Pubblichiamo l’intervento di A. Mantovano “Attività interpretativa e funzione normativa: connessioni e interferenze”, in occasione del Convegno di Magistratura Indipendente – Roma 7 e 8 febbraio 2020
1 – Immagino che più d’uno di voi abbia visto al cinema la nuova trasposizione di un libro – Le avventure di Pinocchio – che qualcuno continua impropriamente a ritenere per bambini. Sollecitato dal film, ho ripreso per l’ennesima volta il volume: un condensato, non sempre facilmente intellegibile, della nostra cultura e della nostra tradizione. Il cap. 19 è dedicato a quello che Salvatore Satta ha definito con ragione “il mistero del processo”: Pinocchio si rende conto che il Gatto e la Volpe lo hanno derubato degli zecchini d’oro e – dice il racconto – “andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato”. Il magistrato è descritto in un modo per noi non particolarmente lusinghiero: “Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri”. A lui Pinocchio chiede giustizia, dopo aver narrato nel dettaglio quanto gli era accaduto.
Prosegue il testo: “Il giudice lo ascoltò con molta benignità; prese vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello. (…) accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro: —Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione.―”
La crudeltà di quel “dunque” continua a farmi rabbrividire. Quel “dunque”, una sorta di equivalente di “per questi motivi”, è parola inquietante ma vera, come osservava il card. Giacomo Biffi, autore di un mirabile commento teologico a Pinocchio: perché noi possiamo rassegnarci a tutto, ma non al diniego di giustizia. Possiamo sopportare ogni malvagità, ma riteniamo insopportabile l’ingiustizia. Perché la giustizia è la nostra patria: nostra di uomini e donne, prima ancora che di magistrati. Per questo ci sentiamo in esilio così di frequente.
Collodi descrive il giudice come un personaggio benevolo, attento, financo pronto a commuoversi. Peccato che i suoi occhiali, pur d’oro, siano senza vetri, e quindi gli impediscano di vedere; e gli precludano quella decisione coraggiosa che, come ricordava prima il pres. Piffer, sarebbe stata coerente con la consapevolezza del proprio ruolo. Quel che gli manca non è il profilo esteriore della rispettabilità: quello c’è tutto, pur se egli resta sempre “uno scimmione della razza dei Gorilla”. Quel che gli manca è l’umiltà di cogliere la realtà che gli si presenta davanti, è l’onestà intellettuale anche di essa parlava Piffer – di mantenersi stretto fra il vincolo della legge e la ricostruzione obiettiva del fatto.
2 – L’intento di superare la norma di legge perché limita la funzione del giudice non è storia degli ultimi anni: è teorizzata da tempo. Certo, sono trascorsi un po’ di decenni da quando – si era grosso modo alla metà degli anni 1960 – la magistratura italiana ha scoperto e ha ricoperto un ruolo di giustizia intesa in senso lato, e quindi in qualche modo anche di giustizia sociale, che l’ha condotta oltre i propri specifici confini istituzionali: assumendo per un verso la veste di vindice del malcostume della politica, per altro verso di supplenza di decisioni che si riteneva che la politica dovesse adottare. Questo straripamento è avvenuto certamente in parallelo a un progressivo decadimento della classe politica, e a una frequente inerzia delle amministrazioni pubbliche su fronti importanti e socialmente rilevanti: penso, fra gli altri, all’ambiente o all’urbanistica. Ma è altrettanto indubbio che la “supplenza” non è stata solo una scelta di necessità, formalmente non giustificata, ma forse comprensibile per sanare situazioni intollerabili: è divenuta una categoria ideologica e una forma di controllo delle scelte della politica, fino a giungere alla sostituire quelle scelte con sentenze, ordinanze e decreti.
La teorizzazione e l’organizzazione della “supplenza” è andata di pari passo col sorgere e con lo sviluppo, all’interno della magistratura italiana, delle c.d. “correnti”. Uno dei fondatori di Magistratura democratica, il giudice Marco Ramat, indicava fra gli obiettivi programmatici della costituzione di MD, la “formazione di un nuovo tipo di giudice, il quale sappia rendersi conscio di essere strumento delegato e parziale della sovranità popolare e, pertanto, sappia ognora mediare nella sua giurisprudenza le esigenze espresse dalla medesima”. Fin dal suo sorgere MD ha rivendicato per il magistrato un ruolo di diretto interprete della volontà popolare, declinata secondo griglie ideologicamente orientate: in nome dell’attuazione della “sovranità popolare”, il giudice era chiamato a superare il tradizionale quadro di riferimento dei diritti con una esegesi costituzionalmente orientata. I primi terreni operativi sono state le controversie di lavoro, ma non sono mancate incursioni nel diritto di famiglia.
Dai “pretori d’assalto” di mezzo secolo fa all’attuale superamento della norma positiva, e anzi alla creazione di essa per via giurisprudenziale, ci sono tanti passaggi intermedi, che il tempo impedisce di ripercorrere. Per questo giungo subito a quella che, allo stato, appare essere la conclusione del percorso.
