Gonzague de Reynold, Cristianità n. 256-257 (1996)
Che cos’è il federalismo
Il federalismo è una forma politica nella quale molti piccoli Stati, o città, accettano di sacrificare una parte della loro sovranità per istituire un potere centrale, dirigente e supremo, allo scopo di meglio difendere la loro esistenza, conservare la loro indipendenza e promuovere i loro interessi comuni.
Come si sa, il federalismo differisce in modo profondo e dal regionalismo e dal decentramento. Il regionalismo e il decentramento escludono ogni idea, ogni principio di sovranità. Sia l’uno che l’altro sono solamente concessioni amministrative emananti da un potere, non solo centrale, ma anche centralizzato. Tale potere preesistente li crea e conferisce a essi un’esistenza legale. Da questo potere dipendono. Invece, il federalismo implica Stati sovrani, preesistenti al potere centrale, che lo creano e al quale fanno liberamente sacrifici di sovranità, perché sia in grado di svolgere la sua funzione. Infatti, il potere deve la sua esistenza legale agli Stati confederati.
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Quindi, nel federalismo vi sono due elementi costitutivi: gli Stati, le città che si federano; il potere centrale che istituiscono. Ma questi due elementi non sono uguali, né per età, né per valore, né per diritto. Non si fronteggiano, ma il secondo è subordinato al primo. Il primo: gli Stati, le città, formano l’elemento costituente; il secondo, il potere centrale, forma l’elemento costituito.
Il secondo elemento è solamente un’emanazione del primo. Questo può modificarlo in ogni momento con un nuovo accordo fra i suoi membri. Il primo elemento, gli Stati, le città, avendo un’esistenza anteriore al secondo, il potere centrale, ha quindi diritti superiori ai diritti di questo.
Tuttavia, i due elementi sono indissolubili. Se non esiste più una Confederazione, e neppure uno Stato federale, il giorno in cui gli Stati che si sono federati sono stati sostituiti da un sistema unificato, centralizzato, non vi è ancora o non vi è più federalismo, ma semplicemente un’alleanza temporanea o perpetua, se il potere centrale non è stato costituito o se è stato costituito in modo insufficiente. Infatti, ogni federalismo suppone un federatore comune. Stati troppo deboli e un potere centrale troppo forte o, inversamente, Stati troppo forti e un potere centrale troppo debole, rappresentano un federalismo incompleto o squilibrato.
Perché gli Stati si sono federati? Per conservare la loro autonomia, la loro personalità, non per sacrificarle al potere centrale. La missione del potere centrale sta nel difendere, salvaguardare, promuovere l’autonomia, la personalità di ogni Stato, questa è la sua ragion d’essere. Se tradisce la sua missione, perde la sua ragion d’essere, esce dalla sua legalità.
Quando il potere centrale si sostituisce al governo interno di ogni Stato confederato, vi è usurpazione da parte sua. Poiché il potere centrale è solo l’emanazione degli Stati confederati, deve conoscere direttamente solo questi e si deve indirizzare ai loro popoli solo attraverso la loro mediazione. Invece, il potere centrale deve essere forte nel suo campo specifico: all’esterno, la difesa della Confederazione che rappresenta di fronte allo straniero; all’interno, la conservazione della Confederazione secondo il patto che si è data.
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Da tutto quanto precede emerge la differenza essenziale esistente fra i membri della Confederazione e il potere centrale. Il potere centrale è solo un potere legale; invece, gli Stati rappresentano il potere legittimo. Ora, la legalità, cioè la conformità a una legge scritta, è inferiore alla legittimità, cioè a quanto è fondato sul diritto, in virtù non di una legge scritta, ma di un principio anteriore a questa legge. La legittimità del potere centrale è a esso conferita dagli Stati di cui è, ancora una volta, solamente l’emanazione. Invece, l’esistenza anteriore, la formazione storica, la personalità di questi Stati conferisce a essi la legittimità. Il federalismo è per essi un principio intangibile di legittimità. Perché essi sono la fonte della sovranità.
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A prima vista, sembrerebbe che la natura del legame che federa gli Stati sia quella di un contratto. Quindi tale contratto potrebbe essere denunciato, sia su richiesta formale di uno o di più Stati, sia di comune accordo. In questo caso ogni membro della Confederazione ritroverebbe, uscendone, la libera disposizione di sé stesso con la sua piena e completa sovranità, cioè con tutti i diritti ai quali aveva rinunciato entrando.
In realtà, non si tratta di un semplice contratto, ma di un giuramento-foedus garantito dalla fede e dall’onore. Da ciò, il carattere sacro di una confederazione vecchia come la nostra. Infatti, quando secoli di storia l’hanno edificata, quando un sangue eroico l’ha cementata, quando il tempo, la durata l’hanno resa perpetua, la sua unità nella diversità ha il valore di un principio intangibile il cui carattere è religioso. La Confederazione ha cessato di essere un sistema di alleanze per diventare un corpo. Essa è ormai la forma politica di una nazione più grande. L’idea nazionale si è estesa all’insieme.
Ora, ogni nazione ha come diritto primo l’integrità del proprio territorio. Da ciò segue che gli Stati confederati hanno rinunciato al separatismo, e anche al loro diritto collettivo di dissolvere di comune accordo la Confederazione che avevano a suo tempo costituita.
Ma questa resta aperta a nuovi membri, nelle condizioni prescritte dal patto e dalla tradizione. È un principio vitale, dal momento che nessuno ha il diritto di arrestare arbitrariamente lo sviluppo storico di una nazione, né di sterilizzare l’idea generatrice della prima alleanza. Tanto meno se questa idea esclude la forza: ogni confederazione suppone una libera adesione.
