di Domenico Airoma, magistrato, vicepresidente del CS Livatino
C’erano una volta due capi di governo. Uno, Giuseppe, era di bell’aspetto, elegante e raffinato, dai modi da professore; l’altro, Viktor, un po’ sovrappeso, abiti démodé, i modi burberi.
Entrambi si trovarono ad affrontare una terribile sciagura, una nuova peste, un contagio che mieteva centinaia di vittime e che richiedeva decisioni urgenti, anche se difficili e impopolari, tali da comportare il sacrificio di libertà e diritti. Qualcosa, insomma, che ricordava un po’ quello che accadeva nell’antica Roma, quando, davanti a situazioni che mettevano in pericolo la salus rei publicae, si procedeva a una ingessatura temporanea del corpo sociale malato, affidando poteri straordinari a chi era chiamato a guidare il Paese verso la guarigione.
Orbene, l’uno, Giuseppe, scelse di prendere quelle decisioni senza consultare il parlamento, riservandosi poi di interpellarlo in un secondo momento. L’altro, Viktor, chiese ai parlamentari di promulgare una legge che definisse ambiti e durata della sospensione delle libertà e dei diritti. L’uno fu additato come pericoloso nemico della democrazia, l’altro come un lungimirante uomo politico.
La storia sembra avere, fin qui, una trama lineare e un finale quasi scontato. Fatto sta, però, che a sorpresa fu Viktor e non Giuseppe a subire le accuse di antidemocratico e a essere esposto al ludibrio pubblico.
Le cose sembrano essere andate proprio così per l’italiano Conte e l’ungherese Orbán. E, purtroppo, non è una favola, anche se tutti speriamo nel lieto fine per i popoli italiano e ungherese.
Succede, infatti, che si leggano giudizi di questo genere: «[…] ci dobbiamo chiedere se tutti i sacrifici dei diritti fondamentali che ci sono stati richiesti possono considerarsi giustificati da una necessità del genere, se il pericolo esistente non è altrimenti evitabile e se i sacrifici che ci sono richiesti sono proporzionati al pericolo. Credo che, tutto considerato, la risposta possa essere affermativa, ma è ovvio che solo un’emergenza eccezionale come quella che stiamo vivendo può giustificare misure come quelle che sono state prese, alle quali non è consentita alcuna assuefazione, così come non dovrebbe esserne consentita l’adozione con provvedimenti dalla disinvoltura di quelli che sono stati adottati». A parlare è il presidente emerito della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi, nell’articolo La pandemia aggredisce anche il diritto?, pubblicato sul periodico GiustiziaInsieme, che è espressione di magistrati e giuristi certamente non sospetti di simpatie “sovraniste”. Ed il destinatario non è Viktor Orbán, ma Giuseppe Conte.
Sicché appare espressione di un singolare strabismo che si dica che per l’Ungheria, nella quale non si ha ancora notizia di provvedimenti limitativi dei diritti e delle libertà di portata così stringente come quelli italiani, «la riforma per i pieni poteri al governo ungherese dimostra che le situazioni di crisi possono diventare l’occasione per liberarsi dei vincoli della democrazia» e che, «come cittadini europei, dobbiamo essere consapevoli che manomettere le regole e le forme della democrazia ha un prezzo altissimo per i diritti e le libertà delle persone», come recita comunicato di Magistratura Democratica, Uscire dalla crisi, salvando la democrazia, del 1° aprile.
E ciò, a maggior ragione, se si considera, che:
- in Ungheria non conoscono la prassi dei DPCM;
- i poteri al Governo sono stati conferiti da una legge adottata dal Parlamento, in conformità dell’art. 53 della Costituzione (già ampiamente vagliata dalla Corte Costituzionale, che ne ha censurato non pochi articoli, salvando questo), che prevede, come fondamento, «la prevenzione ed eliminazione delle conseguenze derivanti da un’epidemia, che causa una vasta messa in pericolo dell’integrità fisica e della vita»; e non, pertanto, sulla base di una disposizione di legge ordinaria in materia di protezione civile (d. lgs. nr. 1 del 2018) come accaduto in Italia;
- il Governo può «sospendere l’applicazione di talune leggi ed introdurre altre misure necessarie per tutelare la vita, la salute, i beni, la sicurezza giuridica dei cittadini e la stabilità dell’economia nazionale”, ma «nella misura necessaria, proporzionalmente al fine da perseguire, per la prevenzione, il trattamento, e/o l’eliminazione delle conseguenza dannose» dell’epidemia (art. 2 della legge per la protezione contro il coronavirus), e «fino allo stato di emergenza” (art. 3 della legge citata);
- il Governo deve informare regolarmente il Presidente dell’Assemblea Nazionale e i capi dei gruppi parlamentari sulle misure adottate per far fronte all’emergenza (art. 4 della legge citata);
- la Corte Costituzionale continua ad operare ed a vagliare l’operato del Governo (art. 5 della legge citata).
Lo strabismo diventa cecità se, per censurare gli ungheresi (giacché non pare che Orbán non sia stato eletto democraticamente), si chiudono gli occhi dinanzi a quanto sta accadendo nell’Europa dei cosiddetti «nuovi diritti», dove la pandemia diventa lo strumento per discriminare, in modo apertamente eutanasico, gli unfit, anziani e disabili (si rimanda sul punto all’allarmante resoconto contenuto nell’articolo di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera del 31 marzo, nonché il documento del Centro Studi Rosario Livatino sulle direttive emanate dalla SIAARTI e le riflessioni di Francesco Cavallo pure pubblicate sul sito del Centro Studi Rosario Livatino, oppure per «non consentire l’esercizio in comune, sia in pubblico che in privato, della fede religiosa» (come sottolinea sempre il presidente emerito della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi nell’articolo sopra citato pubblicato su GiustiziaInsieme).
In conclusione, Orbán avrà molte pagliuzze nei suoi occhi, e non è certamente la reincarnazione del santo re Stefano d’Ungheria (975-1038). Ma più d’uno dalle nostre parti prima o poi dovrà fare i conti, ce lo auguriamo davvero, con la trave del pregiudizio ideologico, davvero dura a morire, anche in tempi di pandemia.
Domenica, 5 aprile 2020