Giovanni Cantoni, Cristianità n. 334 (2006)
Un commento sulla situazione politica seguente la tornata elettorale del 21 aprile 1996, di nuovo significativamente attuale — con qualche modifica ai nomi ma non alle realtà — dopo quella del 9 e del 10 aprile 2006. Trascrizione dell’articolo comparso, con lo stesso titolo, in Cristianità, anno XXIV, n. 254-255, giugno-luglio 1996, pp. 3-6.
1. La sinistra & i poteri forti
A suo tempo, ho registrato con grande interesse quanto affermato dall’on. Massimo D’Alema il 30 maggio 1996, in Parlamento, durante il dibattito sulla fiducia al Governo Prodi, sia in sé che, soprattutto, perché affermato in Parlamento: “Noi siamo di fronte a una grande questione europea e non soltanto italiana: quella della trasformazione dello Stato sociale, della sua crisi e della sua trasformazione in un nuovo patto sociale compatibile con le esigenze dello sviluppo moderno e della mondializzazione. Non c’è modo di sottrarsi alla mondializzazione! E dovrebbe essere interesse della sinistra controbilanciare il processo di integrazione economica dei mercati con la formazione di un potere democratico sovranazionale, nel senso, intanto, dell’unità europea, dato che la sinistra è quella parte che ritiene che non ci si possa affidare alla mera spontaneità dei processi economici, ma che ci voglia l’intervento consapevole delle istituzioni e delle persone per guidare ed orientare lo sviluppo” (1).
Dunque, è tutto chiaro e logicamente concatenato: il processo di mondializzazione dell’economia, frutto delle “esigenze dello sviluppo moderno”, è ineluttabile: a esso bisogna piegare lo Stato sociale; di esso deve essere partner un potere democratico sovranazionale, anzitutto europeo, poi, all’orizzonte, mondiale.
Poco prima delle affermazioni riportate, lo stesso segretario del Partito Democratico della Sinistra aveva denunciato l’immaturità della parte politica a lui avversa, osservando che l’avvento al potere della sinistra in Italia — realizzatosi con l’insediamento del Governo Prodi —, cioè “il cambiamento è avvenuto senza traumi, in un clima di serenità, è stato accolto in modo rispettoso e direi persino con sollievo dalla comunità internazionale e si è accompagnato (cosa rara per un successo elettorale di una coalizione che comprende la sinistra) ad un forte recupero della borsa e della lira” (2). Quindi, a fronte di commenti fra i deputati — presumibilmente del Polo per le Libertà, non rilevati nel resoconto stenografico se non come anonimi e imprecisati “commenti” —, l’on. Massimo D’Alema aveva proseguito e si era esibito in un plateale a fondo: “Sì, lo so, ma, badate, ho sentito riecheggiare anche poco fa quelle polemiche antiplutocratiche, diciamo così, ma che non sono un distintivo di modernità europea della destra italiana. Nei grandi paesi europei è raro che la destra applauda agli attacchi contro il grande capitale finanziario, ma è una delle ragioni di una sorta di immaturità che io avverto come un problema serio nell’evoluzione democratica del nostro paese” (3).
2. La sinistra “contro” i poteri forti?
Come si può notare senza difficoltà, il clima che emerge dalle dichiarazioni di voto dell’on. Massimo D’Alema è idilliaco. Nel grande mondo il grande capitale finanziario fa, e la sinistra collabora. Ma nel piccolo mondo, a livello nazionale, mentre la destra non perde occasione per mostrare il proprio provincialismo, come vanno le cose? A meno di quaranta giorni da quelle dichiarazioni di carattere idilliaco, l’atmosfera appare mutata e le “ragioni dell’immaturità della destra, avvertite come un problema serio nell’evoluzione democratica” della vita politica della Repubblica Italiana dall’autorevole esponente pidiessino sembrano essere diversamente dislocate. “”Beh, c’è una linea politica. C’è chi punta a un logoramento del governo. Ci sono certi ambienti del capitalismo italiano — dichiara infatti lo stesso uomo politico a Gian Antonio Stella, che ne fa stato sul Corriere della Sera di domenica 7 luglio 1996 — che non vogliono una politica forte. Diciamo la verità: chiunque vada lì cercheranno sempre di buttarlo giù. Di spezzargli le gambe. Chiaro il concetto?”.
“E perché?
“”Non vogliono che la politica prenda forza. Perché se prende forza loro contano di meno. È un fatto strutturale. Non è un complotto. Ci sono forze del mondo economico italiano, che controllano i giornali, interessate a che la politica resti debole. Quindi che i governi siano fragili. La stabilità piace a parole, ma nei fatti…”.
“Lei parla dei poteri forti?
“”Esattamente. Di quelli lì”.