Il principio del federalismo
Non basta assolutamente intendere con federalismo una forma politica, un sistema di governo: bisogna anche identificare i princìpi attraverso i quali si radica nella vita umana. Infatti i princìpi non sono astrazioni, ma radici; non sono al di sopra della vita, ma nella vita come le radici sono nella terra; non si integrano assolutamente nella vita dall’alto al basso, con la forza delle leggi e delle costituzioni, ma la vita riceve da essi la linfa senza la quale non potrebbe sbocciare nella sua integrità.
L’errore dei nostri federalisti sta nell’essere rimasti alla superficie del federalismo, di aver confuso federalismo con sovranità cantonale, di non aver mai saputo applicare il federalismo nei cantoni stessi. Infatti, dove sono iniziati la centralizzazione e lo statalismo? Nei cantoni, e anche nei comuni. Il contagio, i cattivi esempi sono venuti da là. Il democratismo dottrinario ha commesso i suoi primi eccessi nelle città. Per voi è una scusa, Signori di Berna.
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Come si definisce il federalismo? Ogni federazione è anzitutto un’associazione.
L’associazione, ecco dunque il principio primo del federalismo. Questo principio possiede un valore, una forza che supera la federazione politica fra piccoli Stati, fra città, per diventare una concezione della vita sociale e, di conseguenza, dell’uomo stesso.
Questa concezione si esprime in pratica in questi termini: ovunque l’intervento dello Stato non s’impone come assolutamente necessario, sostituire al regime dello statalismo quello dell’associazione. Ma l’associazione è il contrario del partito: l’associazione, come indica l’etimologia, è sociale; dal canto suo il partito è politico. Il partito divide, l’associazione unisce.
Il federalismo è dunque un elemento di unione, è un legame, il legame federale. Non frammenta, riunisce; non indebolisce, rafforza. A indebolire, a frammentare, a dividere sono la politica elettorale, la centralizzazione, lo statalismo. Ed ecco quanto gli stessi federalisti non hanno ancora capito a sufficienza.
Il federalismo è il principio contrario alla legge del numero, al governo delle masse, all’uguaglianza democratica e alla loro conseguenza, la dittatura anonima e irresponsabile della burocrazia. Il federalismo è il fascio delle libertà.
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Ma bisogna anche saper legare il fascio. Perciò sarebbe necessaria un’autentica rivoluzione, la rivoluzione nazionale. Imparare a pensare diversamente la politica, la società, la vita economica, infine l’uomo: umdenken, umlernen, direbbero i nostri Confederati (*). Vedere diversamente la Svizzera. Agire di conseguenza. Uscire dalla legalità per rientrare nella legittimità. Uscire dalla costituzione per rientrare nella vita. Uscire dal diritto per rientrare nella filosofia…
Dunque, il federalismo presuppone che gli Stati federati posseggano, come elementi costituenti, diritti superiori, perché anteriori, a quelli del potere centrale, elemento costituito. Il federalismo presuppone che la ragione del legame federale e del potere centrale sia la salvaguardia, la difesa, la conservazione, la promozione di questi diritti anteriori, di cui il primo è l’autonomia di ogni Stato federato. Il federalismo pone in questi Stati la fonte della sovranità; essi sono il potere legittimo, il potere centrale ha per sé solo la legalità.
Ma se il federalismo è più e meglio di una semplice forma politica, di un semplice sistema di governo, se è un principio sociale, una concezione dell’uomo e della vita, quale ne è la conseguenza?
È che questo principio sociale, questa concezione dell’uomo e della vita devono applicarsi tanto all’interno di ogni Stato che all’interno della Confederazione che hanno formato.
Gli Stati non hanno il diritto di reclamare per sé i vantaggi e i privilegi del federalismo se ne rifiutano i carichi e i doveri. Non hanno il diritto di conservarne i benefici solamente per sé. Non hanno il diritto di reagire contro lo statalismo e la centralizzazione che li minacciano, se le praticano in casa propria. Come il potere centrale è tenuto a rispettare e a promuovere i diritti anteriori, l’autonomia degli Stati federati, allo stesso modo questi Stati federati sono tenuti a rispettare e a promuovere i diritti anteriori, l’autonomia degli elementi sociali con cui si sono formati essi stessi. Infatti, questi elementi sono per essi elementi costituenti, così come essi stessi li sono per la Confederazione. Dunque, e di principio, i diritti e l’autonomia di questi elementi sociali sono legittimi; devono essere consacrati e rispettati come tali.
Quali sono questi elementi?
Gli elementi che, in modo storico e naturale, hanno formato ciascuno degli Stati federati sono: la famiglia, i comuni, le associazioni professionali, le organizzazioni religiose. Tutti hanno diritto al federalismo, cioè a vivere in un modo non isolato, ma autonomo, perché sono le cellule della società. Tutti hanno diritto a essere riconosciuti come gli organi storici e naturali dello Stato. Integrazione del paese vivente nel paese legale. Adeguamento della società e dello Stato.
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Dunque, il federalismo è un principio sociale.
È un principio sociale prima di essere un principio politico. Proteggere, armonizzare, sviluppare la vita sociale: questa è la sua ragion d’essere, questo è il suo fine.
Come la Confederazione è, nei limiti del patto, del foedus, una libera associazione di Stati autonomi, così ciascuno di questi Stati è, nei limiti della sua costituzione e delle sue leggi, una libera federazione di autarchie. Infine, come ciascuna di queste autarchie ha come ragion d’essere la protezione e lo sviluppo della persona umana.
Ed è tutta qui, Signori, la “libertà svizzera”, che non smettete di proclamare nei vostri discorsi, ma che sareste decisamente imbarazzati a definire.
Il resto — quanto fate o lasciate fare — è solo servilismo travestito da libertà.
La concezione cristiana dell’uomo
Ogni politica si riporta a una filosofia, di cui è semplicemente l’applicazione pratica. I nostri Signori di Berna si rendono conto di questa verità? Se, per caso, se ne rendessero conto, ci dovrebbero proprio dire in nome di quale filosofia fanno generalmente il contrario di quanto dicono e dicono il contrario di quanto fanno. A dire il vero, li immagino seduti su due filosofie come capita di sedersi su due sedie, quando si ha il sedere troppo grosso: l’una vuol essere cristiana, l’altra è del secolo XVIII e della Rivoluzione. Sono dunque antinomiche, ma si sono confuse insieme nell’inconscio del Parlamento e delle strutture burocratiche.
