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Il reato universale dell’utero in affitto

27 Dicembre 2024 - Autore: Chiara Mantovani

Chiara Mantovani, Cristianità n. 430 (2024)

Mercoledì 16 ottobre 2024 il Senato «ha approvato definitivamente il ddl n. 824 recante modifica all’articolo 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in materia di perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all’estero da cittadino italiano» (1). La valutazione del costrutto giuridico, della sua adeguatezza ed efficacia, dell’iter che lo attende per la sua attuazione, non sono il tema di questa riflessione. Altrove ed altri hanno saputo e sapranno autorevolmente affrontarla, perché l’im­pres­sione è che la vicenda non sia affatto esaurita.

Qui, invece, espliciterò alcune considerazioni antropologiche e bio­etiche in merito al fatto — la surrogazione di maternità — che resta ampiamente in discussione nel tessuto sociale e nelle polemiche partitiche.

Non è un mistero che qualsiasi tentativo, anche minimo, di ripristinare un dibattito serio in merito a questioni decisive sulla dignità umana sia abitualmente tacciato di oscurantismo e venga snobbato con l’indebita rivendicazione di presunti diritti individuali. Nel resoconto stenografico della seduta in Senato sono riportate anche le motivazioni oppositorie alla nuova disposizione legislativa, la quale — è bene ricordarlo — altro non fa che rafforzare una legge già vigente: le contrarietà si basano sul­l’affermazione di presunti diritti e non prendono in esame né il soggetto principale (il figlio) né la dignità di colei (la madre surrogata) che è la protagonista della prestazione in oggetto (2).

Lo stato dei fatti è il seguente: in Italia, quel che resta della legge n. 40 del 2004 vieta la maternità surrogata, in sigla GPA, o «utero in affitto». Per sfuggire a questo divieto le persone che «vogliono» un figlio — sottolineo questo verbo, perché per un certo verso è decisivo — ma non sono nelle condizioni di farlo nascere da un utero presente in una delle persone della coppia, avendo anche una discreta disponibilità economica, spesso ricorrono a un espediente per aggirare la legge. Si recano all’este­ro, là dove non esiste divieto di maternità surrogata, eseguono le pratiche necessarie e scelgono da un catalogo la donna disponibile a portare avanti una gravidanza e che consegni loro il bambino appena nato. Tornando poi in Italia, lo registrano all’anagrafe come figlio naturale di uno dei componenti e, in seguito, tramite l’adozione, chiedono al tribunale il riconoscimento genitoriale anche per l’altro membro della coppia.

Con l’introduzione del «reato universale» questo escamotage sarà illegale anche in Italia, sebbene compiuto all’estero.

Reputo esemplare e altamente significativo il coraggio delle componenti politiche di questo esecutivo nel proporre, portare avanti e infine approvare una tale norma: oltre alla ragionevolezza, perfino il disperato bisogno di porre fine al deserto demografico italiano ha solo da perdere nella diffusione di una mentalità di uso e consumo dei corpi delle donne e dei figli.

Entrano in questione, infatti, princìpi molto più rilevanti di qualsiasi utilitarismo, che meritano alcune riflessioni di carattere antropologico.

Quando si affronta il tema del nascere, tema che con tutta evidenza appartiene in toto ai già nati, è necessario un surplus di prudenza e di saggezza che superi ogni rivendicazione di vantaggio personale, dal momento che si sta trattando di un bene — la vita — essenziale all’esistenza di ogni società.

Durante il dibattito, accesissimo, sulla legge n. 40 — che portò poi al fallito referendum del 2005 — erano molto chiare le argomentazioni a favore del divieto di fecondazione eterologa. Si affermava che, se fosse stato lecito procurare al di fuori della coppia uno o più degli elementi necessari al concepimento e alla conseguente gravidanza, la generazione umana avrebbe compiuto un salto nel buio, sia etico che culturale. Non ci volevano abilità particolari per paventare gli scenari che in parte stavano già affiorando altrove e che puntualmente sono andati moltiplicandosi in questi vent’anni.

