Renato Veneruso, Cristianità n. 431 (2025)
Relazione, rivista e annotata, tenuta il 6 agosto 2024 alla Summer School di Alleanza Cattolica, svoltasi a Sommaprada (Brescia) dal 5 al 10 agosto sul tema Guerra e Pace.
Premessa terminologica
Come è sempre più opportuno — ed è un antico e sempre valido insegnamento del fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni (1938-2020) — occorre chiarire d’esordio i termini della relazione che mi è stata affidata, nello sforzo di una explicatio terminorum che valga ad intenderne correttamente l’uso che ne andremo facendo.
Partendo dall’ultimo termine della triade, deve intendersi «diritto internazionale» il complesso ordinamentale di norme che disciplinano i rapporti, giuridicamente rilevanti, fra gli Stati o, meglio, fra entità sociali dotate di una seppur minima organizzazione politica. Inoltre, con «Stato» s’intende, a partire almeno dal cosiddetto ancien régime, lo Stato moderno, cioè la nazione organizzata politicamente in modo unitario secondo il trinomio «territorio, popolo, sovranità» (1), laddove la formazione consuetudinaria, non scritta, del diritto internazionale classico, quale ius gentium liberamente accettato e rispettato dai vari interpreti politici del particolarismo medioevale, ha trovato il suo sviluppo nella forma scritta di trattati, appunto, fra Stati. Si tratta, quindi, del complesso di norme che disciplinano i rapporti fra le collettività politiche, volte a regolamentare i limiti delle rispettive prerogative nelle relazioni reciproche.
Con il termine «guerra», invece, s’intende il conflitto armato fra Stati che intendono esercitare il monopolio dell’uso legittimo della forza, che va tenuta sempre distinta dalla violenza: tale si configura infatti la «forza» quando è agìta da chi non è legittimato all’uso né in termini genetici, cioè di titolarità, né funzionali, cioè in assenza o in spregio delle regole che ne giustificano il ricorso.
Alla guerra si contrappone, come suo contrario, la «pace», che non è però la semplice assenza di guerra ma la tranquillitas ordinis, di cui parlava già sant’Agostino d’Ippona (354-430), con definizione che ha la sua propria connotazione nel genitivo oggettivo (ordinis), che indica l’aggancio a un elemento veritativo e oggettivo, quale appunto l’ordine, inteso come kosmos, cioè come realtà organica disciplinata da regole intrinseche naturalmente date.
La perdita del riferimento alla lex naturalis e alla sua prescrittività, per cui all’essere consegue il dover essere, ha consentito che si affermasse, con la filosofia moderna, il concetto di pace come mera assenza di guerra, tant’è che da Thomas Hobbes (1588-1679) a Hans Kelsen (1881-1973), con l’assunzione del monopolio della forza in capo allo Stato-sovrano, esso è puramente negativo, cioè come status di assenza dell’uso della forza: «Peace is a state of absence of force», è il concetto giuridico kelseniano di pace, come stato di assenza dell’uso illegittimo della forza.
Nell’evoluzione della teoria sul mantenimento della pace e della sicurezza, dunque, diviene decisiva la domanda: chi decide la guerra? Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione, risponderà agli inizi del secolo XX Carl Schmitt (1888-1985); invece, dopo l’immane esito delle due guerre mondiali dello stesso secolo, il pendolo tornerà — con la Carta dell’ONU, l’Organizzazione delle Nazioni Unite — a privilegiare la pace come qualificata dal prioritario rispetto dei diritti umani, con conseguente recupero del concetto di «pace giusta», inizialmente invocato dai teorici neoconservatori della «war on terror» — dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle a New York nel 2001 — e, infine, confluito in una più ampia rivisitazione delle teorie tradizionali fondate sul diritto naturale.
Guerra
Veniamo ora ai singoli elementi della triade. In Italia, cogliendo il generale spirito internazionale del secondo dopoguerra — come l’art. 26 della Costituzione della Repubblica Federale Tedesca, o Germania Ovest, e l’alinea 14 del Preambolo della Costituzione francese del 1946 —, vi è stata la costituzionalizzazione del rifiuto della guerra di aggressione e del divieto di ricorrere alla forza armata quale strumento di risoluzione delle controversie internazionali: «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» (2).
A riguardo, occorre distinguere i termini del rapporto fra diritto e guerra.