Non lo si ripete a sufficienza: le idee contengono i fatti in potenza, le idee finiscono sempre per ripercuotersi nei fatti. A lungo, talora per secoli, restano sospese nella stratosfera, poi cominciano a scendere. Improvvisamente, cadono nella massa. Allora, si produce l’esplosione. Allo scopo basta che un’idea, anche la più arida, la più astratta — Capitale di Marx, Contratto sociale di Rousseau —, incontri la sensibilità oscura ma potente di una massa. Infatti, i popoli moderni non sono mai colpiti, presi e sollevati dalla necessità economica, ma dalla passione ideologica. Ecco perché bisogna anzitutto prendere in considerazione le idee per farsene, poi per farsene di giuste. Quando non se ne hanno, si subisce necessariamente la spinta delle idee false.
“Mi pare una grande trascuratezza non studiare assolutamente quanto crediamo di capire”: ogni giorno, il minimo fatto della nostra vita pubblica, il minimo discorso di quanti chiamiamo ancora, per buon cuore, uomini di Stato, il minimo articolo della nostra stampa libera, mi permette di verificare l’esattezza e la profondità di questa affermazione. È di sant’Anselmo, e io chiedo scusa per lui a questi Signori. In questo paese si parla della democrazia e non si sa più che cos’è, vi si parla del federalismo e non si sa più che cos’è; si mescolano i due con una imprudenza da apprendista stregone, perché, credendo di capire le parole, ci si dispensa dallo studiare le cose. Qui per altro sta il pericolo: agire secondo una filosofia che si è smesso di conoscere, in virtù di abitudini acquisite, di preconcetti, di convenzioni verbali.
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Dunque esiste una filosofia del federalismo. Il federalismo ha senso, valore, solidità solo se rimane attaccato a questa filosofia come un lampadario all’anello. Ma quale anello? La concezione cristiana dell’uomo e, quindi, della vita umana.
Abbiamo un bel pretendere il contrario: questa concezione non è la nostra. Abbiamo subito tutti l’influenza delle “idee moderne”. Quanto determina e definisce un’epoca, quanto dà a essa la sua fisionomia specifica, quanto ne rappresenta la corrente centrale, la linea di forza, è la concezione dell’uomo cui si ispira. Ebbene, la concezione dell’uomo che ha ispirato l’epoca moderna non è assolutamente stata la concezione cristiana, è stato l’individualismo.
Accordare all’individuo, all’”uomo solo”, staccato dal suo ambiente, un’autonomia assoluta; attribuirgli un valore intrinseco, superiore a tutti i valori dell’ordine sociale o morale; fare in questo modo dell’individuo l’elemento basilare della società, della nazione, dello Stato sopprimendo quelli intermedi: ecco l’individualismo. Spinto più oltre — fino a elevare la coscienza individuale a fonte di ogni verità, a norma di ogni morale, fino a trasformarla in un mondo autonomo, fino a renderla creatrice dell’universo e di Dio, fino a dubitare anche della realtà che la circonda — l’individualismo deborda in soggettivismo. Quindi l’uomo è la misura di tutto; tutto si riporta all’uomo e tutto emana da lui, dall’autorità politica ai concetti metafisici: individualismo equivale così a umanesimo. Ma questo sposta il centro dell’universo per fissarlo nell’uomo. Come notava già Philippe Monnier (**), è la negazione del fenomeno cristiano.
Infatti, sostituisce l’uomo a Dio; assegna come fine all’uomo la felicità terrena attraverso l’affrancamento dello spirito e il dominio della materia. Individualismo, dopo essere stato equivalente a umanesimo, equivale infine ad antropocentrismo.
Tutti questi termini in ismo, di cui sono per altro costretto a servirmi, sono repellenti e mostruosi come draghi con un corno all’estremità della coda. Ma tutti questi termini in ismo esprimono idee che si sono ripercosse negli avvenimenti politici e sociali. La forza dei fatti, corrispondente alla logica delle idee, ha spinto l’individuo e la società fino alle estreme conseguenze della rivoluzione moderna, perché l’epoca moderna è stata solo un’unica e medesima rivoluzione. Sono tutti i contrasti, tutte le antinomie, tutte le impossibilità in mezzo alle quali ci dibattiamo oggi. Paghiamo in questo modo l’errore iniziale sulla vera natura dell’uomo. Lo paghiamo quotidianamente, anche nella nostra vita materiale; lo paghiamo in Svizzera con la confusione degli spiriti e con la crisi politica in cui siamo entrati. Ed è inevitabile: se cominciate con un errore sull’uomo, sbaglierete poi su tutti gli aspetti della vita umana. Non solo l’aspetto intellettuale, ma anche l’aspetto politico, l’aspetto sociale, infine l’aspetto economico.
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Il federalismo è una delle vittime lasciate dietro a sé da questo errore al suo passaggio. Infatti, il federalismo si collega strettamente alla concezione cristiana dell’uomo. Vale la pena di riflettere su ciò.
L’uomo è un essere misto, posto proprio alla frontiera del mondo spirituale e del mondo materiale. Questa frontiera gli serve, per così dire, da cintura. L’uomo è un corpo mortale e un’anima immortale, un corpo animato e un’anima incarnata. Ecco perché la concezione cristiana distingue, nell’unità organica dell’uomo, l’individuo e la persona.
Individuo e persona sono termini non sinonimi. Ci si deve guardare dall’usarli l’uno al posto dell’altro.
Nell’uomo, l’individuo è l’essere di carne, l’essere perituro; la persona, è l’essere spirituale, l’essere immortale.
