65 anni dopo l’invasione sovietica del 1956, l’Ungheria deve affrontare il colonialismo culturale del gender e del politicamente corretto
di Oscar Sanguinetti
65 anni fa, nel novembre del 1956, l’Unione Sovietica, coadiuvata dai Paesi socialisti adunati nel cosiddetto Patto militare di Varsavia, lanciava l’ultimatum contro il piccolo Paese magiaro insorto per difendere la sua indipendenza e per dire no al “socialismo reale” che opprimeva la nazione.
Come si sa, l’ultimatum fu rifiutato, l’Ungheria, Stato privo di frontiere naturali, fu invaso da tutti i lati dai carri armati sovietici, polacchi, cechi, tentò di difendersi con le armi strappate alla gendarmeria durante i moti ma venne brutalmente schiacciata. Le poche fotografie di Budapest dopo la repressione sono impressionanti testimonianze del furore delle battaglie svoltesi strada per strada fra gli studenti e gli operai magiari e le colonne corazzate sovietiche. Non è ancora poi noto il numero degli ungheresi caduti nelle centinaia di esecuzioni con cui si chiusero i processi contro i resistenti.
Ebbene, questa nazione martire riceve ancora, oggi, un ultimatum: deve piegarsi al nuovo paradigma che incensa l’omosessualità e con il pretesto di difenderne la libertà di pratica vuole far tacere ogni voce anche solo limitatamente critica e ogni iniziativa moderatrice.
La cosa impressionante è però che oggi non è più una superpotenza messa al servizio di una ideologia ingiusta e sanguinaria, il comunismo, a dettare l’agenda, ma è la “mite” Unione Europea, debole e pavida su ogni teatro mondiale, a fare la voce grossa. Non accetta infatti che uno Stato-membro, uno Stato nominalmente sovrano, possa legiferare, si badi bene, non contro i principi dell’uguaglianza e della non-discriminazione quanto a determinate pratiche sessuali, bensì ponga dei limiti legali alla propaganda a favore di esse, con il motivo sacrosanto della tutela della libertà di informazione delle fasce più giovani e meno attrezzate della popolazione.
C’è da restare stupefatti: non si tratta più di una intesa comune, di tipo economico e limitatamente politico per difendere gli Stati-membri in un contesto così rischioso come quello della globalizzazione, ma di una vera e propria ideocrazia. Come l’URSS che imponeva il paradigma del socialismo, così l’UE impone quello dell’ugualitarismo spinto fino al punto di negare dati inoppugnabili di natura.
E questo rivela come il patto europeo non nasca da motivi fattuali e da libere intese fra Stati sovrani ma sia un disegno di alcune centrali ideologiche post-comuniste per edificare un organismo sovranazionale semi-totalitario, non più comunista ma ferreamente conforme ai canoni del più rancido socialismo umanitarista. D’altronde, bastava leggere il Manifesto di Ventotene di Spinelli &companyper rendersene conto. Ora il progetto è realtà e l’Ungheria uscita fortunosamente dalla gabbia comunista nel 1989 deve ora mantenersi entro la gabbia, più impalpabile e non sancita con la violenza delle armi, dell’ideologia “giacobina” 2.0. E se questo vale oggi per lei, vale nel contempo per ciascun Paese della UE, Italia inclusa, come il dibattito sul DDL Zan sta rivelando.
Scandaloso: il Paese-martire del 1956 si trova oggi di fronte a una forma di nuovo e più sottile martirio.
Ma la Vergine, Regina dell’Ungheria, il beato Carlo, suo ultimo sovrano cristiano, e i suoi grandi santi non l’abbandoneranno nelle mani dei nuovi seguaci di Erode.
Sabato, 26 giugno 2021