica e patriarcale» (29).

Carl Rogers e la terapia centrata sul cliente

Carl Rogers (1902-1987), fondatore della «psicoterapia centrata sulla persona», è stato uno dei più influenti psicologi del secolo XX e viene considerato come un esponente della corrente umanistica della psicologia, una «terza via» in contrapposizione alla psicoanalisi e al comportamentismo o «behaviorismo», anche se gli elementi essenziali del suo sistema non differiscono da quelli della psicoanalisi. 

Rogers sostiene che il suo approccio è centrato sulla persona, ma considera l’uomo fondamentalmente come un organismo caratterizzato da una tendenza all’autorealizzazione: «In ogni organismo, a qualunque livello, esiste un sottostante flusso dinamico diretto all’adempimento costruttivo delle potenzialità a esso inerenti. Nell’uomo c’è una tendenza naturale verso il completo sviluppo, che viene spesso designata come tendenza attualizzante, presente in tutti gli organismi viventi: questo è il fondamento su cui è edificato l’approccio centrato sulla persona» (30).Questa teoria ammette l’esistenza in ogni organismo, uomo compreso, di potenzialità che tendono a svilupparsi, ma, mentre negli altri organismi la tendenza all’autorealizzazione avviene spontaneamente e istintivamente, nell’uomo, soprattutto quello civilizzato, e in particolare nella cultura occidentale, la tendenza attualizzante è ostacolata da princìpi assimilati con l’educazione e da fattori e istituzioni sociali, provocando una dissociazione che «è come la struttura portante e la base di tutta la psicopatologia umana e di tutta la patologia sociale» (31). In questa psicologia «umanista» proprio quanto è propriamente umano avrebbe un’influenza negativa sullo sviluppo. 

La terapia rogersiana si propone di liberare l’individuo da ogni condizionamento: «In una persona che riesce a essere completamente aperta alla propria esperienza, ogni stimolo, derivi esso dall’organismo o dal­l’ambiente, viene liberamente elaborato dal sistema nervoso, senza alcuna distorsione dovuta a meccanismi difensivi» (32). Il cervello viene paragonato a un gigantesco calcolatore elettronico capace di elaborare una moltitudine di dati interni ed esterni, e di fornire la formula più adatta a soddisfare i bisogni emergenti in una determinata situazione (33), a patto che questa elaborazione non venga disturbata da interferenze dell’Io cosciente.

«Personalismo» e «umanesimo» di Rogers non ammettono il libero arbitrio: «Quando il terapeuta introduce dei metodi di ricerca psicologica nell’ambito psicoterapeutico, deve, come ogni altro scienziato, presupporre un determinismo stretto. Deve cioè considerare ogni pensiero, ogni sentimento e ogni azione del cliente determinati da ciò che li ha preceduti. Non vi è spazio per la libertà» (34).

Rogers descrive nell’uomo una «base organismica che permette un “processo di valutazione” organizzato […] in grado di perseguire la realizzazione del sé nella misura che il soggetto è aperto all’esperienza che vive momento per momento», (35) cioè l’uomo che non è «condizionato, stimolato e rinforzato dalla cultura in cui vive ad assumere comportamenti che sono di fatto perversioni nei confronti della direzione originaria della tendenza attualizzante» (36).

Gran parte del processo terapeutico consiste nel provare sentimenti e atteggiamento di cui prima non ci si rendeva conto e ad accettarli come parte di sé, in modo da vivere senza condizionamenti e con la libertà psicologica di potersi muovere in qualsiasi direzione (37). Nelle sue scelte l’uomo dovrebbe quindi ascoltare il proprio organismo, prescindendo da principi morali e valori: «Nel fluttuare della complessa corrente della mia esperienza, e nello sforzo di comprendere la complessità continuamente mutevole, non possono esistere posizioni rigide. Quando sono in grado di vivere nel corso del processo non potrò mantenere alcun sistema di credenze, nessun insieme immutabile di principi» (38).