In quanto individuo, l’uomo è una semplice unità nella specie, la specie umana. In quanto persona, l’uomo è qualcuno. Ma essere qualcuno è essere diverso dagli altri, è essere sé stesso. Léon Daudet nota proprio questo, cioè che l’individuo è l’io, e che la persona è il sé.
Nell’uomo, l’individuo è soggetto al divenire, ma la persona partecipa dell’essere.
L’individuo, nell’uomo, è ordinato alla specie umana, alla società e, quindi, allo Stato. Infatti rientra nel collettivo come una cifra infinitesimale si perde in un totale enorme e incessantemente accresciuto.
Ma la persona, nell’uomo, è ordinata a Dio, il luogo delle anime, per prendere in prestito questa immagine espressiva da Villers de l’Isle Adam.
In quanto persona l’uomo, sfuggendo alle forze collettive e alle forze naturali, si libera, si spiritualizza nel pieno possesso di sé stesso. Infatti, più si accosta a Dio, più somiglia a Dio, che è l’essere in sé, sussistente per sé, fonte di tutti gli esseri e di ogni personalità.
Il fine dell’individuo è la società. Il fine della persona è Dio.
Se mi prendo in considerazione come individuo, che cos’è la mia povera vita paragonata alla vita secolare, millenaria, indefinita dello Stato, della società, della specie? Ma, se mi prendo in considerazione come persona, che cos’è la vita dello Stato, della società, della specie, in confronto alla mia anima immortale?
L’umanità — voglio dire la specie umana —, la società, lo Stato hanno sull’individuo diritti che possono andare fino al sacrificio dei beni e della vita, perché l’individuo è ordinato a essi. Ma la vita ha poco prezzo per chi si sente un’anima immortale. Invece, l’umanità, la società, lo Stato hanno verso la persona solo doveri, perché la persona è ordinata a Dio. “Dio primo servito”, diceva Giovanna d’Arco. “Siamo tuoi soldati e abbiamo preso le armi per difendere la cosa pubblica, ma niente ci farà mai abbandonare Cristo”, risponde, secondo sant’Eucherio, il nostro patrono san Maurizio, martire, al rappresentante dell’imperatore Diocleziano.
Questa risposta mi sembra definire l’atteggiamento dello svizzero cristiano di fronte ai poteri forti che ci minacciano oggi.
Questa è la concezione cristiana dell’uomo. Ha un’importanza vitale, perché sola permette di risolvere l’antitesi fra l’uomo e la collettività, fra l’uomo e lo Stato, da cui il mondo moderno si è rivelato incapace di uscire. Essa lo risolve introducendo fra i due termini una terza idea, che ne fa la sintesi: la nozione del bene comune.
Bene comune e civiltà
Dunque, la concezione moderna dell’uomo, la concezione individualista, porta inevitabilmente, dal momento in cui si è ripercossa nei fatti, alla legge del numero, al sistema maggioritario, alla centralizzazione, allo statalismo e, ancora più oltre, al suicidio e alla scomparsa dell’individuo nel collettivo. Quando, con l’individualismo, si è atomizzata la società, viene un momento in cui gli atomi si coagulano: il regime delle masse.
Il mondo moderno ha dato all’uomo contemporaneo il possesso di tante libertà individuali, delle quali egli non può far uso. Quindi è costretto a rinunciarvi a vantaggio della collettività, cioè, sempre in pratica, dello Stato. “L’io è lo Stato”. Come il “pensiero moderno”, non osando più promettere all’uomo la felicità su questa terra, l’ha promessa all’umanità; così l’individualismo si è spostato dall’individuo alle grandi masse. Quindi lo statalismo o il socialismo sono soltanto due escrescenze mostruose dell’individualismo di partenza.
Tale è il dramma dell’uomo contemporaneo. Gli si è detto: “Sei libero, sei il tuo cosmo. Ma sei solo. E adesso va!”. E l’uomo si è trovato solo di fronte a realtà molto più potenti perché, davanti a esse, sia capace di stare in piedi e con gli occhi aperti: lo Stato, la nazione, la razza, la classe, l’umanità, la scienza, la natura, e la pace e la guerra. E anche Dio, perché vi è un individualismo religioso, forse più pericoloso di tutti gli altri: immaginate un figlio d’Israele abbandonato da Mosè sul Sinai abbagliante. Ecco perché l’uomo contemporanero si sente, in mezzo ai suoi simili, condannato all’isolamento. Ecco perché ha paura dell’uomo. Ecco perché fugge in avanti. Ecco perché non padroneggia più le forze che ha scoperto o scatenato. Ecco perché è preso dal panico davanti a un gorgo di cui subisce l’attrazione. Ecco perché diventa gregario, in attesa di tornare alla schiavitù per eccesso di libertà, perché tutti gli eccessi producono il contrario. Questo si produrrà attraverso l’organizzazione, la “standardizzazione”, e perciò, temo, verrà un momento in cui, affinché i popoli vivano, bisognerà inchiodare l’uomo alla sua specializzazione, al suo lavoro. Niente, più e meglio del socialismo, avrà contribuito a questa evoluzione.
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Fra noi questo conflitto fra l’individuo e la massa assume la forma di una lotta fra il cittadino e lo Stato. Ma il cittadino, malgrado le sue schede elettorali, non è in condizione di difendersi dallo Stato e dalle grandi forze collettive tutte convergenti verso lo statalismo. Perché tale impotenza? Perché fra questo granello di polvere e questo aspiratore il mondo moderno ha distrutto tutti gli elementi intermedi, tutti gli ammortizzatori, tutti i protettori. E li ha distrutti nell’ordine dei fatti perché, nell’ordine delle idee, ha sempre visto presenti soltanto due termini, per dimenticanza o per odio del terzo. In questo modo ha semplicemente suscitato antinomie, che è incapace di risolvere. Per questa ragione la nostra democrazia, partita dall’individualismo per cadere nello statalismo, attraversa una crisi di dubbio e di coscienza; prova rimorsi che cerca di nascondersi facendo discorsi irritanti, perde la fede che l’animava. Se si vuole ancora salvare bisogna che ritorni al terzo termine: il federalismo. Se è troppo tardi e se si rivela incapace di ritornarvi, precipiterà fino alla finis Helvetiae.