Anche accantonando provvisoriamente, ma senza dimenticarlo, l’a­spetto economico — che infatti ha raggiunto cifre astronomiche, al punto da costituire un giro d’affari che a tutt’oggi appare impossibile da smantellare, per la complessità degli interessi, per la quantità dei profitti in gioco e per il numero dei posti di lavoro coinvolti — le conseguenze della fecondazione eterologa hanno aggiunto ulteriori ingiustizie insanabili a quelle già poste in essere dalla fecondazione artificiale in sé.

Se gli elementi mancanti, necessari «per fare un uomo», sono gli ovociti, bisogna convincere qualche donna a «donarli». Ma gli ovociti si devono produrre con la stimolazione ormonale, il che causa non pochi disagi; poi devono essere prelevati chirurgicamente, il che richiede analgesia o anestesia: due interventi, uno farmacologico e uno chirurgico, entrambi non esenti da rischi per la salute della donna, ovviamente giovane e sana, né forniti gratuitamente.

La mancanza di spermatozoi è ovviabile più facilmente: molti studi universitari sono stati finanziati da «donazioni» maschili. La pratica ha dato origine a vari «disguidi» genetici, talvolta anche ironicamente o tragicamente narrati in libri e film: capita che qualcuno abbia realizzato dopo anni di avere molti «figli» legati geneticamente a sé sparsi per il mondo e ne sia rimasto turbato. 

La mancanza del terzo elemento necessario alla gravidanza, l’utero, richiede la disponibilità non di qualche cellula, bensì dell’intera persona: e non per qualche ora, ma per nove mesi. Infine, ci vuole un parto.

L’utero in affitto, dunque, non è altro che un’ulteriore estensione della PMA, la Procreazione Medicalmente Assistita, con la partecipazione di altri elementi estranei alla coppia. Che il problema non siano l’etero­sessualità o l’omosessualità è dimostrato dal fatto che possono decidere di accedere alla GPA anche coppie che pure hanno alcuni elementi — ovaie, spermatozoi, utero — funzionali e funzionanti. Non è, infatti, obbligatorio surrogare un elemento mancante, né è obbligatorio fornire quello o quelli naturalmente presenti. In altre parole, per fare un esempio semplice, marito e moglie potrebbero essere perfettamente fecondi ma preferire di non portare avanti una gravidanza e di affidare in toto concepimento e gestazione ad altri, partendo anche da cellule gonadiche estranee. Il nocciolo della criticità del procedimento sta nel ritenere lecito tutto quello che è tecnicamente realizzabile: si riesce a fare, dunque si può.

Risulterebbe più facile capire la profonda, viscerale abnormità del­l’utero in affitto se si riuscisse a comprendere che cosa è una gravidanza (3), il legame unico che si instaura non fra un utero e un embrione, ma fra due persone. Intorno a un utero vi è una persona, dentro a una morula vi è un intero essere umano.

Se — come in effetti sembra avvenire per i suoi fautori — si reputa la GPA alla stregua di una qualsiasi manovra di crescita controllata di cellule in ambiente adatto e congruo al fine della buona riuscita del prodotto richiesto come da contratto, si perdono di vista le coordinate della realtà. La quale non è mai la somma dei dati, ma anche indissolubilmente il loro senso e le relazioni che ne derivano. Nessun umano vale l’equi­valente delle molecole chimiche che lo compongono.

Dichiarare che ricorrere all’utero in affitto costituisce un atto nocivo per la società rientra nei parametri dei doveri delle leggi. Le leggi, infatti, non devono essere dichiarazioni moralistiche, più o meno legate a precetti religiosi o a prospettive mistiche: almeno nella cultura occidentale, il dettato morale non fonda la norma, sebbene la legge non possa permettersi di essere al di sopra di un basilare assunto etico. Quale? Quello che fonda e pone le premesse per una possibile convivenza civile fra uomini, ovvero tra esseri umani uguali fra loro in forza di un solo parametro: l’appartenenza all’umanità.