La prima forma è quella del ius ad bellum, cioè di chi abbia il diritto di proclamare lo stato di guerra e in base a quali regole.
Le costituzioni occidentale, in genere, riservano la proclamazione dello stato di guerra al sovrano — presidente della Repubblica, re o capo dello Stato — ma in modo neutro, poiché il potere decisionale resta al governo o alla maggioranza parlamentare, con trend crescente nel senso della parlamentarizzazione dei relativi poteri (3).
La Costituzione italiana adotta un modello silente, per cui, nella desuetudine della previsione dell’art. 78 («Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari»), sarà possibile proclamare la guerra solo in presenza di «grave crisi internazionale», direttamente o in ragione della «appartenenza ad organizzazioni internazionali» (art. 2 della legge n. 331 del 2000 e decreto legislativo n. 66 del 2010), oltre agli impegni militari dovuti alla partecipazione all’Alleanza Atlantica (NATO) e a quelli che derivano dagli artt. 42-45 del Trattato sull’Unione europea (TUE).
La procedura prevede che il Consiglio dei ministri — previa comunicazione al Presidente della Repubblica — deliberi la partecipazione italiana alle missioni internazionali, trasmettendola alle Camere che, tempestivamente, ne discutono e, dunque, sono chiamate ad autorizzare (o meno) le missioni, con appositi atti di indirizzo, secondo le norme dei rispettivi regolamenti (art. 2, comma 2, legge n. 145 del 2016).
Peculiare è la Costituzione statunitense (War Power Resolutions), legata al bilanciamento fra il potere del Presidente di dirigere le operazioni militari in qualità di comandante in capo delle forze armate e il potere di dichiarare la guerra, formalmente attribuito al Congresso, con una netta discrasia fra tale dato positivo formale e la prassi delle campagne militari disposte autonomamente dal presidente, giustificata dalla teoria dell’autorizzazione implicita — risoluzione del Congresso che consenta di ritenere implicitamente autorizzato l’intervento armato —, fino alla teorizzazione estrema del diritto speciale degli Stati Uniti d’America (USA) a intervenire militarmente in base all’esigenza di far rispettare la «democrazia» in tutto il mondo, secondo la tradizionale logica del «destino manifesto».
Sotto un profilo oggettivo la guerra evoca il concetto di aggressione — crimine contro la pace: si tratta di un attacco contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di uno Stato
Tale concetto generale di aggressione è formulato nel Patto della Società delle Nazioni (1919) — il primo trattato tendenzialmente universale che ha qualificato detta condotta come illecita —, poi ribadito più ampiamente nella Carta delle Nazioni Unite (1945), che attribuisce al Consiglio di Sicurezza dell’ONU il potere di accertare, nei casi concreti, la presenza di un atto d’aggressione, considerato, dal diritto internazionale contemporaneo, appunto un crimine contro la pace.
Nella Carta delle Nazioni Unite, infatti, non solo è vietato l’uso unilaterale della forza armata e, quindi, la guerra, ma anche la semplice minaccia dell’uso della forza (art. 2.4), ad eccezione delle azioni collettive militari intraprese dal Consiglio di Sicurezza (Sicurezza collettiva) e dell’esercizio della legittima difesa individuale e collettiva da parte degli Stati, la cosiddetta «autotutela». Gli Stati sono così privati del ius ad bellum contemplato dal diritto internazionale classico (4).
Il divieto del ricorso alla guerra è stato in seguito confermato in dichiarazioni di princìpi adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, quali la Dichiarazione del 1970 sulle relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati, la Dichiarazione sulla definizione di aggressione contenuta nella risoluzione n. 3314 (XXIX) del 1974 e la Dichiarazione delle Nazioni Unite sul rafforzamento dell’efficacia del principio del non ricorso alla minaccia o all’uso della forza nelle relazioni internazionali, annessa alla risoluzione 42/22 del 1987.