Potremo sfuggire a questo destino, a questa fatalità? Nella storia nulla è fatale — almeno finché non ci si lascia assolutamente trascinare dal peso della massa, finché non ci si rassegna assolutamente a praticare la politica della carogna di cane portata dalla corrente. Ma bisogna aver genio, carattere e coraggio: saltare a cavallo degli avvenimenti e prendere in mano le redini. Più si aspetta, Signori di Berna, più è difficile, ma più è urgente. A questo punto vi dirò perché temo la vostra politica — o piuttosto la vostra mancanza di politica — perché temo il vostro orientamento, perché temo le vostre centralizzazioni, unificazioni, burocratizzazioni, socializzazioni, esitazioni, abdicazioni e rassegnazioni: perché la Svizzera è troppo debole per sopportare un regime di massa, fondato sul primato dell’economico. Tutte le libertà strappate alla persona, alla famiglia, alla città, sono altrettante basi tolte all’indipendenza nazionale. Tutto quanto il vostro regime annette del federalismo, prepara l’annessione della Svizzera a una massa più potente di essa.
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In questo modo, Signori, svelate di non aver più un’idea chiara del bene comune.
Il bene comune è una nozione più elevata di quella dell’interesse generale, dell’interesse nazionale. Il bene comune supera, e di molto, il bene dell’individuo e il bene dello Stato. Chi possiede la nozione di bene comune non dirà mai: l’interesse generale è la somma di tutti gli interessi particolari, ma non dirà mai neppure: tutto per lo Stato e dallo Stato.
La nozione del bene comune ha la sua fonte nella concezione cristiana dell’uomo, ed ecco come si può definire: l’insieme delle condizioni naturali e umane che permettono all’uomo di vivere secondo le necessità dell’individuo ma anche secondo le esigenze della persona, per realizzare il proprio destino, che consiste nell’attraversare la vita terrena per assimilarsi a Dio. Così, il bene comune deve avere incessantemente davanti agli occhi questo fine ultimo delle nostre associazioni umane, questa perfezione finale e totale del nostro essere umano: diremmo, con Bergson, il punto d’arrivo dello slancio vitale.
Tutte le cose terrene sono al di sotto dell’anima umana. Ma è certo che l’anima umana, finché resta incarnata, ha bisogno di queste cose, e che lo slancio vitale ha il proprio punto di partenza in esse. Quindi esse devono essere ordinate all’anima umana, alla persona. E quest’ordine si chiama civiltà.
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La civiltà è la forma terrena, nello stesso tempo la più elevata e la più completa, del bene comune. Ma la civiltà è solo un equilibrio fra tutte le facoltà essenziali dell’uomo. Queste facoltà sono cinque. Tre sono dell’uomo stesso: l’intelligenza, la cui prima necessità è conoscere, e il cui raggio si proietta dalla tecnica attraverso tutta la scienza fino alla filosofia, alla concezione dell’essere, all’idea di Dio; — il sentimento, perché l’uomo si rivela capace di amare attraverso il sentimento, non con l’intelligenza, e l’espressione più pura del sentimento è la necessità della bellezza, è l’arte; — infine, il bisogno d’agire, perché l’uomo è un essere volitivo, e la forma superiore di tale bisogno d’agire è lo sforzo morale, creatore di opere, di istituzioni e di leggi.
Tuttavia, l’uomo schematizzato in questi termini non è ancora completo. Gli mancano nello stesso tempo il vertice e la base. La base è la sua vita fisica, quanto vi è in lui di animale e di materiale. La facoltà corrispondente a questa parte del nostro essere, cioè all’individuo nell’uomo, è l’attività economica. Quindi essa è la prima per necessità, ma l’ultima per dignità.
Infine l’uomo è, nel mondo creato, un intermediario fra la materia e lo spirito. Quindi non prova solamente bisogni materiali, è elevato al di sopra di sé stesso da aspirazioni spirituali. Aspirazioni non più dell’individuo, ma della persona. La conoscenza, il sentimento, la volontà, il lavoro materiale e quotidiano: tutte queste forme dell’attività umana si trascendono e spingono la nostra anima a unirsi a Dio, che solo dà un senso alla nostra vita, solo spiega il nostro destino. Questa tendenza, questa facoltà somma, questa attività superiore è la religione.
Il possesso di queste cinque facoltà essenziali, ecco quanto distingue l’uomo civile dall’uomo naturale. Lo sviluppo, l’equilibrio e l’armonia di queste cinque facoltà costituiscono la civiltà.
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Non si tratta di elementi giustapposti. In realtà, tali elementi sono concentrati nell’unità di fondo della natura umana. Essi influiscono gli uni sugli altri in una dipendenza intima, organica. Tuttavia, se ogni uomo possiede in sé, almeno allo stato di germi, le cinque facoltà essenziali della natura umana, ve n’è sempre una che lo determina più delle altre: la vocazione. Dunque, per un uomo, per quanto completo e geniale sia, è impossibile sviluppare contemporaneamente, in modo armonioso e progressivo, le cinque facoltà essenziali in cui si riassume l’attività umana. Ma quanto un solo uomo non può fare, lo può fare la società.