L’antropologia di riferimento condiziona il giudizio: che gli uomini siano degni di diritto a prescindere oppure a seconda delle loro qualità fa tutta la differenza tra una società solidale e una concorrenziale. Si può legittimamente concorrere per molte cose, dal trofeo sportivo alla migliore località dove costruire una casa, dal fondare la migliore università a scalare la vetta più alta. Se si pongono parametri alla definizione di «uomo», qualsiasi convivenza sarà segnata dall’arbitrio e alle persone sarà consentito fare ciò che si vuole, ciò che si desidera, ciò che conviene. In una parola: utilizzare l’uomo come cosa, come prodotto della tecnica.

Non è a misura della dignità umana essere privati dell’atto di amore tramite cui si nasce, della storia biologica di chi ha lasciato traccia di sé nel mio DNA, dello scambio di notizie chimiche che mi hanno permesso di farmi strada e di crescere in un «ambiente» non solo biologico, dei rumori, dei sapori, degli odori che mi hanno influenzato da subito, tracce epigenetiche che mi hanno letteralmente «fatto». 

L’utero in affitto, al netto delle suggestioni emozionali — pure presenti sia in una prospettiva favorevole sia in una contraria — che non hanno forza argomentativa razionale, è nei fatti un utilizzo di funzioni biologiche che certamente non definiscono la persona nella sua incommensurabile dignità ma che altrettanto sicuramente non possono essere derubricate a mera materialità. 

Se non bastassero le argomentazioni di ragione e di logica, vi è un altro modo, più empirico, di valutare l’impatto di simili procedure procreative: un rapido sguardo a quello che può succedere, e di fatto succede, non quando tutto si svolge senza ostacoli, ma quando la quotidianità e gli accadimenti turbano e sconvolgono un percorso di vita romanticamente pensato. Quando, cioè, si palesano le difficoltà generate dalla vita reale: le malattie, le disgrazie, i tradimenti, le liti. Un elenco significativo ma conciso sarà bastante, soprattutto sapendo che è tratto dalla cronaca, non da ipotesi malevole. 

La madre surrogata, altrimenti detta la portatrice, non ha (o sì?) alcun diritto di decisione in merito alla sua gravidanza. Si deve sottoporre a tutti gli esami medici e strumentali previsti dai protocolli nel contratto di surrogazione; nel caso in cui si discostasse dai parametri di alimentazione, salubrità, comportamento il committente, ha il diritto di ricusare l’in­tera procedura. Quella donna incinta viene «licenziata» e in alcuni casi è previsto il «benefit» dell’aborto. Oppure, con un’espressione un po’ forte ma efficace, si tiene il suo utero incinto.

Ancora, sempre dal punto di vista della madre «biologica»: se nelle indagini prenatali — che sono routine, perché l’agenzia garantisce il buon esito della pratica — emergesse una diagnosi, prognostica o certa, di malformazione o deficit del concepito, la madre gestante non può scegliere ma deve assecondare la volontà dei committenti: aborto, selettivo se gli embrioni sono più di uno. 

La cronaca riporta le vicende di gestanti surrogate che, di fronte a una diagnosi di sindrome di Down del concepito, rifiutano l’aborto e portano a compimento la gravidanza facendosi carico del bambino in perfetta solitudine, umana ed economica (4).

Anche per la necessità di adempiere alle prescrizioni stabilite dai contratti, soprattutto in regioni del mondo con precarie condizioni igienico-sanitarie, le madri surrogate spesso sono riunite in luoghi comuni dove trascorrono i mesi della gestazione, e questi luoghi non sempre assomigliano a cliniche private in Costa Azzurra.

I casi giunti alla vetrina mediatica descrivono di problemi non indifferenti nel caso in cui, durante la gestazione, la coppia «scoppi». Chi dei due ha voce autorevole per imporre un comportamento o un altro? Se concordano nel giungere al termine della gravidanza, a chi sarà affidato e chi si dovrà far carico del nato? Di chi sarà giuridicamente figlio? Forse con lungimiranza qualcosa sarà già stato scritto nel contratto? E degli eventuali embrioni congelati conservati come bene in comune, che cosa e chi deciderà?

