Dopo le moschee e lo sport, in primis il calcio, ora è il turno dell’informazione, ovvero della cultura in senso lato
di Stefano Nitoglia
È di questi giorni la notizia che il fondo Red bird Imi stia cercando di acquistare il Telegraph Media Group, gruppo editoriale inglese che controlla il Telegraph e lo Spectator, due testate storiche britanniche di area conservatrice. Il Telegraph, più precisamente The Daily Telegraph, è un quotidiano fondato nel 1855, mentre lo Spectator è il settimanale di politica più antico del mondo, pubblicato per la prima volta nel luglio 1828.
Red bird Imi è una joint-venture tra il fondo americano Red bird, che possiede un quarto delle quote, e il fondo sovrano Imi, degli Emirati Arabi Uniti, guidato dallo sceicco Mansour bin Zayed al Nahyan, vicepresidente, primo ministro ed esponente della famiglia regnante di Abu Dhabi, che possiede i tre quarti delle quote e, quindi, detta legge nelle scelte strategiche.
L’occasione è stata la crisi economica della famiglia Barclay, che controlla le due testate. La crisi ha portato al pignoramento dell’intero gruppo editoriale da parte della creditrice banca Lloyd, per un debito di un miliardo di sterline. Il fondo Red bird Imi ha colto la palla al balzo ed ha prestato alla famiglia Barclay i soldi per riscattare il pegno, chiedendo, ora, in cambio di convertire il prestito in azioni; il che significa, praticamente, impossessarsi delle testate, pena il fallimento del gruppo Barclay.
Il fatto ha suscitato l’attenzione e la preoccupazione di Federico Fubini, inviato e editorialista del Corriere della Sera, di cui è vicedirettore ad personam, che dalle colonne del suo giornale, il 24 gennaio, lo ha messo in relazione con l’agitarsi delle monarchie del Golfo, che negli ultimi anni hanno intensificato i loro contatti e le loro iniziative economiche in Europa. Scrive Fubini: «Ma non ho potuto fare a meno di pensare a questa vicenda la settimana scorsa al World Economic Forum, dove i governi del Golfo sono discesi in massa dai loro velivoli sulla montagna incantata di Davos. Non solo gli Emirati Arabi Uniti, ma tutti i principali. L’Arabia Saudita è arrivata, praticamente, con mezzo governo e in un’unica sessione del Forum è riuscita a piazzare fra i conferenzieri i ministri dell’Economia, delle Finanze, degli Esteri e l’ambasciatrice negli Stati Uniti (la principessa Reema Bandar Al-Saud, figlia dell’ex ambasciatore negli Stati Uniti Bandar bin Sultan Al-Saud, ovviamente della famiglia regnante). (…) Quanto agli Emirati, già dalla Davos di un anno fa avevano colonizzato decine di dibattiti pubblici e imposto i loro giornalisti – il Paese è 145esimo al mondo per libertà di stampa, secondo Reporter senza frontiere – come autorevoli moderatori di moltissimi eventi. Il Qatar poi a Davos ha avuto un trattamento quasi da grande potenza (…) Il premier e sceicco di Doha Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani, esponente della famiglia regnante, è stato intervistato dal presidente del World Economic Forum Børge Brende, quasi fosse un grande saggio (ma nessuna domanda sui finanziamenti garantiti da Doha in questi anni a Hamas, ai talebani, a Al Qaeda nel Mali e in Libia e persino ai ribelli Houthi dello Yemen). Un’altra sessione ha riunito i ministri economici dell’area e quello del Bahrain, Salman bin Khalifa al Khalifa, esponente anche lui della famiglia regnante del posto, ha ricordato che il prodotto interno lordo aggregato dei Paesi dell’accordo Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Oman, Qatar, Bahrein e Kuwait) ha un peso assoluto nell’economia mondiale. Ormai messe insieme le sei monarchie assolute fatturano oltre 4.000 miliardi di dollari e sembrano avviate a superare collettivamente la quarta e la terza economia più grandi al mondo, Germania e Giappone».
In questa opera di conquista le monarchie del Golfo gettano il peso di tutta la loro potenza economica. Hanno iniziato con le moschee: il Qatar, uno dei sostenitori finanziari dei Fratelli Musulmani, un’organizzazione islamistica radicale, attraverso il suo fondo Qatar Charity Foundation, avrebbe donato 30 milioni per la nascita di moschee o centri di preghiera a una cinquantina di comunità islamiche italiane, tra le quali quelle di Brescia, Catania, Messina, Piacenza, Ravenna, Verona; circostanza confermata dall’ex-presidente dell’Ucoii (l’unione delle comunità islamiche italiane), Izzedin Elgir. L’interesse delle monarchie del Golfo per lo sport è noto ai più: il Manchester City è di Abu Dhabi, il Paris Saint-Germain del Qatar, il Newcastle dell’Arabia Saudita; senza contare gli ingaggi, a cifre astronomiche, di Cristiano Ronaldo e Roberto Mancini, in Arabia Saudita, e anche del campione del tennis Rafa Nadal. Ora è la volta della stampa, con pericolose ripercussioni sulla libertà di informazione e di pensiero e, comunque, con una pesante ipoteca sulla formazione della pubblica opinione e della cultura in Europa.
Insomma, stiamo assistendo all’assalto di nazioni fondamentaliste islamiche ai gangli vitali europei: una strategia quasi gramsciana. Con quali effetti presto si vedrà.
Martedì, 30 gennaio 2024