Peraltro, entrambi gli strumenti normativi citati non definiscono la nozione di aggressione, incerta già nella prassi della Società delle Nazioni e tuttora controversa. Secondo l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite — risoluzioni sulle relazioni amichevoli tra Stati del 1970 e sulla definizione di aggressione del 1974 — si qualificano come aggressione, fra l’altro: la violazione di frontiere internazionali, se implicante la minaccia o l’uso della forza; le rappresaglie armate; l’invasione e l’occupazione militare; l’annessione con la forza di territorio altrui; il bombardamento del territorio di un altro Stato; il blocco militare dei suoi porti o delle sue coste; l’attacco contro le forze armate di un altro Stato mediante proprie forze armate o attraverso l’invio di forze irregolari o di mercenari. A essa sarebbero inoltre riconducibili, come aggressione indiretta, l’organizzazione o il sostegno prestati da uno Stato a forze irregolari o a bande armate, in vista di incursioni contro un altro Stato o della partecipazione ad atti di guerra civile o ad atti di terrorismo contro un altro Stato. Dette risoluzioni dell’Assemblea Generale, consonanti con alcune pronunce della Corte Internazionale di Giustizia, pur se di guida all’interpretazione della nozione di aggressione, non sono però obbligatorie, né per gli Stati né per gli organi internazionali, principalmente il Consiglio di Sicurezza, al quale l’art. 39 della Carta attribuisce al riguardo un potere di valutazione discrezionale, di natura eminentemente politica.
È, dunque, violazione del ius ad bellum — inteso come diritto di intraprendere le ostilità — il mancato rispetto del divieto cogente dell’uso della forza armata internazionale dello Stato se non per legittima difesa — diritto naturale di autodifesa, purché necessaria, efficace (cioè, capace di fermare l’aggressione) e proporzionata, a fronte di una aggressione palese, imminente, illegale (art. 51 Carta ONU). Ne costituisce indiscutibile esempio l’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa a partire dal 24 febbraio 2022.
Va segnalato che, in dipendenza del contrasto al terrorismo — specialmente dopo l’attentato alle Torri Gemelle — e alla guerra «ibrida» — cioè compiuta con mezzi non convenzionali e/o da parte di organizzazioni prive di forma statuale —, tra la fine dello scorso millennio e l’inizio di questo si è sviluppata, in termini di diritto alla legittima difesa preventiva, un’ampia dottrina sulla cosiddetta guerra difensiva preventiva — cioè portata per prevenire attacchi contro il proprio Paese — e, infine, una vera e propria teoria della war on terror.
Il secondo aspetto è, poi, quello del ius in bello, che è parte del diritto internazionale e costituisce quel complesso di norme che si applicano nei rapporti fra gli Stati, convenzionali e consuetudinarie, che in tempo di conflitto armato proteggono le persone che non prendono parte o non prendono più parte alle ostilità e che pongono divieti o limiti all’impiego di mezzi offensivi, di sofisticati strumenti bellici e di metodi di guerra in situazioni di conflitti armati in atto o per evitare, più o meno efficacemente, di ricorrervi. È, in altri termini, la disciplina giuridica di come combattere le guerre. In Italia è dettata dal regio decreto n. 1415, dell’8 luglio 1938 — in piena epoca fascista —, con il quale furono approvate la legge di guerra e la legge di neutralità.
I crimini di guerra fra i più consolidati in diritto internazionale sono relativi alla lesione dei princìpi di distinzione fra combattenti e civili, di proporzionalità e precauzione, nonché del divieto di attacchi indiscriminati, nucleo fondamentale su cui si fonda tutto il diritto dei conflitti armati, in congiunzione con il «principio di umanità» richiamato nella celebre «clausola Martens» — art. 1, par. 2, del I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra: «Nei casi non previsti dal presente Protocollo o da altri accordi internazionali, i civili e i combattenti restano sotto la protezione e l’autorità dei principi di diritto internazionale derivanti dalla consuetudine consolidata, dai principi di umanità e dai dettami della coscienza pubblica».
La tutela della popolazione civile è il centro di gravità del diritto umanitario (principio di distinzione), insieme al principio della «inviolabilità civile», cioè al divieto dell’uso della forza — come «attacco armato» — nei confronti della popolazione civile, parallelamente al già affermato divieto dell’uso della forza nei confronti degli Stati.
Oggi cade il triste anniversario dello sganciamento della prima bomba atomica su Hiroshima, in Giappone: è evidente che la guerra nucleare è «ingiusta» per definizione, in quanto viola necessariamente sia il principio di discriminazione fra combattenti e non combattenti, sia il principio di proporzionalità tra i fini e gli effetti dei mezzi impiegati
Pur nella indipendenza strutturale fra ius ad bellum e ius in bello, va, conclusivamente, riaffermata la sussistenza di entrambi i iura.