3 – “Quando il giudice siede in giudizio non ha di fronte a sé, primariamente, la rete delle norme giuridiche, indossando le quali, come i suoi occhiali, guardare il mondo che scorre sotto di sé. Al contrario ha di fronte a sé, primariamente, casi della vita. Solo dopo che li ha valutati nel loro (…) bisogno di diritto, egli si rivolgerà alle norme positive per cercarvi adeguate soluzioni: adeguate tanto al caso quanto al diritto. Nella “invenzione” delle soluzioni adeguate rispetto ai due lati dell’interpretazione, formale e materiale, sta il successo dell’interprete; nell’impossibilità o incapacità di invenirle, sta il suo fallimento”.
Così circa due anni fa il presidente emerito della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky illustrava un volume scritto da Paolo Grossi, allora presidente in carica della Consulta: vi è una continuità ideologica, pur – lo ripeto – con non pochi passaggi intermedi, fra il giudice interprete dalla sovranità popolare dal quale si era partiti oltre mezzo secolo fa, e il giudice che oggi “inventa” il diritto nel caso concreto.
Già agli inizi degli anni 1990 era stato proprio G. Zagrebelsky a indicare come inevitabile l’intervento della giurisdizione oltre i suoi tradizionali confini: “La ragione della temuta “esplosione” soggettivistica dell’interpretazione è […] da rintracciare nel carattere pluralistico della società attuale e di quella società parziale che è la comunità dei giuristi e di coloro che operano attraverso il diritto […]. Senza considerare che molte domande nuove poste al diritto dal progresso tecnologico (si pensi alla tecnologia genetica) forse più opportunamente possono trovare una prima risposta in una procedura giudiziaria in cui si mettano a confronto prudentemente i principi coinvolti, piuttosto che in assemblee politiche dove il richiamo ai principi è spesso uno strumento di militanza di parte”.
L’aggiramento dell’autorità democratica è addirittura presentato come qualcosa di salutare e di raccomandabile: il luogo della decisione non è bene che sia ancora il Parlamento, perché in esso avvengono scontri di parte (ciò che per la verità costituisce un profilo fisiologico, non patologico: le Assemblee elettive rappresentano le differenti posizioni esistenti nel corpo sociale). E’ opportuno invece che passi al giudice, in quanto gestore di una “procedura” soft e meno conflittuale. Oggi G. Zagrebelsky rende il discorso ben più esplicito quando afferma che “(…) Troppo vari sono i casi in materie come la bioetica, la famiglia, i rapporti fra genitori e figli naturali o adottivi, le misure restrittive della libertà” 4 , che non tollerano di essere “semplificate con norme che operano come il filo di piombo usato per le costruzioni dell’isola di Lesbo”. Da parte dei giudici “si tratta dell’applicazione di criteri (…) di “giustezza” tratti dalla dinamica sociale”. (…) Nello Stato costituzionale attuale non è più vero che la forza della legge segua incondizionatamente alla forma di legge. C’è qualcosa d’altro, cioè l’apertura dello sguardo dei giuristi a ciò che vive, cambia, talora ribolle sotto lo strato delle leggi”.
4 – Sarebbe interessante una riflessione sui limiti della legge positiva, e sulla crescente distanza che essa ha manifestato – in coerenza con la rivoluzione culturale del 1968 – rispetto ai fondamenti di un diritto conforme alla natura dell’uomo; ma, come la critica al superamento dei limiti della giurisdizione è debole se si riduce a occupare la trincea del diritto positivo, allo stesso modo non è ragionevole denunciare i limiti dell’attuale produzione normativa e prospettare come rimedio l’ulteriore dilatazione dell’arbitrio del giudice. Quando G. Zagrebelsky invoca il predominio della “discrezionalità del giudice necessaria per apprezzare le caratteristiche specifiche dei casi concreti”, la prima domanda da porsi è: qual è la griglia dei principi per l’esercizio di quella “discrezionalità”? E quando fa riferimento ai “criteri (…) di “giustezza” tratti dalla dinamica sociale”, il quesito è: chi elabora tali criteri, di quali criteri si tratta, chi conferisce significato alla “dinamica sociale”, e in virtù di quale mandato? E infine, quali limiti ha tale operazione esegetica, che senza difficoltà viene definita “creativa del diritto”?
Esemplare in tale direzione, esemplare cioè di una giurisdizione che conferisce il “primato (…) alle ragioni che stanno nella vita del diritto rispetto a quelle che stanno nelle righe delle leggi”, per riprendere ancora una volta Zagrebelsky, è la sentenza della Corte di Cassazione sul caso di Eluana Englaro. Questa pronuncia è pervenuta alla elaborazione quali principi di diritto che l’alimentazione e l’idratazione, se somministrate in modo artificiale, rappresentino un trattamento sanitario, e che il consenso alla interruzione di tali presidi di sostegno vitale, quando non sia stato espresso in modo esplicito, sia ricavabile dagli stili di vita o dalle convinzioni che la persona aveva prima di perdere conoscenza.