Qualcuno potrebbe pensare che siano solo ipotesi allarmistiche e che ogni coppia o singolo troverà soluzioni adeguate a mano a mano che i problemi si risolveranno, ma è una pia illusione che velocemente evapora frequentando aule di tribunali. Così come svanisce rapidamente la suggestiva ipotesi di «gravidanze solidali» gratuite a fronte di un estratto-conto per spese sanitarie: gli uteri in affitto non sono mai a «costo zero».

Vi sono poi, sarebbe ipocrita tacerlo, gli autentici drammi dei concepiti nati: il bisogno di conoscere le proprie origini molto spesso diventa insopprimibile. Già con la PMA limitata ai soli gameti, ma definitivamente con l’utero in affitto, questa ricerca è totalmente impossibile.

È già un problema noto in caso di adozioni, le quali — è imperativo tenerlo a mente — differiscono in maniera sostanziale dall’utero in affitto. Mentre nella maternità surrogata tutto concorre a cancellare la madre, relegandola a contenitore passeggero, tanto indispensabile quanto ininfluente, nell’adozione tutto il vissuto del bambino accolto è al suo servizio, è l’occasione benedetta di poterlo amare, è il filo riannodato per non perdere la ragione vera del suo essere al mondo (5).

Il bimbo vale per quello che è, merita di essere amato per il solo fatto che esiste. È tanto decisivo avere qualcuno che ci ami e si prenda cura di noi che — se dovesse succedere che non vi fosse più nessuno — è bellissimo (e giusto) che altri sanino una mancanza.

L’adozione è il gesto dell’adulto a servizio del figlio.

La GPA è il figlio al servizio della volontà dell’adulto. Il figlio non c’è, ma lo si vuole. Ecco perché il verbo «volere» è davvero il punto focale, il vero motivo per cui si agisce. Chi manca è il protagonista, l’og­getto del desiderio, è lui il «surrogato» che ci si sforza di giustificare esigendo un presunto «diritto al figlio». Ma il figlio ancora non c’è. Lo si invoca, lo si pretende, rivendicandone il diritto sulla sola base della volontà e della possibilità tecnica di ottenerlo.

Non è un caso che le obiezioni più diffuse alla definizione di reato universale, anche quelle riportate nel resoconto del Senato, evidenzino sempre gli stessi punti, alcuni strumentali, altri profondamente radicati in un’idolatria dell’autodeterminazione, così che sfugge il vero motivo della ingiustizia intrinseca nella procreazione artificiale, ulteriormente aggravata nell’utero in affitto: il «figlio» è tale dal concepimento, umano fin da subito, con una dignità che può essere materialmente calpestata e idealmente non riconosciuta solo se gli si nega la natura umana. Ma senza natura umana, di quali diritti possiamo parlare? Quando diventano «bambini» da tutelare e quando smettono di esserlo? Quando non più desiderati? Quando contesi, o malati, o quando si cambia idea?

Resta un ultimo passaggio, molto problematico. Forse irrisolvibile. 

La legge ha individuato un comportamento ingiusto, un reato: la Gestazione per Altri. Bene, era necessario riconoscerlo come tale.

Vi sono molti innocenti coinvolti, la cui sorte è intrecciata strettamente con quella di chi innocente non è. La più profonda e terribile ingiustizia a me pare proprio questa confusione, questa matassa inestricabile di rapporti fra parti in causa molto differenti. Da un lato vi è chi concepisce idee malsane e antiumane, teorizzando l’irrilevanza etica della procreazione artificiale. E vi è chi in queste pratiche ha trovato un lucrosissimo investimento, che pubblicizza con accattivante efficacia ogni combinazio­ne genetica desiderata. Vi è altresì chi subisce il fascino di una possibilità tecnica che non pone limiti all’immaginazione e al conseguimento di traguar­di scientifici e professionali inebrianti. Ma vi è chi è costretta dalla miseria, o dall’ingenuità, a vivere con distacco un processo profondamente umano e femminile quale la gravidanza, nella consapevolezza della vacuità finale di non accudire chi di lei ha condiviso sangue e carne. Non ci si illuda — o, peggio, non si giochi con retorico cinismo — sulla gratuità e sull’altruismo a portata di mano che presenterebbe la gravidanza surrogata: resterà sempre una cicatrice indelebile nella percezione di sé della donna. Con quali danni, non sarà mai dato sapere del tutto.