Fra le condizioni che la società deve realizzare per essere in condizioni di produrre la civiltà ve n’è una su cui insistere: il fatto che la società sia sufficientemente differenziata da possedere gli organi necessari a una vita completa e superiore. Tale condizione non potrebbe essere realizzata da una società uniformizzata, senza élite, senza autorità sociali, e quindi ne verrebbero atrofizzati, se non distrutti, gli organi essenziali: la famiglia, i “corpi”, le città. Quindi è evidente che uno Stato organizzato secondo il sistema e i princìpi del federalismo — se questo federalismo sa rimanere fedele alla sua essenza e coerente con i suoi princìpi — formerà un ambiente molto più favorevole allo sviluppo della civiltà di uno Stato centralizzato, burocratizzato, intestardito nel suo pregiudizio ugualitario, livellatore di ogni superiorità intellettuale o sociale, e in cui le preoccupazioni economiche hanno la meglio su tutte le altre. Una civiltà non potrebbe resistere a lungo a un regime di mediocrità, perché la mediocrità finisce sempre nel materialismo.
Sarebbe forse opportuno osservare il federalismo da questo punto di vista generale, e convincerci che la sua scomparsa, che lo stato d’indebolimento in cui questi Signori di Berna lo stanno riducendo, toglierebbe alla Svizzera la sua fisionomia specifica, la sua civiltà peculiare, la sua ragion d’essere. Si tratterebbe del colpo più grave, più criminale, che potrebbe essere inferto, in questo momento, dal regime al bene comune: quello della Svizzera, ma anche quello dell’Europa e del mondo — se il regime crede ancora che in Europa e nel mondo anche la Svizzera abbia una missione.
Il bene comune e lo Stato
Vi siete mai chiesti, Signori, perché siete al governo e a che cosa deve servire lo Stato? Vi siete mai chiesti per quale ragione prima siete stati chiamati — non dagli uomini, che hanno solamente votato per voi, ma dalla Provvidenza, che vi ha dato la grazia dell’autorità — a gestire la cosa pubblica? Se non vi siete mai posta questa domanda, è perché non avete capito niente del tempo presente. Non siete del vostro tempo, Signori, se non vi siete assolutamente resi conto che un problema domina tutti gli altri: quello del destino umano.
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Il problema del destino umano ci è posto ogni giorno, da un quarto di secolo, dagli avvenimenti stessi. Guerra mondiale, rivoluzione russa, comparsa del fascismo, poi del nazional-socialismo, crisi economica, guerra civile di Spagna: tutti questi fatti, la cui serie è lungi dall’essere chiusa, hanno il valore, la portata di una dimostrazione filosofica. Sono di una tale grandezza da imporci una prima convinzione: attraversiamo un periodo decisivo della storia, assistiamo a un cambiamento d’epoca. In genere, l’importanza dei grandi avvenimenti storici sfugge ai contemporanei: lo si è visto adeguatamente al momento della Rivoluzione francese. Ma tutti, oggi, abbiamo almeno la sensazione di una rivoluzione fondamentale, benché vi siano ancora pochi capaci di interpretare gli avvenimenti e coglierne le linee di forza. Per la prima volta sappiamo che cosa sono i “tempi storici”; per la prima volta siamo capaci di provare che la storia non è sinonimo del passato, perché siamo nella storia e la storia ci fa oggi ben più di quanto non l’abbiamo fatta noi ieri.
Ma ecco la tragedia: abbiamo perso le nostre ultime illusioni sull’umanità e sull’uomo, sulla libertà e sul progresso. Vediamo ritornare quanto avevamo creduto abolito definitivamente, impossibile: la guerra, il regno della forza, la violazione del diritto, la barbarie insomma. Vediamo che la scienza, la tecnica, la macchina servono più a distruggere che a edificare. Vediamo risvegliarsi il bruto nel civilizzato. E tutte queste disillusioni, tutte queste constatazioni ci obbligano a riflettere sulle idee, le credenze che ci erano care, su questa adorazione dell’uomo da parte dell’uomo che abbiamo sostituito all’adorazione di Dio da parte dell’uomo. Non siamo più sicuri di noi stessi e della nostra modernità. Infine, non vi è nessuno di noi — il più piccolo uomo qualunque nel paese più tranquillo e più neutrale — che non si senta colpito dagli avvenimenti più lontani, quelli della Cina o dell’America. Colpito nella sua vita materiale, nella sua vita quotidiana, nelle economie che ha depositato alla cassa di risparmio, nel libro dei conti di casa, che deve controllare ogni sera; colpito nella sicurezza della persona e nell’avvenire dei figli. Su tutta la terra, gli uomini si sentono così legati gli uni agli altri dall’implacabile solidarietà del destino. Ed ecco che molti si chiedono: sarà la fine? la fine della civiltà? la fine dell’umanità? la fine del mondo? Da ciò un’angoscia che non era più stata provata dal Medioevo: né la civiltà, né l’umanità, né il mondo sono eterni.
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Il destino umano: ne siete responsabili, Signori, per la Svizzera. Vi mostrerete degni di tale responsabilità che si alza davanti a voi come un giudizio della storia soltanto se vi ponete al servizio, non degli interessi, non dei partiti, non della generazione presente, ma del bene comune.
Il bene comune è religioso quanto al suo fine ultimo. Secondo l’ordine cristiano, questo fine ultimo, questo destino è, ancora una volta, l’assimilazione della persona umana a Dio. Ora, nessuna forma di civiltà, di società, di Stato, nessun ente collettivo e sociale è un fine in sé. Tutto questo è solo mezzi. Tutti questi mezzi hanno solo un fine specifico: realizzare le condizioni che permetteranno alla persona di pervenire al suo fine ultimo che è Dio. Se lo capisce e vi si ordina, lo Stato si metterà in condizione di compiere perfettamente la sua missione terrena e di conseguire completamente il suo fine peculiare. Il 6 dicembre dello scorso anno [1937], uno dei maggiori uomini di Stato contemporanei, uno dei “maestri di oggi” (***), mi dichiarava: “Tutta la mia esperienza, da quando sono al governo, mi ha mostrato che il potere temporale non è in grado di compiere la sua missione senza il sostegno del potere spirituale. Questo è, per altro, l’insegnamento della storia”. Ecco che cosa mi diceva questo grande realista. E io penso che la nostra Costituzione federale si apre nel nome di Dio. Quindi Dio è, per la Svizzera, il punto che indica la direzione, il fine ultimo. Ma l’abbiamo capito bene? E siamo restati fedeli?