Diritto Internazionale Umanitario
In questo contesto assume peculiare significato lo sviluppo del cosiddetto Diritto Internazionale Umanitario (DIU) che, in qualche misura, da un lato amplia le opportunità di intervento bellico delle Nazioni Unite; e dall’altro lato, quoad obiectum, accresce anche le situazioni in cui tale intervento è possibile o, addirittura, opportuno e necessario, per sovvenire a casi di aggressione che attentino non semplicemente all’integrità di un altro Stato sovrano ma ai diritti umani in quanto tali: «it is the international law that counts and not the right of might» (5).
Il DIU si è formato, anche formalmente, cioè con codificazione scritta, dalla Dichiarazione di Pietroburgo del 1868: «i progressi della civiltà devono produrre l’effetto di attenuare, nei limiti del possibile, le calamità della guerra», «il solo scopo legittimo che gli Stati devono prefiggersi durante la guerra è indebolire le forze militari del nemico», per confluire, poi, nel cosiddetto diritto dell’Aja, costituito dalle Convenzioni adottate al termine della I e della II Conferenza per la Pace, rispettivamente del 1899 e del 1907, convocate su iniziativa dello zar di Russia. Intervengono, poi, per l’appunto, il Patto della Società delle Nazioni del 1919 e il Patto Briand-Kellog del 1928. A seguire il Preambolo della Carta di San Francisco (Stati Uniti) del 1945 con le quattro Convenzioni di Ginevra, che in qualche maniera costituzionalizzano il diritto internazionale umanitario consuetudinario. Vi saranno poi la Convenzione dell’ONU contro il crimine di genocidio del 1948 e la Convenzione dell’ONU sulla imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità del 1968.
Nell’ambito del DIU, agli Stati nazionali, parti contraenti di convenzioni e di protocolli, compete la libertà di formulare dichiarazioni interpretative delle clausole convenzionali, di porre riserve sulla loro applicazione e di denunciare l’accordo stipulato in omaggio alla capacità riconosciuta di scegliere i modi per tutelare i propri interessi nazionali.
Giova sottolineare che «i due sistemi, quello del diritto umanitario tradizionale e quello recente dei diritti umani, diversi per formazione storica e per configurazione tecnica, si fondano su una comune base filosofica, l’affermazione del valore della persona, e tendono alla finalità comune di assicurare a questa una protezione stabile ed efficace in ogni circostanza, che è poi condizione della pace mondiale. Si consideri per quest’ultimo punto che proprio lo “spirito di pace” ha animato tutto lo sviluppo storico del diritto umanitario, da sempre orientato a limitare i mali della guerra solo come “extrema ratio” per questa tragica eventualità … Dalla percezione di tale rapporto di complementarietà e di interdipendenza fra i due sistemi si è sviluppata la tendenza crescente, sul piano internazionale, a considerare il problema della protezione dell’uomo in una prospettiva globale e unitaria, senza più riferimento alla demarcazione classica fra legge di guerra e legge di pace» (6).
In tale contesto, va rilevato che «l’Europa, pur con le sue contraddizioni e con le attuali sue debolezze ideali e istituzionali, è in grado di offrire un affidabile patrimonio normativo di protezione dei diritti e delle libertà di ogni persona, comunque residente nel continente europeo, confermato dagli strumenti che gli ordinamenti democratici progressivamente adottati e rafforzati pongono a disposizione e che configurano un solido e corretto rapporto fra la persona umana e lo Stato moderno che è la civitas, organizzata per riconoscere ad ogni cittadino lo spazio di libertà che gli è dovuto» (7).
Dall’autosufficienza dello Stato all’interdipendenza
Negli ultimi decenni si è così visto un progressivo trasferimento alla stessa comunità internazionale di forme di gestione pubblicistica dei suoi valori essenziali, con un effetto di policentrismo del costituzionalismo internazionale, polimorfo e acefalo, radicalmente paritario e orizzontale, privo del consenso intorno a un’autorità suprema — in assenza di una forma imperiale, che, quale primus inter pares, possa assolvere ad una funzione apicalmente unificatrice —, che rende necessario il consenso intorno ad alcune regole fra le parti e al di sopra delle parti.
Ciò dà spinta a un fenomeno di jus cogens e di obblighi erga omnes senza verticalizzazione della comunità internazionale, con la formazione di princìpi di ordine pubblico comune anche in una società paritaria e disorganica come quella internazionale.