“Nomi e cognomi: parla di Fiat, Mediobanca, Olivetti…
“”Nomi e cognomi di chi siano i proprietari dei giornali credo che lei li sappia da solo, amico mio. Che lei li chieda a me è umiliante”.
“Ma perché giocherebbero allo sfascio?
“”Non allo sfascio… Diciamo a tenere il governo sotto pressione, quindi in condizione di debolezza. Perché più debole è la politica, più sono forti loro”
“È quello che diceva Tatarella due anni fa.
“”No. Lui diceva che i poteri forti erano dalla parte del centrosinistra. Io non dico che stiano con la destra. Anzi, può darsi che una parte di questi poteri abbia votato per l’Ulivo, anche perché la destra appariva inaffidabile. Il problema non è questo. È che sembra esserci un interesse strutturale, a prescindere dalle simpatie politiche, a tenere sotto pressione il potere politico”” (4).
“E allora perché?
“”Per puntare a un governo di larghe convergenze. Un’ipotesi che non sarebbe positiva perché segnerebbe per la seconda volta l’incapacità di chi vince le elezioni di governare e darebbe un colpo alla logica del maggioritario”.
“Scusi: ma perché Agnelli, Romiti, Cuccia o De Benedetti dovrebbero essere interessati a un governo di larghe convergenze?
“”Perché alcuni di loro pensano che sennò non si fanno le riforme costituzionali… Perché pensano che il potere di ricatto del sindacato sull’attuale governo sia eccessivo…”” (5).
Mi fermo nella trascrizione, perché — a questo punto — la lucidità dell’intervistato, quindi il carattere illuminante delle sue affermazioni, viene meno ed esse si trasformano in battute di scarso rilievo, o che almeno mi paiono tali.
Ma quanto ho trascritto meritava di essere trascritto, per poterlo rileggere in serenità, oltre l’incalzare della cronaca. Quindi torno al commento. In meno di quaranta giorni — una quaresima corta — l’idillio si è rotto quando chi s’immaginava partner, se non addirittura “eletto”, si è scoperto capo dei pompieri. E l’irritazione produce la corrispondente scoperta dell’ovvio. Viene anzitutto espressa incertezza fra un complotto, formalmente negato, e un fatto puramente strutturale, formalmente affermato, senza immaginare la combinazione, la concorrenza, cioè il concorso, dei due elementi; quindi si constata che al primato dell’economico subentra il primato del finanziario; e che, se l’economia sopporta limitazioni, confini, la finanza li supera strutturalmente, ne pretende anzi la soppressione; cioè pretende di esercitare il potere dell’astrazione nel ragionamento. Come l’astrazione, comincia mostrando la propria indubbia utilità, ma prosegue allontanandosi dalla realtà e trasformandosi in “ente di ragione”, quindi s’istituzionalizza in nominalismo; e, quando l’ente di ragione ritorna verso la realtà, ritorna come ideologia aggressiva, cioè intenzionata a riplasmare la realtà, da cui pure nasce, a propria immagine. E secondo questa ideologia aggressiva, nella quale il complotto, cioè il contributo umano, ha la sua parte, la politica è fallita, perché anche la peggiore politica è ancora umana, troppo umana. Perciò, se politica proprio ha da essere, deve essere politica debole. È l’ora dell’economia rarefatta, della tecnica finanziaria, che soffia dove vuole: non se ne devono temere i danni perché sono temporanei e verrà il vantaggio, ma bisogna saper sperare oltre la tragedia.
E i politici si dividono in due categorie: quelli che collaborano al progetto, che è nelle cose e nelle intenzioni, sia nelle cose che nelle intenzioni, tanto nelle cose quanto nelle intenzioni, che è tanto struttura quanto complotto; e quelli che lo ostacolano. Questa è la destra, l’altra è la sinistra. E l’on. Massimo D’Alema si è trovato per un momento a destra, certamente senza volerlo, forse anche senza saperlo, pure nel caso si sia trattato di una sceneggiata; però veramente, almeno dal punto di vista psicologico. Infatti, siccome, contrariamente a quanto sostiene Marco Revelli, non vi sono due destre, bensì due sinistre, la collaborazione fra le due sinistre ha conosciuto una frizione piuttosto che un’articolazione.