L’applicazione delle teorie di Rogers nella terapia, praticata spesso come terapia di gruppo nei cosiddetti «gruppi di incontro» non solo su pazienti ma anche su «clienti», ha effettivamente portato molte persone ad assecondare gli impulsi del proprio organismo non solo rispetto ai princìpi che fino ad allora avevano regolato la loro esistenza ma anche a scelte precedenti e impegni assunti: «Vi sono stati dirigenti d’azienda che si sono ritirati dagli affari; preti e suore, ministri del culto, professori che hanno abbandonato i rispettivi ordini religiosi, chiese e università, per il coraggio acquisito in questi gruppi e hanno deciso di operare per il cambiamento all’esterno dell’istituzione anziché all’interno» (39) L’ef­fetto di questa terapia non si limita alla convinzione di dover agire secondo le esigenze momentanee del proprio organismo e, come detto, di non poter più «mantenere alcun sistema di credenze, nessun insieme immutabile di principi», ma porta anche a mettere in discussione istituzioni che si fondano su tali credenze e tali princìpi, e a pretendere il loro cambiamento, come nel caso concreto di un ordine religioso femminile. Rogers con la sua équipe era stato chiamato ad applicare il suo metodo in un ordine di suore degli Stati Uniti, le Sisters of the Most Holy and Immaculate Heart of the Blessed Virgin Mary (IHM). Questo «intervento terapeutico» è stato diretto da uno stretto collaboratore di Rogers, William R. Coulson, che ne ha raccontato i risultati: «Noi lo abbiamo chiamato terapia per normali, Therapy for Normals, TFN. Quando abbiamo iniziato, le suore del­l’IHM avevano circa 60 scuole, alla fine ne avevano solo una. All’inizio c’erano circa 615 suore. Un anno dopo i primi interventi, 300 di loro hanno fatto richiesta a Roma di essere sciolte dai voti. Non volevano restare sotto l’autorità di qualcuno, tranne che sotto quella del loro sé interiore» (40).

I primi lavori di Rogers risalgono agli anni 1940, La terapia centrata sul paziente al 1951, e solamente in Potere personale. La forza interiore e il suo effetto rivoluzionario del 1977 ha ammesso che soltanto in anni recenti aveva «[…] cominciato a riconoscere quanto la nostra opera sia stata “radicale” e “rivoluzionaria”» (41) e ha dichiarato: «Ho praticato e insegnato politica in tutta la mia vita professionale, senza mai capirlo pienamente fino a ora» (42).

Considerazioni conclusive

La sociologa e antropologa culturale franco-israeliana Eva Illouz, esaminando l’origi­ne delle profonde trasformazioni della società americana avvenute nel secolo XX, non ha nascosto la propria difficoltà come sociologa non a spiegarle con fattori sociali, ma a farle risalire a una sola persona, alle sue teorie e a una data precisa, cioè a Freud, alla psicoanalisi e al ciclo di conferenze tenute nel 1909 alla Clark University di Worcester, nello Stato del Massachusetts: «Nonostante la mia formazione come antropologa culturale e nonostante il mio profondo scetticismo riguardo alla possibilità di mettere importanti sconvolgimenti culturali in relazione con date precise, se dovessi indicare una data precisa che possa segnare la trasformazione nel modo di vivere i sentimenti in America, io sceglierei il 1909, l’anno in cui Sigmund Freud arriva in America per tenere alcune conferenze alla Clark University» (43).

Eva Illouz sottolinea, altresì, che la psicoanalisi ha influenzato la cultura moderna tanto con le sue teorie, per esempio, sull’origine dei disturbi psichici, sulla sessualità infantile e sull’importanza dell’inconscio per la vita psichica, quanto con la psicologizzazione di tutte le attività umane, soprattutto sostituendo i valori etici nella valutazione del comportamento umano con categorie psicologico-terapeutiche, che l’autrice definisce «pensiero terapeutico». In questo modo varie correnti psicologiche interpretano il comportamento umano sulla base del loro concetto di normalità, stabiliscono ciò che è bene o male per l’individuo e presumono di avere la terapia adatta. Il filosofo e politologo canadese Charles Taylor ha descritto le conseguenze negative del «pensiero terapeutico» secondo cui: «[…] la rinuncia alla religione avrebbe dovuto liberarci e restituirci la piena dignità di agenti, affrancandoci dalla tutela della religione, e dunque della Chiesa, e dunque del clero. Ora però siamo costretti a recarci dai nuovi esperti, terapeuti, medici che esercitano il tipo di controllo più appropriato su meccanismi ciechi e compulsivi e che possono persino somministrare farmaci. Così, i nostri sé malati, trattati come cose, sono vittime del paternalismo molto più di quanto non lo fossero, nelle Chiese, i fedeli del passato» (44).Taylor contrappone la religione a una concezione moderna dell’uomo che élite intellettuali cercano di imporre alla massa.