È un processo di «individualizzazione» delle norme internazionali, sia sotto la forma della protezione dei diritti degli individui — e non solo delle nazioni —, sia sotto la forma dell’attribuzione di responsabilità individuali accanto alla responsabilità degli Stati, a carico dei pubblici funzionari che commettono gravi crimini di guerra, genocidio, o altri crimini contro l’umanità, secondo la rielaborazione di quattro distinti elementi: lo slittamento dal concetto di guerra a quello di conflitto armato; la riconduzione ad unità delle attuali teorie giuridiche nei settori del diritto di guerra, del diritto penale internazionale e del contrasto al terrorismo; lo spostamento dall’astratta e sfuggente definizione in generale del terrorismo e dei terroristi all’individuazione dei bersagli e dei criminali; il principio della progressiva «individualizzazione» del diritto internazionale.
In tale prospettiva va inserito anche l’appello lanciato dal regnante Pontefice nell’enciclica Fratelli tutti: «Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale» (8).
Papa Francesco nella stessa enciclica richiamava però la necessità di una riforma dell’organizzazione dell’ONU, capace di imporre «limiti giuridici precisi, per evitare che si tratti di un’autorità cooptata solo da alcuni Paesi e, nello stesso tempo, impedire imposizioni culturali o la riduzione delle libertà essenziali delle nazioni più deboli a causa di differenze ideologiche. Infatti, “quella internazionale è una comunità giuridica fondata sulla sovranità di ogni Stato membro, senza vincoli di subordinazione che ne neghino o ne limitino l’indipendenza”» (9).
La conseguente configurazione dell’aggressione, anche a titolo di responsabilità personale per crimini di guerra, è stata codificata, in particolare, con la Convenzione sul Genocidio e l’istituzione della Corte Penale Internazionale (CPI), con giurisdizione internazionale, ancorché limitata ai soli Paesi aderenti (10).
Viene così ritagliato un ruolo specifico del diritto internazionale penale, volto a vietare taluni comportamenti perché lesivi di interessi fondamentali, condivisi dall’intera comunità internazionale, e a garantire che non vi sia impunità per tali atti, rispetto al diritto penale internazionale, volto a realizzare invece la cooperazione internazionale a supporto della migliore protezione di interessi penalmente protetti nella normativa interna degli Stati (11).
L’internazionalismo istituzionale è allora funzionale a scongiurare l’impunità — come riconosciuto dallo Statuto di Roma della CPI —, la cui giurisdizione non è esclusiva ma affiancata dal ruolo dei giudici nazionali in applicazione di criteri di «giurisdizione universale». La natura complementare della CPI è tale anche rispetto agli Stati che agiscano in applicazione di criteri di giurisdizione universale, che impone il dovere di ciascun Stato di esercitare la sua giurisdizione penale sui responsabili di crimini internazionali. È quanto prevede l’obbligo di cooperazione degli Stati Parti con la CPI in base allo statuto di Roma, anche «inversa».
La CPI non è solo, dunque, complementare presidio di giustizia, ma anche organizzazione internazionale di riferimento per una sempre più corale, coerente ed efficace azione contro l’impunità.
Esempio virtuoso di questa cooperazione è la squadra investigativa comune SIC-Joint Investigation Team, di EuroJust — il termine indica gli accordi giuridici fra le autorità competenti di due o più Stati al fine di svolgere indagini penali (12).
Fondamenti del diritto umanitario
Nell’ambito di approfondimento dei fondamenti di tale rinnovata spinta al diritto umanitario vi è la riscoperta della teoria della guerra giusta (13). Oggi, ricorre per la Chiesa cattolica la festa liturgica della Trasfigurazione di Nostro Signore Gesù Cristo, estesa universalmente da Papa Callisto III (1455-1458) nel 1457 per festeggiare la vittoria ottenuta il 6 agosto dell’anno precedente dalle armate cristiane guidate dal reggente d’Ungheria Giovanni Hunyadi (1407 ca.-1456) e dal francescano Giovanni da Capestrano O.F.M. (1386-1456) contro le forze ottomane del sultano Mehmed II (1432-1481) sotto le mura di Belgrado, in Serbia. Fu guerra giusta? Evidentemente sì, per l’augusto Pontefice.