Il bene comune è conforme alla natura dell’uomo. L’individuo è al servizio del bene comune, ma il bene comune è al servizio della persona. L’individuo è al servizio del bene comune nel senso che è ordinato ai fini particolari, al bene particolare delle grandi forme sociali e collettive di cui fa naturalmente e storicamente parte. Invece, il bene comune è ordinato alla persona, perché deve mettere a disposizione di questa i mezzi che la orienteranno nel modo migliore verso il suo fine spirituale e ultimo. Così, il bene comune è un tesoro in cui l’uomo deve alternativamente mettere e attingere.
Infine, il bene comune è una nozione sociale. Varia e cresce secondo i diversi ambienti sociali, i diversi cerchi di cui l’uomo è il centro. Così vi è un bene comune della famiglia, della professione, della città, della patria, dello Stato, dell’umanità. Ma ciò che collega, ciò che armonizza tutti i beni comuni è che, nonostante il loro fine particolare, sono tutti ordinati allo stesso fine ultimo e spirituale; sono tutti sulla stessa linea di forza diretta verso Dio. Così ogni gruppo sociale dà a ciascuno dei suoi membri una direttiva morale e ne riceve esso stesso una dal gruppo superiore nel quale si inquadra. Ma tutti insieme ricevono la stessa direttiva religiosa.
Ed ecco quanto non si deve mai dimenticare: se esiste un bene comune della famiglia, della città, della patria, e se la famiglia, la città, la patria hanno ciascuna il loro fine particolare, è perché ciascuna di esse vive di vita propria, indipendentemente dagli individui che la compongono. Non sono assolutamente sostanze, come se, per esempio, ogni famiglia continuasse a sussistere dopo l’estinzione dell’ultimo membro, una città dopo la morte dell’ultimo cittadino e la caduta dell’ultima pietra, una patria dopo la scomparsa dalla storia. Ma sono più di una semplice rete di relazioni. Siccome la famiglia, la città, la patria sono le tre forme essenziali della vita sociale, vivono per analogia una medesima vita come l’uomo stesso: come lui sono, nella loro unità organica, individui e persone. Per agire secondo le esigenze del loro bene comune, per dirigerle nella loro missione, s’impone di capirle nella loro unità, nella loro continuità, nella loro totalità.
Tale è la missione, la ragion d’essere dello Stato. Così si confuta il sofisma secondo cui lo Stato è il minor male. No, lo Stato è una necessità sociale, un’esigenza del bene comune. La missione dello Stato sta nel conservare e nell’incrementare il bene comune. Ma in che modo? Assicurando l’equilibrio e l’armonia fra i cinque grandi fattori di civiltà, ma assicurando anche lo sviluppo e l’armonia di tutti i gruppi che costituiscono la società. Lo Stato non si deve assolutamente sostituire alla società, né si deve identificare con la nazione. E non deve neppure far tutto, ma deve capire e dirigere il tutto.
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Questa è la missione elevata, difficile, imperiosa dello Stato.
Lo Stato — il vostro regime, Signori di Berna, ma anche il vostro, Signori dei cantoni e dei comuni — oggi la compie? è ancora capace di compierla?
Quando lascia che un elemento di civiltà s’ipertrofizzi a spese degli altri, la vita economica a spese della vita spirituale;
Quando assegna come ideale al popolo solamente un “livello di prosperità”;
Quando, a forza di amministrare, si trova impotente a governare;
Quando sostituisce i funzionari alle autorità;
Quando non sopporta nessuna superiorità e fa, per sé e per gli altri, della mediocrità una legge;
Quando accaparra per sé tutte le competenze, come se fosse specialista in tutto;
Quando, per voler essere ovunque, finisce per non essere da nessuna parte;
Quando, a vantaggio di una costituzione legale, sopprime la costituzione storica e naturale del paese;
Quando perde il senso delle libertà personali, toglie alla persona umana i suoi diritti essenziali, riduce i cittadini a essere solamente dei soggetti;
Quando si abbandona alla corrente, invece di dirigerla;
Quando diventa il despota più temibile mai conosciuto dalla storia;
Quando obbliga la società, la nazione, la persona a difendersi contro di esso, come ci si difende da un nemico enorme e in malafede;
Lo Stato compie la sua missione?
Può ancora dirsi cristiano?
Ha ancora il diritto di chiamarsi Stato?
I diritti essenziali dell’uomo
L’uomo ha diritti essenziali. I diritti senza i quali potrebbe vivere come una formica superiore, mai come una persona. Bisogna ricordarli ai Signori di Berna, che si proclamano democratici, ma che hanno perso il senso delle libertà personali. Bisogna ricordarglieli, perché, ingenuamente, con scarpe chiodate e con uno sguardo innocente, stanno per schiacciarle. È vero che molti federalisti, o sedicenti tali, hanno dato loro, per primi, il cattivo esempio nel loro comune o nel loro cantone. Un’altra scusa, sempre la stessa. Ma, avrebbe detto Montaigne, proseguiamo.
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Dunque, il pensiero cristiano non può concepire un uomo astratto con un valore di “fine in sé” e che costituisca di per sé solo un piccolo mondo autonomo. Un tale uomo è inconciliabile con ogni forma di società; è antisociale, antinazionale per definizione. D’altra parte, è solamente un concetto puro. L’uomo reale, l’uomo vivente è inseparabile dalla società, a cominciare da quella di cui è il prodotto naturale: suo padre e sua madre. Ma la società deve restare a misura dell’uomo, organizzarsi secondo la natura umana, cioè secondo i bisogni dell’individuo e le esigenze della persona.