3. Due destre? Meglio, due sinistre
Ho evocato l’analisi di Marco Revelli. Merita di essere riferita con le sue parole, “a cominciare da quel fondamentale principio di ordine dello spazio politico che è l’antitesi “destra-sinistra”. Di giorno in giorno, infatti, si fa più evidente che oggi, in Italia, non si assiste affatto a una “normale” competizione tra quelle che si è soliti considerare una “destra” e una “sinistra”, ma che lo spazio politico è occupato, al contrario, in forma prevalente, da due destre: una destra populista e plebiscitaria (fascistoide), da un lato, e una destra tecnocratica ed elitaria (liberale) dall’altro. Due destre in conflitto tra loro sui mezzi, ma per molti versi unificate da un fine comune” (6). Prescindo dall’ultima affermazione, su cui mi riservo di tornare, e compatto la descrizione dello spazio politico: “E la sinistra? Dove si colloca, in questa sbilenca topografia politica di fine secolo, la sinistra? Per una parte, quella più ampia, anzi preponderante — la sinistra che conta, che parla e fa parlare, che siede ai tavoli e bussa al palazzo, insomma il Pds e le spore che germinano alla sua ombra —, essa sembra oggi più un’appendice della seconda destra che non un soggetto politico autonomo, capace di progetto e di programma. Più la “protesi” con cui il progetto “tecnocratico” può conquistare il consenso indispensabile per competere sul mercato elettorale che non l’anima di una efficace alternativa, in vista di una reale alternanza, come dimostra, in forma esemplare, la vicenda del governo Dini” (7). Conclusivamente, “per usare una metafora informatica, […] la sinistra ufficiale italiana può essere in qualche modo considerata come l’hardware su cui viene fatto girare il software della destra tecnocratica” (8).
Ripeto quanto ho già affermato, e cioè che la protesi ha scricchiolato sulla sua articolazione, e la prova di questo scricchiolio è fornita con abbondanza di particolari dalle dichiarazioni dell’on. Massimo D’Alema. Né basta l’uso disinvolto dei termini per mutare la sostanza dei fatti e dei movimenti: “La destra che si è definita populista — ha infatti scritto poco prima lo stesso Marco Revelli — […]. A suo modo “sociale”; a suo modo sostenuta da un’analisi materiale della società, essa pensa che al blocco storico su cui si era edificata la Prima Repubblica (l’alleanza competitiva tra grande industria protetta dallo Stato e sindacati operai) debba sostituirsi una nuova alleanza egemonica, un diverso blocco sociale costituito dagli imprenditori della piccola e media industria e dal crescente esercito dei senza lavoro, degli emarginati del patto industrialista, dai ceti medi in sofferenza per la stretta congiunta del fisco e della grande distribuzione concentrata” (9). Se i soggetti del blocco sociale ipotizzato come base elettorale dalla “destra populista” si possono immaginare e soprattutto rendere facilmente funzionali al progetto della cosiddetta “destra tecnocratica”, allora ha senso ipotizzare l’esistenza di quest’ultima; diversamente si tratta di un puro gioco di parole per descrivere una ben più reale “sinistra tecnocratica”, alla ricerca de “[…] la “protesi” con cui il progetto “tecnocratico” può conquistare il consenso indispensabile per competere sul mercato elettorale”, con una destra in crescita, nonostante la sconfitta nei termini del meccanismo elettorale (10).
4. Il Polo fra poteri forti e Ulivo
Le considerazioni svolte mi paiono rendere ragione di quanto viene accadendo. I poteri forti — il grande involucro mondialista del relativismo etico dopo la fine delle ideologie, la macrostruttura della IV Rivoluzione (11) — nella prospettiva della propria istituzionalizzazione, del proprio insediamento visibile, per esempio in Europa, operano perché appaia chiaro il fallimento della politica nazionale attraverso la prova costituita da due tornate elettorali infeconde, che cioè non assicurano la tanto auspicata e perseguita governabilità. La prima volta questa infecondità è stata dimostrata grazie alla Lega Nord e al suo ritiro del sostegno al Governo Berlusconi; la seconda è in via di prova come esito della desistenza, una frode della volontà popolare, una Tangentopoli senza tangenti, che ha permesso la costruzione di una maggioranza formale — usando vecchie espressioni, si potrebbe dire ad excludendum il centro-destra — ma non programmatica; che ha fatto vincere una coalizione inetta a governare. Quindi, i poteri forti puntano all’umiliazione della politica, a un governo di larghe intese, cioè alla realizzazione post-elettorale del tentativo Maccanico, cioè — ancora — a un governo egemonizzato da “tecnici” e al quale il consenso venga garantito da tutte le forze politiche, usando Lega Nord e Partito della Rifondazione Comunista come strumenti di pressione continua nei confronti rispettivamente della coalizione di centro- destra e di quella di centro-sinistra. Infatti queste coalizioni, se collaborazioniste, sono esposte a essere attaccate come fedifraghe delle istanze dei rispettivi elettorati; se non collaborazioniste, vengono private di qualsiasi potere di mutamento del reale istituzionale e ridotte a testimoni di basso profilo — in quanto impreparate a tale ruolo — di diversi disagi. Sia detto di passaggio: l’Aventino di tutti i politici svelerebbe immediatamente la natura dei cosiddetti governi tecnici (12), ma l’ipotesi di tale Aventino contrasta con l’umanità degli uomini politici: infatti, qualcuno disposto a costituire il corrispondente politico del “sindacato giallo” si trova sempre. Quindi, il quadro abbozzato configura un terribile circolo vizioso, da cui si può immaginare una difficile fuoruscita solo attraverso un rapporto critico e fermo con i poteri forti, mediante la trattativa esplicita con essi, fondato non sul potere da essi concesso, ma sul consenso da essi non controllato, che definisce appunto poteri tali per consenso popolare, con cui i poteri forti sono costretti a convivere e a cercare la collaborazione, avendo come unica alternativa solamente l’uso della violenza.