La teoria della guerra giusta si sviluppò sotto l’egida dei grandi maestri del diritto internazionale, a partire, in specie, dal secolo XV: fra i più autorevoli, il domenicano spagnolo Francisco de Vitoria (1483-1546), poi il gesuita spagnolo Suárez (1548-1617), il giurista olandese Ugo Grozio (Hugo de Groot, 1583-1645), il giurista tedesco Samuel Pufendorf (1632-1694). Va precisato che l’elaborazione del «laico» Grozio fu lungi dall’abbandonare l’ispirazione morale e religiosa attinta dalle opere dei teologi spagnoli (14).
All’origine vi furono i greci — con la loro contrapposizione dialettica fra stasis e polemos libertà/barbarie — e il De Republica di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), che riprendeva la classica concezione giuridico-religiosa romana del ius ad bellum come ius fetiale, con una declinazione di guerra difensiva o di vendetta: «Nullum bellum iustum sine causa nec de legitima ratione» (15).
La guerra giusta non sarà, allora, solo quella di autodifesa ma anche quella in difesa dei diritti umani, intesi come socially basic human rights, come rispetto minimo della dignità umana: sicurezza, cioè il diritto di non essere ucciso, torturato, aggredito (security rights), e sussistenza (subsistence rights), cioè il diritto al cibo, vestiario e riparo convenienti, nonché all’aria e all’acqua pulite; nonché, soprattutto, libertà negativa — fra cui, fondamentale, la libertà religiosa.
Lo sviluppo del pensiero tradizionale va dall’originaria giustificazione agostiniana della guerra come difesa del debole e dell’oppresso e di ripristino delle conseguenze della iniuria, alla riparazione all’ingiustizia. San Tommaso — sulla scorta della scuola canonistica del Decretum di Graziano (1080 ca.-1150 ca.) — pone l’accento sulla necessità di preservare il bene comune, inteso in senso obiettivo, sia di coloro che devono essere difesi, sia anche di coloro che offendono ingiustamente (16).
La teoria moderna della guerra giusta fa invece riferimento a tre parametri fondamentali: quello della giustificazione (iusta causa), quello del soggetto decisore (legitima auctoritas) e quello del modo di attuazione (iusto modo), questi ultimi due aspetti riproducendo i fondamenti rispettivamente del ius ad bellum e del ius in bello. Il criterio della recta intentio, la cui assenza per san Tommaso avrebbe radicalmente reso ingiusta una guerra per altri versi giusta, è stato progressivamente dimenticato negli sviluppi successivi della teoria.
Così, secondo la teoria tradizionale, il diritto naturale all’autodifesa — il vim vi repellere licet del giurista romano Ulpiano (170 ca.-228) ripreso da de Vitoria e da Grozio (17) — è principio di giustizia retributivo/riparativo di risposta a un male ingiusto.
Per san Tommaso è il principio del duplice effetto, tratto dalla spiegazione della struttura dell’omicidio per legittima difesa: colui che si difende non dovrebbe avere intenzione di uccidere l’aggressore ma soltanto l’intenzione di evitare l’imminente e illecita aggressione. Se l’aggressore viene ucciso come effetto collaterale della legittima difesa — e l’uccisione non è sproporzionata rispetto alla gravità dell’aggressione posta in essere dall’assalitore —, l’uccisione è giustificata e priva di conseguenze giuridiche.
La stessa idea è alla base del principio della distinzione nel diritto penale internazionale, vale a dire che è inammissibile bersagliare intenzionalmente i civili, ma questi possono essere uccisi come «danno collaterale» di attacchi contro obiettivi militari. L’unica limitazione — peraltro di complessa applicazione nella pratica laddove i civili fossero intenzionalmente utilizzati come «scudi» di obiettivi militari: ne è recente tragico esempio la condizione dei gazawi, gli abitanti della Striscia di Gaza — è che la perdita di vite fra i civili non deve essere «eccessiva» o «sproporzionata» rispetto all’obiettivo militare, per cui l’azione militare deve distinguere fra i combattenti e i civili, e rivolgere gli attacchi solo contro obiettivi militari e belligeranti. Il danno ai civili non deve essere intenzionale.
Proponendo un raffronto strutturale fra la legittima difesa e il principio della distinzione in guerra, potremo dire che in guerra l’intenzione buona è attaccare obiettivi militari, quella cattiva uccidere civili, laddove nella legittima difesa respingere l’aggressione, nel primo caso, uccidere un essere umano, nel secondo.
