
di Francesco Pappalardo
Unità e Risorgimento
Il termine «Risorgimento» indica a grandi linee il periodo della storia d’Italia durante il quale la Penisola è stata unificata politicamente. Tuttavia, è più appropriato distinguere fra Unità e Risorgimento, cioè tra un fenomeno di natura politica e uno grosso modo culturale. L’Unità fu resa necessaria dalle difficoltà di convivenza insorte fra gli Stati europei in Età Moderna, che rendevano più difficile la sopravvivenza delle piccole formazioni statuali in un contesto ormai caratterizzato da una politica di potenza e di spregiudicata competizione internazionale. Essa si ispirò a una forma temperata di liberalismo e a un forte nazionalismo, intrecciatisi con gl’interessi geo-politici del Regno di Sardegna.
Il Risorgimento, invece, fu una vera e propria Rivoluzione culturale, che accompagnò e seguì il processo di unificazione con l’obbiettivo di «modernizzare», cioè di modificare profondamente, fino allo snaturamento, l’identità del Paese, una identità stratificatasi nel corso di ricche e complesse vicende storiche ma rifiutata da esigue élite politiche e intellettuali, che erano state influenzate dalle ideologie nate dopo il 1789. Costoro, oltre all’unità e all’indipendenza del Paese — che potevano essere realizzate anche mediante una confederazione —, perseguirono lo scopo di detronizzare i principi «reazionari» e di distruggere l’influenza morale e sociale della Chiesa.
Le interpretazioni
L’Unità fu caratterizzata da una serie di trasformazioni territoriali e istituzionali, che nei decenni successivi al 1861 causarono difficoltà e delusioni, imputate dal nuovo ceto dirigente liberale al «malgoverno» degli antichi Stati italiani e alla «decadenza» morale che sarebbe stata prodotta dalla Controriforma. Come soluzione venne invocata una «rigenerazione» nazionale, compendiata nella formula «fare gli italiani», da realizzarsi mediante una vasta opera di pedagogia politica e uno sforzo di alfabetizzazione patriottica, i cui strumenti principali furono la scuola e l’esercito, nonché l’elaborazione di una storiografia «nazionale» nella quale si consolidò presto una visione sincretica che abbracciava sia la vincente monarchia sabauda, sia il vincente, quando in accordo con essa, Giuseppe Garibaldi (1807-1882), sia il vinto Giuseppe Mazzini (1805-1872). Nacque così un «canone» storico, condiviso nella sostanza da entrambe le «famiglie» dell’ideologia risorgimentale, la Destra e la Sinistra — i liberali monarchici e i democratici repubblicani —, separate da questioni contingenti ma unite dalla comune finalità rivoluzionaria, come avevano ben compreso Giuseppe Oreglia di Santo Stefano S.J. (1823-1895), editorialista de La Civiltà Cattolica, che nel numero del 18 marzo 1870 scriveva: la Destra «[…] si chiama partito conservatore, non […] nel senso vero e proprio della parola, ma soltanto relativamente ai sinistri e ai mazziniani, che vorrebbero mutare lo Stato del Governo da monarchico parlamentare in repubblicano».
Si trattava di una storiografia tendenziosa, che proiettava nella ricostruzione del passato l’ideologia dei suoi rappresentanti e che — a causa della sostanziale continuità, almeno nella rivendicazione delle origini, fra monarchia sabauda, regime fascista — sia quello in condominio con il re, sia quello repubblicano — e Repubblica democratica, ha costituito per oltre un secolo la lettura «ufficiale» degli avvenimenti. Al suo interno possiamo distinguere scuole differenti: la democratica, la liberale o moderata, la nazionalfascista e la marxista.
I democratici, spesso d’ispirazione mazziniana, imputavano ai moderati, generalmente di fede sabauda, di aver perseguito gli interessi della monarchia e delle classi più agiate, trascurando o reprimendo ogni forma d’iniziativa popolare e ignorando le aspirazioni repubblicane dei rivoluzionari più radicali. La storiografia moderata, invece, esaltava i meriti dei liberali, che avevano saputo raccogliere molti consensi intorno alla necessità dell’indipendenza, presentando il riformismo come una soluzione concreta rispetto all’astrattezza dei rivoluzionari e mostrando capacità di governo.
