Tra le innumerevoli novità che furono introdotte nel culto cristiano continentale tra il IX e il X secolo, particolare attenzione meritano i primordi di quello che, nei secoli, sarebbe diventato il celebre genere del dramma liturgico.
dii Marco Drufuca
La prima traccia che abbiamo dell’introduzione di un elemento drammatico nel contesto liturgico risale circa al 923/924, probabile data di redazione di un manoscritto proveniente dall’Abbazia di san Marziale di Limoges. In esso, sotto l’apparentemente comune titolo di “Tropo per la [Messa di] Pasqua” (per il significato del termine tropo: clicca QUI), assistiamo per la prima volta all’introduzione di un dialogo tra più ‘personaggi’ all’interno della Liturgia. Una prima voce intona:
“Psallite regi magno, devicto mortis imperio! Quem queritis in sepulchro, o Christicole?”
(“Cantate al gran Re, perché ha annientato il regno della morte! Chi cercate nel sepolcro, o seguaci di Cristo?”)
Segue la risposta, intonata da altri:
“Iesum nazarenum crucifixum, o celicole”
(“Gesù Nazareno, il Crocifisso, o abitanti del Cielo”)
Replica la prima voce:
“Non est hic, surrexit, sicut ipse dixit; ite, nunciate quia surrexit”
(“Non è qui: è risorto, come egli stesso aveva annunciato. Andate, proclamate che Egli è risorto!”)
Si procede poi con una serie di antifone, prive di indicazioni dialogiche.
Si tratta della più antica attestazione che ci è giunta del dialogo Quem quaeritis, di cui decine di versioni si trovano nei manoscritti dei secoli successivi, e che poteva essere inserito all’interno della liturgia principalmente in tre posizioni: legato all’Introito della Messa di Pasqua (appunto, come suo tropo), nel mezzo di una processione precedente la celebrazione, o in alternativa verso la fine del Mattutino, prima del canto del Te Deum.
Già il fatto che si tratti di un dialogo rappresenta una novità significativa. Se infatti non desta sorpresa la suddivisione di un testo cantato tra due parti (era questo infatti un uso che affondava le radici nelle più antiche tradizioni di canto ecclesiastico), è questa la prima volta in cui esse si pongono in dialogo tra di loro. Il dialogo della Liturgia, infatti, è essenzialmente tra la Chiesa e Dio, e se il clero, la schola o l’assemblea si dividono su due cori, questo avviene fondamentalmente per intonare alternatamente uno stesso Salmo, una stessa lode, avvicendandosi nel canto di un solo testo con interlocutore Dio stesso. Nel dialogo Quem quaeritis, al contrario, ciascuna delle due parti si rivolge all’altra, tralasciando per un momento di rivolgersi a Dio ed inserendo una prima forma di rappresentazione drammatica nel contesto celebrativo.
Una versione di Quem Quaeritis, più tarda rispetto al X secolo, può essere ascoltata QUI.
Una fonte di qualche decennio più tardi mostra poi come, oltre all’elemento dialogico, con l’introduzione del Quem quaeritis si fecero largo nel contesto liturgico veri e propri elementi drammatici. La Regularis Concordia, sancita nel concilio di Winchester come frutto del rinnovamento della vita monastica operato dai santi Dunstano, Etelvoldo ed Osvaldo, dedica il quinto capitolo ai riti da celebrarsi nel giorno di Pasqua. Anche qui troviamo il dialogo Quem quaeritis, ma con indicazioni più dettagliate riguardo a movimenti, intonazioni ed altri elementi “scenici”.
Riassumendo, il rito doveva svolgersi così: verso la fine del Mattutino, quattro monaci si vestono; in particolare, uno di essi indossa una veste candida e, presa in mano una palma, si porta “furtivamente” nel luogo dove è stato allestito un sepolcro simbolico, sopra il quale si mette a sedere. Giungono quindi gli altri tre, ciascuno munito di turibolo, “come se stessero cercando qualcosa”. Viene anche esplicitato il simbolismo che sottostà a queste indicazioni: “Fanno infatti così ad imitazione dell’angelo che siede sul Sepolcro, e delle donne che giungono con aromi e unguenti per profumare il copro di Gesù”. Quando l’angelo vede i tre confratelli, “con voce dolce e quieta” canta: “Quem quaeritis?”, dando così inizio al dialogo.
Dunque, ai quattro monaci è chiesto non solo di rappresentare, ma anche di impersonare personaggi biblici: vengono impartite loro indicazioni di recitazione (“furtivamente”, “come se stessero cercando qualcosa”. “con voce dolce e quieta”); viene fatto un uso dello spazio che va oltre il simbolismo proprio della Messa, in direzione di un più marcato realismo rappresentativo (l’angelo siede sopra il Sepolcro); infine, vengono introdotti “oggetti di scena”, non necessariamente appartenenti al corredo liturgico (la palma in mano all’angelo, i turiboli a rappresentare gli aromi delle pie donne).
Tuttavia, se alcuni elementi permettono di iniziare a parlare di dramma, bisogna anche riconoscere che esso si mantiene anche strettamente fedele alla sua natura liturgica, dunque con una natura simbolica che trascende l’elemento di realismo teatrale. Da un lato, benché l’episodio rappresentato coinvolga donne e angeli, è bene tenere a mente che, nel caso della Regularis Concordia, tutti e quattro i personaggi erano impersonati da monaci maschi. D’altronde, lo stesso testo del dialogo evita ogni riferimento a nomi e singole persone, in favore del più generico scambio tra “christicole” e “celicole”: è dunque chiaro che nelle tre donne e nei tre monaci al sepolcro viene riconosciuta l’intera Chiesa, e che mediante la rappresentazione liturgica si intende dare una lettura in chiave cattolico-universale degli eventi biblici. In secondo luogo, va anche considerato che gli “attori” recitavano avvolti nelle vesti liturgiche, e che lo stesso uso dei turiboli doveva mettere in relazione la rappresentazione con l’intera Liturgia, distanziandola dunque radicalmente da quello che poteva essere il teatro secolare.