L’intera struttura delle convenzioni di diritto internazionale umanitario di Ginevra, del resto, è basata sul principio che esistono soggetti protetti — i prigionieri di guerra, gli ammalati, i civili e altri hors de combat, cioè soldati fuori combattimento—, che hanno diritto al rispetto della vita e dell’integrità fisica e morale, e che è illegale prendere intenzionalmente come bersaglio soggetti protetti; essi, tuttavia, possono essere uccisi come proporzionato effetto collaterale di attività militari legittime, cosicché, senza la dottrina del duplice effetto, l’uso di forza letale nelle campagne militari dovrebbe essere escluso ogniqualvolta imponga un sostanziale pericolo per vite innocenti.
È evidente al riguardo l’insufficienza del criterio costi/benefici e la necessità di un fondamento morale, da cui l’invalidità dei criteri del consenso — da qui il divieto legale dei duelli — e dello stato di necessità ovvero del male minore — invocati questi ultimi per il caso delle vittime della bomba atomica fatta scoppiare su Hiroshima, come molto bene rappresentato nel film di Cristopher Nolan, Oppenheimer, insignito dell’Oscar (18).
Renato Veneruso
Note:
1) Sulla nozione e sullo sviluppo dello Stato moderno, cfr. Francesco Pappalardo, La parabola dello Stato moderno, D’Ettoris, Crotone 2022.
2) Il ripudio della guerra nell’art. 11 della Costituzione della Repubblica Italiana è intimamente legato alla previsione delle limitazioni di sovranità che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati», e che sono «necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni» (comma 2). Il ripudio della guerra sarebbe stato utopistico se fosse stato concepito come atto isolato di un Paese, ma ha una portata realistica se ogni Stato è disposto a limitare il proprio potere decisionale allo scopo di assicurare la pace e la giustizia, come in effetti si è cercato di fare dopo la Seconda Guerra Mondiale con l’ONU.
3) Cfr. Arianna Vedaschi, Guerra e Costituzioni: spunti dalla comparazione, in Osservatorio AIC, fasc. 3, 6-4-2022, pp. 47-64.
4) Già nel 1928, nello scritto La Comunità internazionale e il diritto di guerra, don Luigi Sturzo (1871-1959) aveva lucidamente colto questo scivolamento del diritto di proclamare la guerra dal singolo Stato nazionale alla Comunità internazionale.
5) «È il diritto internazionale che conta e non il diritto della forza» (cfr. Ursula von der Leyen, Discorso durante la seduta plenaria del Parlamento Europeo, del 4-5-2022, nel sito web <https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/el/speech_22_2785>. Gli indirizzi Internet dell’articolo sono stati consultati il 27-2-2025).
6) Ugo Genesio, Le leggi dell’umanità, Nagard, Milano 2009, p. 31. Cfr. etiam, Francesco Viola, La teoria della guerra giusta ed i diritti umani, in Stefano Semplici e altri (a cura di), Pace, sicurezza, diritti umani, Edizioni Messaggero, Padova 2005, pp. 39-68.
7) Giovanni Barberini, Diritto internazionale umanitario, guerra e pace, diritti delle persone, in Statoechiese.it, 21-11-2011. Cfr. una sintesi del rapporto fra diritti umani e diritto umanitario nei conflitti armati in Alessandra Annoni, La qualificazione dei conflitti armati e L’applicazione delle norme sulla tutela dei diritti umani nei conflitti armati, schede consultabili sul sito Internet dell’Università di Catanzaro. Cfr. etiam, Federico Sperotto, Legislazione di guerra e diritto dei conflitti armati nell’ordinamento italiano, in Diritto Penale Contemporaneo, 3 aprile 2012.
8) Francesco, Lettera enciclica «Fratelli tutti» sulla fraternità e l’amicizia sociale, del 3-10-2020, n. 257.
9) Ibidem, n. 173. Del «terzo conflitto mondiale a pezzi» che il mondo sta vivendo — che in molte delle sue «componenti» resta spesso lontano dall’attenzione della comunità internazionale — ha spesso parlato Papa Francesco, dapprima nel 2014, poi nel settembre del 2022, sottolineandone la natura «totale» perché tutte le guerre che affliggono il mondo di oggi sembrano segnate da una spaventosa regressione del rispetto del diritto umanitario, colpendo indistintamente civili, anziani, bambini e malati (cfr. Gianluca Vivacqua, La terza guerra mondiale di Papa Francesco. Da «guerra a pezzi» a «guerra totale», in Notizie Geopolitiche, 22-9-2022, nel sito web <https://www.notiziegeopolitiche.net/la-terza-guerra-mondiale-di-papa-francesco>).