Il filosofo liberale Benedetto Croce (1866-1952), che vedeva nel Risorgimento una tappa nell’itinerario di affermazione epocale dell’idea di libertà, nella sua Storia d’Italia, del 1928, difese il loro operato, presentandoli come appartenenti a «un’aristocrazia spirituale». Questa impostazione è stata aggiornata nel secondo dopoguerra dallo storico, anch’egli liberale, Rosario Romeo (1924-1987) che, pur ribadendo il carattere nettamente ideologico-politico del Risorgimento, ha riconosciuto allo Stato unitario un ruolo fondamentale nella realizzazione del processo di modernizzazione economica, a suo avviso grazie innanzitutto al Primo ministro sabaudo Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861).
Secondo la matrice ideologica nazionalistica, invece, di cui fu assertore autorevole lo storico Gioacchino Volpe (1876-1971), nel secolo XIX l’Italia, antica nazione culturale, avrebbe raggiunto l’indipendenza e l’unità proprio con il Risorgimento. Anche secondo il filosofo idealista Giovanni Gentile (1875-1944) il momento fondativo della nazione è stato il Risorgimento, il cui moto «rigeneratore» sarebbe stato completato dal fascismo. E il regime si presentò appunto come l’erede del processo di unificazione del Paese, cercando di realizzare quell’esigenza di «fare gl’italiani» che l’Italia liberale non era stata in grado di attuare compiutamente.
Negli anni del secondo dopoguerra gli studi storici sono stati largamente influenzati dall’interpretazione del comunista Antonio Gramsci (1891-1937), formulata tra la fine degli anni 1920 e l’inizio degli anni 1930, ma conosciuta solo nel 1949. Egli individuava la causa del prevalere della soluzione moderata nell’incapacità del Partito d’A-zione mazziniano di porre al centro del proprio programma la questione agraria e di coinvolgere le masse contadine. Il Risorgimento era visto come «rivoluzione passiva» e dunque conflitto di classe irrisolto. Fra i suoi epigoni, Giorgio Candeloro (1909-1988), autore di un’ampia Storia dell’Italia moderna, ha corretto le sue posizioni filo-gramsciane e ha ammesso che l’auspicata rivoluzione agraria sarebbe stata forse impossibile e comunque deludente per gli stessi contadini.
Vi è poi un’«altra» storiografia, che non ha mai accettato il Risorgimento come un fatto compiuto e che non si è espressa con continuità. Nata sulla scia di coraggiosi difensori del Trono e dell’Altare — come il napoletano Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa (1761-1838), il conte marchigiano Monaldo Leopardi (1776-1847), il modenese monsignor Giuseppe Baraldi (1778-1832), i piemontesi conte Emiliano Avogadro della Motta (1798-1865) e conte Clemente Solaro della Margarita (1792-1869) —, ha avuto quali elementi di punta i migliori polemisti de La Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti italiani, quali i padri Antonio Bresciani (1798-1862), Ilario Rinieri (1853-1941) e Pietro Pirri (1881-1969), nonché laici, come lo storico napoletano Giacinto de’ Sivo (1814-1867), e sacerdoti, come il giornalista ligure don Giacomo Margotti (1823-1887).
Dopo la rimozione del Muro di Berlino nel 1989 e la caduta dell’impero sovietico due anni dopo, la crisi delle ideologie, il declino dello Stato nazionale e la comparsa di una nuova generazione di storici, non più legata, anche per motivi anagrafici, ai protagonisti del dibattito post-bellico, l’interpretazione convenzionale del Risorgimento si è ormai logorata. Una sua rilettura senza pregiudizi ha permesso di inserire la storia italiana all’interno di un quadro finalmente affrancato dal paradigma storiografico della «decadenza», fondato su una proiezione anacronistica dell’idea dell’unità e dell’indipendenza nazionale, cioè sull’assunto che la costruzione di uno Stato unitario fosse l’unico filo conduttore della storia italiana dal Rinascimento in poi. I nuovi orientamenti si segnalano per una decisa presa di distanza dalla retorica risorgimentale, per il sorgere di istanze che mettono in discussione il modo con cui è stata compiuta l’Unità, per una crescente sensibilità ai temi politici e giuridici dopo la prevalenza della storiografia marxista, troppo attenta alle strutture economiche e sociali, e per una maggiore attenzione alla condizione degli antichi Stati italiani, grazie soprattutto alla grande storia d’Italia «per Stati» pubblicata dalla UTET, a partire dal 1976, sotto la direzione di Giuseppe Galasso (1929-2018).