Esemplare, ma tutt’altro che isolata, se si hanno presenti le sentenze, anche recenti, in tema di fecondazione artificiale, di trascrizione nei registri dello stato civile di bambini ottenuti attraverso la maternità surrogata, di adozione da parte di coppie dello stesso sesso, e in generale sul territorio che è stato denominato dei “nuovi diritti”: di “diritti”, cioè, che hanno necessità di qualificarsi “nuovi” per distinguersi dai diritti che non hanno bisogno di aggettivi, perché sono antropologicamente fondati. Con il caso Englaro si è giunti addirittura a un capovolgimento, con la formale subordinazione dell’attività legislativa alla giurisprudenza: dieci anni dopo che una sentenza ha “inventato” il diritto nel caso concreto, il Parlamento ha trascritto in norme, con la legge n. 219/2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento, i “principi di diritto” enunciati in quella pronuncia. Spesso il Parlamento ci mette del suo, quando approva norme così indefinite da incrementare la discrezionalità esegetica dei tribunali.
5 – Vorrei aggiungere che il superamento dei confini della giurisdizione non avviene solo sul terreno della formazione della norma. Ci sono terreni altrettanto cruciali che subiscono, più che interferenze, autentiche invasioni, come l’azione di governo o gli interventi della scienza. Gli straripamenti sulle scelte di governo sono facilmente riscontrabili: basta pensare per tutti alle politiche dell’immigrazione o della sicurezza, e alle ricadute di taluni provvedimenti giudiziari sulla realizzazione delle opere pubbliche. Al netto della corruttela o della scarsa professionalità dei pubblici amministratori e dei pubblici funzionari, troppe opere pubbliche non vengono realizzate a causa degli allungamenti dei tempi derivanti da interventi giudiziari non propriamente necessari: poniamo a confronto la quantità di procedimenti penali avviati per abuso d’ufficio con l’entità prossima allo zero di condanne divenute definitive per tale titolo di reato.
Tutto questo ha una sua evidenza. Non si fa invece analoga attenzione all’interferenza che nell’ultimo quarto di secolo provvedimenti giudiziari hanno avuto e hanno in questioni medico-scientifiche. Il filo unitario è stato il superamento delle conoscenze di volta in volta raggiunte da larga parte della comunità scientifica: dal caso Di Bella ai vaccini indicati come causa di autismo, dall’ILVA fino al procedimento probabilmente più eclatante, quello che ha bloccato l’azione congiunta dell’Unione europea e del Governo italiano contro la diffusione del batterio della Xylella fra gli ulivi del Sud delle Puglie. In tutti questi casi gli esiti sono stati fortemente negativi: nella vicenda Xylella il procedimento penale, concluso con un decreto di archiviazione che ha riprodotto in modo acritico la richiesta della Procura, ha concorso a provocare un danno quantificato come superiore al miliardo di euro.
Se l’attività professionale di taluni nostri Colleghi parte dal presupposto di conferire il “primato (…) alle ragioni che stanno nella vita del diritto rispetto a quelle che stanno nelle righe delle leggi”, è stato più che normale – è venuto quasi in automatico – che questo primato si sia esteso alla medicina e alla scienza: in tal modo la magistratura si è resa autonoma e indipendente anche dal rigore e dall’evidenza scientifici, e la dimostrazione dei nessi di causalità fisica è diventata un fastidio.
6 – Ringrazio molto per la riflessione che Magistratura indipendente ha voluto promuovere su un tema così centrale. E’ un segnale di serietà, che mi auguro venga raccolto da qualcuno dal mondo della politica, superando un corto circuito che ha visto finora reciproci sospetti e arroccamenti. Il ritorno a una giurisdizione che sradichi il pregiudizio nella ricostruzione del fatto e che recuperi un approccio di sistema, secondo gli auspici del pres. Piffer, non può non muovere dall’interno del mondo giudiziario: ma sarebbe vano se non trovasse corrispondenza sul piano normativo e dell’azione di governo.
Le avventure di Pinocchio, da cui sono partito – e con cui concludo – insegnano che la natura più legnosa può scoprire la propria umanità se decide di non fare sempre per proprio conto, perché esistono delle regole e un Padre che le ha iscritte nell’uomo. Se siamo veramente convinti che “a tutto ci si può rassegnare, ma non alla defezione della giustizia”, e che “la giustizia è necessaria come il respiro”, può capitare perfino che dotiamo di lenti adeguati gli occhiali che adoperiamo per leggere la realtà, e così usciamo dalla parte di un vecchio “scimmione della razza dei gorilla”. E rendiamo quel jus che il factum che ci è davanti esige.