Fatte queste considerazioni, si comprenderà meglio anche il ruolo ricoperto dalla musica. Innanzitutto occorre osservare come, almeno fino all’introduzione del planctus all’interno del dramma, il materiale musicale veniva mutuato quasi interamente da antifone e passi della liturgia preesistenti. Ciò implica che non si trattava di musica scritta ad hoc, come invece sarebbe avvenuto nelle più tarde forme di drammaturgia musicale. La musica non commenta quanto avviene, né si cura di descrivere l’atmosfera emotiva delle situazioni drammatiche o di caratterizzare psicologicamente i personaggi. Il suo ruolo non concorre quindi a un maggior realismo della rappresentazione. Al contrario, essa sortisce l’effetto di evidenziare la natura liturgica del dramma: nell’incurante estraneità dell’elemento musicale rispetto ai fatti narrati, e nel fatto che nelle note cantate è possibile scorgere i profili delle antifone liturgiche, la musica ricrea nel dramma l’atmosfera propria della celebrazione, mostrando con tutta evidenza come si tratti pur sempre di una azione svolta dalla Chiesa davanti a Dio, e verso Dio tendente.
L’antica preoccupazione dei Padri nei confronti della musica è ormai ribaltata: quelli avevano tenuto in sospetto l’elemento musicale, specie quello strumentale, perché temevano avvicinasse troppo la liturgia cristiana con il teatro e i culti pagani. Ora, al contrario, la musica diventa proprio un elemento capace di “sacralizzare” una rappresentazione, smarcandola in maniera netta da qualsiasi forma di ludus secolare e legandola inestricabilmente alla Liturgia della Chiesa.
Ciononostante, nel tempo la duplice tensione tra dramma e Liturgia avrebbe portato il nuovo genere ad assumere sempre più i connotati della rappresentazione realistica, progettata innanzitutto per il suo pubblico. Già nel testo della Regularis Concordia abbiamo letto l’istruzione di cantare “con voce dolce e quieta”, e nei manoscritti dei secoli successivi simili indicazioni si moltiplicano, tendendo sempre più verso un’interpretazione psicologicamente accorta del canto. Inoltre, come anticipato, al nucleo originale vennero ad aggiungersi altri elementi, come per esempio il planctus, genere altamente patetico di derivazione secolare, e il cui canto era fino ad allora contemplato in chiesa solo nel giorno di Venerdì Santo. Così, pur senza rinnegare completamente le proprie radici liturgiche, il dramma tese sempre più ad accogliere in sé preoccupazioni di natura più teatrale che non cultuale.
Un esempio di dramma pasquale ormai sviluppato proviene da un manoscritto di Ripoll del XII secolo. L’episodio si apre con le Marie che si recano da un mercante per comprare gli aromi. Lo scambio tra il venditore e le pie donne sfocia in un lungo planctus dove queste ultime danno sfogo al loro lutto, portandosi nel frattempo nei pressi del sepolcro. A quel punto avviene lo scambio Quem quaeritis, che sfocia nel Te Deum. Terminato il Te Deum, il manoscritto prosegue con un “Versus de Pelegrinis”: è possibile che si tratti di un dramma diverso e separato, ma potrebbe anche essere la continuazione del precedente. Questo si apre con la scena dell’hortolanus, che riprende l’incontro tra Maria Maddalena e il Risorto raccontata in Gv 20, 11-18: prima gli angeli, poi un anonimo giardiniere chiedono a Maria perché stia piangendo. Dopo la risposta, il giardiniere chiama tre volte Maria, che ora riconosce in lui Cristo risorto. Tornata dai discepoli, essa viene interrogata: “Dic nobis, Maria, quid vidisti in via?”. Non si tratta di parole di nuova composizione, ma di un passo della sequenza Victimae Paschali Laudes, che viene ora cantata in forma drammatica nel dialogo tra Maria e gli Apostoli. Dopodiché, la scena cambia nuovamente, portandosi sulla via per Emmaus e dando inizio agli eventi narrati in Lc 24, 13-35, di cui tuttavia viene riportato solo l’inizio.
Se nelle sue prime apparizioni Quem quaeritis poteva essere considerato un dialogo di modeste dimensioni armonizzato nel contesto più grande della Liturgia, ora quello che viene inscenato è un vero e proprio dramma di estensione ragguardevole. Tuttavia, vale la pena osservarne la composizione: esso infatti mette insieme antifone liturgiche, planctus, il dialogo Quem quaeritis, dialoghi di nuova invenzione come quello tra le Marie e il mercante, una sequenza, spesso uno o più inni. Si tratta insomma in massima parte di frammenti liturgici messi insieme, con l’aggiunta di qualche forma di carattere secolare e propriamente drammatica, in una sequenza tale da dare vita a una storia unitaria: insomma, si può certamente parlare di vero e proprio autentico dramma, ma allo stesso tempo, nelle sue intenzioni, di un pezzo autentico di Liturgia.
Sabato, 8 novembre 2025
