Giovanni Cantoni, Cristianità n. 1 (1973)
Forse vi sono ancora italiani che si chiedono ingenuamente per quale ragione l’establishment politico continui a opporsi al regolare svolgimento del referendum sulla legge liberal-socialista – la famigerata Fortuna-Baslini corretta Leone -, che ha introdotto il divorzio nel nostro paese.
Forse alcuni hanno creduto alle ubbie della irreversibile “conquista di civiltà”; altri hanno smesso di indagare, paghi della immagine della “pace religiosa” insidiata dallo spauracchio di uno scontro tra “guelfi” e “ghibellini” e timorosi del rialzarsi di “storici steccati”; altri ancora, più semplici, si sono lasciati convincere dalla tesi secondo cui lo svolgimento della consultazione comporterebbe un onere economico insostenibile per il nostro erario già così gravato; qualcuno può avere creduto che si tratti di un indebito e illecito affronto alla “sovranità del parlamento”, ecc.
Se però, tra tutti, vi sono ancora cittadini che anelano a una spiegazione e non hanno smesso di cercarla, la loro insistenza e la loro costanza sono state finalmente premiate.
Infatti, nello scorso mese di luglio si è riunito il comitato centrale del Partito Comunista e in quella sede si è parlato chiaro.
Il segretario generale del partito, on. Enrico Berlinguer, dopo aver constatato che “sulla vita politica nazionale, e sulle sue prospettive, incombe il referendum sul divorzio“, ha testualmente affermato: “Noi siamo sempre convinti che lo svolgimento della campagna elettorale sul divorzio, di per sé, indipendentemente da quello che sarà il suo risultato, muterà profondamente, e in senso negativo, l’intero quadro politico del paese” (1).
Ecco dunque offerta a tutti – a coloro che hanno già capito e a coloro che non hanno ancora capito, certo non a coloro che non vogliono capire! – la principale ragione della disgrazia in cui è il referendum presso la nostra classe politica: il comunismo lo considera un male che “incombe“, destinato a mutare “profondamente, e in senso negativo, l’intero quadro politico del paese“.
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A questo punto si può già trarre una prima conclusione e si possono formulare due quesiti.
Le conclusione suona così: se il referendum sul divorzio non si farà, vuol dire che in Italia comandano i comunisti, almeno sulla nostra classe dirigente e politica, alla quale evidentemente Berlinguer intendeva rivolgersi quando ha ricordato l’eterna “legge del bastone e della carota”. Cominciando dalla “carota”, l’esponente comunista ha detto: “[…] confermiamo la linea che su questa delicata e importantissima questione abbiamo coerentemente seguita, che è quella di ricercare e sollecitare un accordo tra le forze democratiche e antifasciste, laiche e cattoliche, tale che consenta, ad un tempo, sia la salvaguardia di un’importante conquista civile e di libertà, quale è l’istituto del divorzio (che sarebbe assurdo pensare di potere cancellare dalla realtà di una società moderna, come l’Italia, caratterizzata da un elevato grado di coscienza democratica popolare), sia il superamento di esasperazioni e lacerazioni non necessarie: in tal modo, attraverso l’innovazione della legge, si eviterebbe il referendum non già con espedienti (a cui mai noi abbiamo pensato) bensì con una soluzione politica, attuata nel rispetto rigoroso e sostanziale dei diritti e delle norme costituzionali, e con metodo e finalità democratici” (2).
Come non è difficile intuire, il discorso è “musica” per ogni orecchio di uomo politico, sia nella “melodia” che nei “toni”: ci sono “finalità democratiche“, rispetto della Costituzione, politica delle cose, conquiste civili e di libertà “, ma soprattutto superamento di esasperazioni e lacerazioni non necessarie“. Se “tono” e “melodia” non dovessero però bastare, ecco comparire, con il “bastone”, anche il “ritmo”: “Ciò detto, vogliamo […] anche ribadire – ha subito continuato Berlinguer –, che il nostro partito si propone di impegnare e mobilitare a fondo la sua grande forza organizzata e la sua influenza di massa nella campagna del referendum, per sconfiggere il fronte antidivorzista (3).