Il 3 febbraio del 1996, il Corriere della Sera, in una corrispondenza da Roma, riportava un commento in tema di poteri forti dell’on. Giuseppe Tatarella (13), con riferimento a un’intervista da lui rilasciata nel 1994 e ricordata anche dall’on. Massimo D’Alema (14). Secondo l’esponente di Alleanza Nazionale, nel 1994, “[…] i poteri forti erano all’attacco: era la prima fase della loro strategia, poi c’è stata la fase della trattativa, ora siamo giunti al terzo e decisivo passaggio: i poteri forti non devono stravincere. Se pensassero di mancare di rispetto alla politica, e cioè di governare facendo a meno della politica, rischierebbero di far saltare tutto” (15).
Se le prime due fasi evocate dall’on. Giuseppe Tatarella corrispondono rispettivamente ai Governi Berlusconi e Dini, la terza fase, nata per definire il tentativo Maccanico in quanto di quello era questione all’epoca della dichiarazione citata, oggi si adatta perfettamente al Governo Prodi; e il disagio denunciato dall’on. Massimo D’Alema lo conferma. Sì che il problema della coalizione di centro-destra rimane quello del 1994: e come allora, la soluzione unica è quella allora indicata dallo stesso on. Giuseppe Tatarella: “[…] patti chiari, amicizia lunga” (16), con in appendice, quanto realisticamente affermato sabato 13 luglio 1996 dal presidente di AN, on. Gianfranco Fini: “An non vuole abbattere i santuari della finanza. Vuole anche su questo versante più pluralismo e dunque più mercato” (17).
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XIII Legislatura. Discussioni. Seduta del 30 maggio 1996. Resoconto stenografico, p. 91.
(2) Ibid., p. 90.
(3) Ibidem.
(4) On. Massimo D’Alema, “Vogliono spezzare le gambe al governo”, intervista a cura di Gian Antonio Stella, in Corriere della Sera, Milano 7-7-1996.
(5) Ibidem.
(6) Marco Revelli, Le due destre. Le derive politiche del postfordismo, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 7.
(7) Ibid., pp. 10-11.
(8) Ibid., p. 11.
(9) Ibid., pp. 8-9.
(10) Cfr. i miei Dopo il 21 aprile 1996: “fu vera sconfitta”?, in Cristianità, anno XXIV, n. 252-253, aprile-maggio 1996, pp. 14-16; e L’”illusione della destra” e le mistificazioni della sinistra, ibid., pp. 16-17.
(11) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, Introduzione, pp. 60-61; parte I, capitolo III, § 5, A-D, pp. 70-75; parte III, capitolo II, p. 173; e parte III, capitolo III, p. 189; e il mio Fra crisi e “ristrutturazione”: ipotesi sul futuro dell’impero socialcomunista, in Cristianità, anno XVIII, n. 187-188, novembre-dicembre 1990, pp. 13-19, soprattutto p. 18.
(12) Cfr. i miei Repubblica Italiana: laboratorio per un regime tecnocratico?, in Cristianità, anno XXIII, n. 247-248, novembre-dicembre 1995, pp. 3-4; Dal “governo dei tecnici” al “partito dei tecnici” e oltre, ibid., anno XXIV, n. 250-251, febbraio-marzo 1996, pp. 3-4; e “Crisi al buio” e il “buio che impedisce la crisi”, ibid., pp. 19-20.
(13) Francesco Verderami, Poteri forti? An non spara più, in Corriere della Sera, Milano 3-2-1996.
(14) Cfr. on. Giuseppe Tatarella, “Basta con gli uomini invisibili”, intervista a cura di Dario Cresto-Dina, in La Stampa, Torino 10-8-1994; e il commento di Angelo Codevilla, “Poteri forti”, “poteri invisibili”, ed esercizio del potere formale, in Cristianità, anno XXII, n. 232-233, agosto-settembre 1994, p. 16.
(15) F. Verderami, art. cit.
(16) On. G. Tatarella, intervista cit.
(17) On. Gianfranco Fini, Relazione all’Assemblea Nazionale di Alleanza Nazionale, del 13-7-1996, in Secolo d’Italia, Roma 14-7-1996.