Il «complesso di Edipo» costituisce un importante mito della modernità, che supera l’interpretazione limitata alla presunta costellazione della famiglia con l’amore del bambino per la madre, la rivalità con il padre e la minaccia di evirazione, ma riguarda piuttosto il rapporto fra le generazioni, fra padri portatori di una tradizione e figli che pretendono la propria autonomia, per così dire, per non farsi tarpare le ali. La questione di fondo è se l’uomo ha una natura stabile, fatta a immagine e somiglianza di Dio secondo la Sacra Scrittura, o è il prodotto di un’evoluzione in continuo divenire, per cui i valori formulati da una generazione appaiono alla nuova soltanto come sovrastrutture che frenano l’ulteriore sviluppo. Questo concetto supera i confini della psicologia, della filosofia e della sociologia poiché, in contrasto con la concezione che il miglioramento del­l’uo­mo deve essere di natura morale, il concetto di evoluzione dovrebbe legittimare i tentativi di «migliorare» l’uomo modificandone il patrimonio genetico per mezzo delle biotecnologie e, quindi, di pilotare l’evolu­zione con la creazione di un esser trans-umano e successivamente post-umano. Papa Benedetto XVI (2005-2013) ha denunciato il rischio dell’e­gemonia dell’assolutismo tecnico sullo sviluppo umano: «Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell’uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio. Le scoperte scientifiche in questo campo e le possibilità di intervento tecnico sembrano talmente avanzate da imporre la scelta tra le due razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell’immanenza» (45).

Note:
1) Sigmund Freud, Lettera a Oskar Pfister, 18-1-1928, in Idem e Oskar Pfister, L’avvenire di un’illusione, L’illusione di un avvenire, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1990. p. 185.

2) Cfr. Henri F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica, trad. it., 2 voll., Boringhieri, Torino 1980, vol. I, pp. 278-282.

3) Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1970, p. 193.

4) S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica., Tre saggi, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 126.

5) Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo, trad. it., Mondadori, Milano 1974, p. 49.

6) Ibid., p. 59.

7) Ibid., p. 101.

8) Cfr. Theodor W. Adorno et Alii, The Authoritarian Personality, Harper and Row, New York 1950.

9) Idem, Studien zum autoritären Charakter, trad. ted., Suhrkamp, Francoforte sul Meno 1995 p. 14.

10) Ibid., p. 312.

11) Ibid., p. 315.

12) Cfr. ibid., pp. 47-49.

13) Ibid., p. 308.

14) Erich Fromm, Avere o essere?,trad. it., Mondadori, Milano 1996, p. 135.

15) Ibid., p. 94.

16) Ibid., p. 112.

17) Idem, Marx e Freud. La verità che rende liberi, trad. it., il Saggiatore, Milano 1968, pp. 193-194.

18) Ibid., p. 194.

19) Idem, Avere o essere?, cit., pp. 90-91.

20) Cfr. Herbert Marcuse, Eros e civiltà. Con una nuova prefazione dell’autore, trad. it., Einaudi, Torino 1972.

21) Ibid., p. 217.

22) Ibid., p. 88.

23) Ibid., p. 64.

24) Ibid., p. 129.

25) Cfr. ibid., p. 178.

26) Ibid., p. 91.

27) Ibid., pp. 91-92.

28) Ibid., p. 129

29) Ibid., p. 218.

30) Carl Rogers, La «Terapia centrata-sul-cliente». Teoria e ricerca, trad. it., Martinelli & C., Firenze 1998, p. 309.

31) Ibidem. 

32) Ibid., p. 186

33) Cfr. ibid., p. 189. 

34) Ibid., p. 192.

35) Ibid., p. 281

36) Ibid., p. 308.

37) Cfr. ibid., pp. 185-186.

38) Ibid., p. 43.

39) Idem, I Gruppi d’incontro, trad. it., Astrolabio-Ubaldini, Roma 1976, p. 75.

40) William R. Coulson, «We overcame their traditions, we overcame their faith». A contrite Catholic psychologist’s disturbing testimony about his central role in the destruction of religious orders, in The Latin Mass, gennaio-febbraio 1994, vol. 3, n. 1, pp. 14-22 (p. 15), nel sito web <https://www.ewtn.com/­catholicism/library/we-overcame-their-traditions-we-overcame-their-faith-11916>, consultato l’8-5-2025.

41) C. Rogers, Potere personale. La forza interiore e il suo effetto rivoluzionario, trad. it., Astrolabio, Roma 1978, p. 7.

42) Ibid., p. 11.

43) Eva Illouz, Gefühle in Zeiten des Kapitalismus, 4a ristampa, Suhrkamp, Francoforte sul Meno 2012, p. 14.

44) Charles Taylor, L’età secolare, trad. it., Feltrinelli, Milano 2009, p. 778.

45) Benedetto XVI, Lettera enciclica «Caritas in veritate» sullo sviluppo integrale nella carità e nella verità, 29-6-2009, n. 74.

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