A questo punto, ci sono ancora degli antidivorzisti tra i politici di professione?
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Vengo, sulla scia dell’ultima domanda, alla formulazione del primo legittimo quesito: se il referendum disturba tanto i comunisti e non si sente odore di politici antidivorzisti – dal momento che anche quelli che la stampa cerca di accreditare come tali parlano di “libertà di coscienza” -, dove sono i politici anticomunisti in Italia?
Infatti, a chi si dichiara anticomunista si può dire: “Roma locuta, quaestio soluta”, “Roma ha parlato, la questione è risolta“, anche se si tratta della Roma rubra, della Roma “rossa” di via Botteghe Oscure e non di quella vaticana! Dunque, chi è antidivorzista è anticomunista, e chi non è antidivorzista è …. filocomunista, anche se dichiara il contrario, ma ormai contro l’evidenza, perché non è possibile dirsi anticomunisti e non sostenere con tutte le forze – almeno per ragioni politiche, non dico di principio! – quel referendum che, al dire del segretario del Partito Comunista, “indipendentemente da quello che sarà il suo risultato, muterà profondamente, e in senso negativo, l’intero quadro politico del paese“. “In senso negativo”, evidentemente, dal punto di vista comunista, e quindi in senso positivo da quello degli anticomunisti; oppure si tratta – fatte le dovute eccezioni, che colpiscono proprio per il fatto di essere eccezioni – di sedicenti anticomunisti, di falsi anticomunisti? Né è lecito temere per l’esito, dal momento che lo stesso Berlinguer assicura il vantaggio “indipendentemente da quello che sarà il suo risultato“.
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Passo al secondo quesito. È lecito temere il risultato, quando logica vuole che ci si chieda: perché il comunismo teme il referendum? Perché il “partito del popolo” teme il “giudizio del popolo”? E che altro è il referendum, se non il “giudizio del popolo” su una legge fatta dai rappresentanti del popolo”? È logico rispondere che il comunismo teme la consultazione popolare perché essa metterebbe a nudo la natura profonda del partito comunista, setta di sradicati di ogni ceto e di ogni categoria, che fa leva sulle difficoltà naturali della convivenza sociale ed esaspera i guasti storici della Rivoluzione liberale per conquistare proseliti alla sua malsana utopia e farne strumenti per l’instaurazione della dittatura del “proletariato”, il nome con il quale indica sé stessa e non certo, etimologicamente, “quelli che hanno prole”, “quelli che hanno figli”. Diversamente, perché avrebbe un sacrosanto terrore dell’opinione di costoro su un problema che li tocca così da vicino, su cui sono “esperti” e che anche la legge vigente consente loro, in tesi, di esprimere?
Il comunismo teme che il popolo, consultato a proposito di un problema reale, acquisisca la consapevolezza di pensare e di sentire allo stesso modo, per natura e per educazione, oltre, al di fuori, contro gli schemi settari dei partiti, che sono società innaturali e diseducanti; e paventa che a questo primo risveglio, a questa prima “disubbidienza” ai “potenti”, ne seguano altre ad essa coerenti, e si riscoprano, dopo la famiglia, altri valori di tradizione e di eredità – magari la proprietà! – e allora sarebbe la sua fine. Allora la Rivoluzione soffrirebbe un’autentica sconfitta e incomincerebbe il tempo della restaurazione di ordinamenti naturali e cristiani.
Questo temono i comunisti e tutti i rivoluzionari. Questo auspicano tutti i sinceri anticomunisti, cattolici e contro-rivoluzionari. Per questo dobbiamo pregare, agire e fare sacrifici, ringraziando Dio di aver messo sulla strada della nostra patria una “pietra d’inciampo” così ben costruita, così inequivocabile e così atta a diventare “pietra angolare” per la ricostruzione. Anche questa volta i “costruttori” la disprezzeranno? Se dovesse accadere, non si facciano illusioni: faremo di tutto per rimetterla sulla via, rinnovando la richiesta di referendum presentata l’11 gennaio del 1971.
Note:
(1) L’Unità, 27-7-1973.
(2) Ibidem.
(3) Ibidem.