Una lettura alternativa
L’unificazione politica italiana ha segnato la fine del cosiddetto «antico regime» — già iniziata con gli stravolgimenti introdotti da Napoleone Bonaparte (1769-1815) e accolti in buona parte dai sovrani della Restaurazione —, nonché l’inizio della disgregazione della società tradizionale e la sostituzione delle identità regionali con un’unica cultura nazionale, creata, come detto, soprattutto per «fare» gli italiani.
Oggi non è in questione l’Unità, ma non si possono ignorare le molte ferite, non ancora rimarginate, inferte al corpo sociale da quanti si ispiravano all’ideologia risorgimentale. Innanzitutto, l’attuazione di una secolarizzazione esasperata ha prodotto la nascita di una «questione cattolica», ossia il conflitto fra Stato liberale e mondo cattolico nel suo insieme, determinando la sostanziale scristianizzazione della sfera pubblica e la mancata formazione di una classe politica autenticamente cattolica. Tuttavia, la Questione Romana, ossia il problema dei rapporti fra Stato italiano e Santa Sede, nata a seguito della conquista di Roma nel 1870 da parte dell’esercito italiano, si è sovrapposta a quella Cattolica, oscurandola in gran parte. Soltanto nel 1929 si sarebbe giunti alla stipulazione dei Patti Lateranensi con i quali la monarchia italiana riconosceva la sovranità internazionale della Santa Sede e istituiva lo Stato della Città del Vaticano. Con il Concordato, che restituiva alla religione cattolica un ruolo pubblico nella vita della nazione, si sanava, almeno parzialmente, la situazione di radicale separazione fra Stato e Chiesa e si attenuava il carattere laicista dello Stato unitario. Proprio in quegli anni, però, andava completamente perduta fra i cattolici la interpretazione della storia risorgimentale come episodio decisivo del processo di scristianizzazione del Paese.
In secondo luogo, le modalità dell’unificazione hanno fatto nascere una «Questione Federalista» — affiorata più tardi —, relativa alla forma dello Stato, che i primi governi italiani vollero caratterizzata da un forte accentramento politico e da una pesante uniformità amministrativa, che hanno sconvolto l’«Italia dei campanili», caratterizzata da una grande varietà di forme politiche e da significative forme di autonomia. La soluzione che prevalse nel 1861 portò all’emarginazione delle classi politiche preunitarie, a un gigantesco esproprio di risorse materiali e immateriali — pensiamo, per esempio, alle opere di carità — degli Stati soppressi, allo sconvolgimento dei cicli economico-sociali regionali e interregionali. Conseguenza di ciò sono state l’estraneità di gran parte della popolazione al nuovo Stato e alla sua ideologia, la carente legittimità delle istituzioni politiche e la dispersione di una parte rilevante delle inestimabili ricchezze spirituali e culturali della nazione.
Ciò è stato più evidente nell’ex Regno delle Due Sicilie, il cosiddetto «Mezzogiorno», dove la sua unificazione forzata in un grande Stato ha determinato, prima ancora della spoliazione economica, un processo di alienazione culturale e il progressivo venir meno dei punti di riferimento sociali e istituzionali, che hanno aperto la strada prima a un imponente emigrazione transoceanica e quindi allo sviluppo della grande criminalità organizzata.
La Questione Meridionale è la storia dei tentativi compiuti dallo Stato italiano per sanare la lacerazione sociale e morale conseguente all’incontro-scontro fra realtà disomogenee, un vero e proprio urto fra differenti modelli culturali e forme diverse di organizzazione sociale, che dopo l’Unità è stato affrontato soprattutto come un problema di sviluppo ineguale e/o di ritardo civile, ignorandone l’aspetto culturale.
Martedì, 21 gennaio 2025
Per approfondire
Card. Giacomo Biffi, Risorgimento, Stato laico e identità nazionale, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1999.
Renato Cirelli, La questione romana. Il compimento dell’unificazione che ha diviso l’Italia, Mimep-Docete, Pessano con Bornago (Milano) 2000.
Walter Maturi, Risorgimento, introduzione di Alessandro Campi, Treccani, Roma 2024.
Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1998.
Lucy Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni,Donzelli, Roma 2007.