Non si deve dimenticare che l’ordine sociale e politico è anzitutto una difesa dell’uomo contro la natura, ma anche contro sé stesso, che poi è un mezzo con cui l’uomo si perpetua nel tempo e si prolunga nello spazio. Non bisogna dimenticare che la società ha un’origine religiosa, che il suo primo legame è stato quello di una credenza comune in una forza eterna, unitiva e sacra.
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I due primi bisogni provati dall’uomo e che egli ha chiesto alla società di soddisfare sono l’uno dell’ordine naturale, dell’individuo, ma l’altro dell’ordine spirituale, della persona.
Si possono dire simultanei. Il bisogno di perpetuarsi e il bisogno di sopravvivere, la società familiare e la società religiosa. Con quella l’uomo assicura la sua razza, il suo divenire; con questa assicura la sua anima, il suo essere. Il corpo alla terra e l’anima a Dio: è la spartizione originaria ma anche il fondamento primordiale della distinzione fra l’individuo e la persona che Aristotele aveva già intuito. La società umana ha all’origine un altare e una tomba, e l’altare è sulla tomba. I due primi diritti dell’uomo, nello stesso tempo naturali e storici, sono dunque il diritto di organizzarsi in società familiare e il diritto di organizzarsi in società religiosa.
Ma questi due primi diritti ne implicano immediatamente un altro: il diritto di utilizzare i beni materiali per vivere umanamente, cioè da uomo libero, capace di difendere sé stesso e di svilupparsi secondo il suo essere — il diritto di possedere. Proprietà: questa parola non evoca carte, titoli, depositi bancari, ma la terra, la casa costruita al centro del campo. Abbastanza legna per il fuoco, che non si deve mai spegnere, abbastanza terra per il nutrimento, che non deve mai mancare; una terra abbastanza estesa, una dimora abbastanza stabile perché la famiglia si radichi e perché la patria cominci, perché la patria comincia dove il progenitore ha la tomba. Nel diritto di proprietà dobbiamo vedere la conseguenza del diritto alla famiglia, cioè alla discendenza e al focolare.
Ma, se l’uomo non è assolutamente solo, neppure la famiglia è assolutamente sola. E anzitutto essa mette rami. Altre famiglie nascono da essa. Essa fa già parte di un gruppo più vasto, il clan, la tribù, la città. All’organizzazione sociale e all’organizzazione religiosa si unisce subito l’organizzazione politica, la cui prima forma è militare: la difesa comune. Così, per gradi, attraverso sviluppi concentrici, si vede nascere la società nazionale. La sua origine è in un bisogno originario e in un diritto primordiale di associazione, di difesa, fra uomini della stessa origine, con le stesse credenze, con gli stessi costumi, con gli stessi bisogni, dello stesso posto.
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Così, la civiltà comincia. Più si sviluppa e meglio la società si organizza, più e meglio l’uomo prende coscienza della propria personalità. Significa prender coscienza di un ultimo diritto: quello di non essere affogato nella massa, asservito alla collettività, ma di essere riconosciuto e trattato per quanto ha di personale, di disuguale e di diverso in mezzo agli altri. Il diritto alla personalità.
Questi diritti, che non sono assolutamente astratti, che non hanno niente a che vedere con i Diritti dell’uomo, ma che sono i veri diritti dell’uomo, la sociologia cristiana li chiama presociali. Infatti, sono anteriori alla società nel senso che i bisogni ai quali corrispondono sono generatori della società. E la società ha la missione, il fine, di rispettare tali diritti. L’ordine sociale e politico può definirli, limitarli, armonizzarli: non può mai distruggerli a rischio, infine, di distruggersi. L’ordine sociale e politico, anche quando è giunto al suo pieno sviluppo, deve rivelare sempre che questi diritti sono alla sua base. E devono sempre essere visibili, fra questa base e questa copertura, i piani intermedi, costruiti dalla natura e dalla storia: la famiglia, la località, la frazione, il comune, la città, le associazioni professionali e religiose.
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Il federalismo ha la sua vecchia e forte radice nel diritto presociale d’associazione secondo l’origine comune, la parentela, il vicinato, la terra e la città. Corrisponde a uno stato intermedio fra la famiglia e la nazione. Ricorda che la nazione è un’unione di città che si sono federate, come le famiglie si erano pure loro federate nelle città. Quindi il federalismo è una forma essenziale dello Stato cristiano. Essenziale perché corrisponde alla natura dell’uomo, allo sviluppo storico della società nazionale, e perché questa modalità prima della vita politica garantisce i diritti presociali contro il peso della massa, il dispotismo dello Stato. Se la famiglia è la cellula sociale, la città è la cellula politica.
Gonzague de Reynold
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Conscience de la Suisse. Billets a ces Messieurs de Berne, 5a ed., edizione definitiva, Éditions de La Baconnière, Neuchâtel 1941 (1a ed. 1938), pp. 85-126. Titolo generale e traduzione redazionali. I titoli intermedi sono quelli dei capitoli nell’originale.
* Umdenken, “ripensare”, “operare un ripensamento”; e umlernen, “riqualificarsi”, “apprendere un nuovo metodo” (ndr).
** Poeta e critico svizzero di lingua francese (1864-1911), particolarmente interessato alla storia letteraria italiana, cui dedica Le Quattrocento. Essai sur l’histoire littéraire du XVe siècle italien (1901, voll. 2) (ndr).
*** Si tratta di Antonio de Oliveira Salazar (1889-1970), presidente del Consiglio portoghese dal 1932 alla morte, incontrato dall’autore a Lisbona, nel 1937, in occasione del ricevimento del Premio Camões per l’opera Portugal (Éditions Spes, Parigi 1936). È il terzo incontro fra i due; il primo e il secondo si sono verificati nel 1935 per la preparazione dell’opera citata; e ve ne sarà un quarto, nel 1951, in occasione della partecipazione del pensatore svizzero a un pellegrinaggio a Fatima (ndr).