Soprattutto, è da considerare il destino di un bambino, di un figlio che è trattato come strumento di rivendicazione, come rimedio alle proprie aspirazioni, come strumento di felicità, come fonte di guadagno.

Come si può agire con giustizia verso tutti? Quanta delicatezza, sensibilità e insieme quale amore per il giusto, per ciò che spetta a ciascuno, serviranno per provare a districare questa matassa?

Ecco perché, insieme alla riflessione giuridica, è necessaria un’o­pera immensa di recupero della saggezza intesa come diceva Aristotele (384-322 a.C.), φρόνησις, ossia quella forma di conoscenza che sa indirizzare la scelta, dove la ragione accoglie e scarta, vagliando sentimenti e desideri. 

Abbiamo bisogno di un’educazione che faccia sì che la coscienza di un’intera cultura si risvegli, comprenda con rigore e onestà intellettuale che né il volere né il potere possono decidere della sorte degli uomini. E che la Giustizia non è generata dai parlamenti o dalle aule di tribunale, ma dalle virtù.

Chiara Mantovani

Note:

1) Senato della Repubblica, Resoconto sommario della 232ª Seduta pubblica, nel sito web <https://www.senato.it/3818?seduta_assemblea=25589> (gli indirizzi Internet del­l’articolo sono stati consultati il 31-12-2024).

2) Pur dissentendo dalla maternità surrogata, le senatrici Valeria Valente e Beatrice Lorenzin (PD) hanno criticato l’approccio del governo, focalizzato più sul consenso politico che sul benessere sociale. «Hanno annunciato un voto contrario i sen. Julia Unterberger (Aut), che ha accusato la maggioranza di voler limitare l’autodeterminazione delle donne e discriminare le famiglie arcobaleno; Enrico Borghi (IV), secondo cui il Parlamento ha perso un’occasione per riflettere su temi complessi, preferendo una visione rigida e dogmatica al dialogo; Ilaria Cucchi (Misto-AVS), che ha sottolineato l’impraticabilità della legge a livello giuridico, evidenziando il rischio di procedimenti penali contro coppie italiane che ricorrono alla GPA all’estero; Maria Domenica Castellone (M5S), che ha difeso la pratica come atto d’amore, proponendo una regolamentazione della GPA solidale in Italia per evitare abusi e commercializzazioni clandestine; Bazoli (PD), che, sebbene condivida l’idea che la maternità surrogata offenda la dignità della donna, si è opposto a una penalizzazione universale della pratica, ritenendo che possa minare le relazioni internazionali e non garantire la tutela adeguata dei diritti dei bambini» (ibidem).

3) Cfr. Carlo Bellieni, I primi 1000 giorni d’oro. Puericultura per genitori e per chi cura i bambini, Ancora, Milano 2024. Questo libro del neonatologo Carlo Valerio Bellieni, oltre ai meriti scientifici di divulgazione, ha anche il grande pregio di offrire uno sguardo unificante sulla realtà «bambino», questa entità oggi misconosciuta nella misura in cui lo si definisce per quello che si desidera farne.

4) Cfr. Madre surrogata ha bebè down, coppia australiana lo abbandona, del 4-8-2024, nel sito web <https://www.swissinfo.ch/ita/madre-surrogata-ha-beb%C3%A8-down-coppia-australiana-lo-abbandona/40534818>. 

5) Adozione e surrogazione, due antitesi in radice, sono spesso confuse e indebitamente accostate. E dovremo stare molto attenti al subdolo cambio di lessico che lentamente vorrebbe equiparare i due comportamenti.

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