10) Cfr. Federica Mucci, La guerra in Ucraina e l’effettività del diritto umanitario. Nuovi schemi di cooperazione con la Corte penale internazionale, in Dirittifondamentali.it, n. 1, 2023, nel sito web <https://dirittifondamentali.it/author/federica-mucci>.
11) Cfr. Ida Caracciolo, Dal diritto penale internazionale al diritto internazionale penale. Il rafforzamento delle garanzie giurisdizionali, Editoriale Scientifica, Napoli 2000.
12) Per esempio, fra le più recenti, una SIC franco-tedesca lavora sui crimini commessi dal regime siriano e un’altra è stata costituita nel gennaio 2022 da Svezia e Francia sui crimini commessi dai terroristi foreign fighters del sedicente Stato Islamico (ISIS) contro la popolazione yezidi in Siria e in Iraq, in particolare nel 2014, crimini sui quali lavora anche una squadra investigativa delle Nazioni Unite.
13) Cfr. Jeff[erson Allen] McMahan, The Morality of War and the Law of War, in David Rodin e Henry Shue (a cura di), Just and Unjust Warriors. The Moral and Legal Status of Soldiers, Oxford University Press, Oxford (UK) 2008, pp. 19-43, parte di una rinnovata «teoria della guerra giusta», che egli fa risalire ai greci, con la sua massima espressione negli autori cristiani, da sant’Agostino a san Tommaso d’Aquino (1225/1226-1274). Cfr. etiam, Michael Walzer, Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2009. Prima, cfr. Kelsen, con la teoria della guerra come «sanzione del diritto internazionale», e il pacifismo giuridico di Norberto Bobbio (1909-2004).
14) Cfr. Mauro Ronco, Dottrina sociale della Chiesa e diritto, in Cristianità, anno LII, n. 429, settembre-ottobre 2024, pp. 15-26.
15) Cicerone qui riprende Aristotele (384/383-322 a.C.), nella traduzione, probabilmente interpolata, di Isidoro di Siviglia (560 ca.-636). Cfr. Antonello Calore, Bellum iustum tra etica e diritto, in Cosimo Cascione e Carla Masi Doria, Fides. Humanitas. Ius. Studii in onore di Luigi Labruna, Editoriale Scientifica, Napoli 2007, pp. 607-616, nota 17.
16) Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 40, a.1. Significativamente, infatti, san Tommaso non affronta il problema della guerra nella parte della Summa dedicata alla legge naturale, né in quella riguardante la giustizia, ma a proposito della virtù della carità. Egli non si chiede quando una guerra è morale, ma se è sempre peccaminoso fare una guerra, cioè quando l’uccisione di un altro essere umano non è contraria all’amore del prossimo.
17) «È lecito respingere la forza con la forza» (cfr. Ulpiano, Commentario ad edictum, 69, Francisco de Vitoria, Relectiones theologicae, VI, e Ugo Grozio, De iure bellis ac pacis, parte prima, II,6).
18) Sull’incidenza sulla teoria della guerra giusta del possibile uso dell’arma atomica, si segnala il contributo di Massimo Luciani, Dalla guerra giusta alla guerra legale?, in Teoria politica, n. 12, 2022, nel quale si avanza la tesi, che pure parte da premesse di diritto naturale, per cui «[…] in presenza del rischio di una guerra nucleare […] piuttosto che ricercare la guerra giusta, uno dovrebbe, se non altro, pensare alle caratteristiche di una guerra “lawful”, cioè di una guerra rispettosa delle norme internazionali e dei vincoli costituzionali di ogni Paese». Sulla medesima scia di non «legalizzabilità» della guerra atomica, cfr. la tesi di laurea triennale Roberto Pietrantoni, La teoria della guerra: tra giustizia, legalità e legittimità, relatrice la professoressa Marta Ferronato dell’Università di Padova (2021-2022), interessante anche per la ricostruzione della guerra «partigiana», nella prospettiva schmittiana, come guerra «assoluta», in quanto tale mai giusta perché strutturalmente irrispettosa dei limiti del ius in bello.
